È da poco in libreria una raccolta di brevi saggi di Paul K. Feyerabend (1924-1994), Conoscenza e libertà. Scritti anarco-dadaisti.
Non nascondo la mia ammirazione per Feyerabend, filosofo della scienza inviso all’accademia e la cui eredità è andata dispersa, infranta sugli scogli del dogmatismo, delle politiche identitarie, delle “verità” urlate perché “oggettive”.
Feyerabend è stato un libero pensatore. Ho cercato più volte di imitare il suo stile, ad esempio il suo ricorso a brevissimi riassunti in calce ai capitoli della sua opera più nota, Contro il metodo (Against the method, 1975), una sorta di “TL; DR” (Too Long; Didn’t Read) che mi risuona molto: offrire a chi legge una panoramica svelta, ma non grossolana, di quel che troverà nel capitolo. Soprattutto, trovo magnifico il fatto che fa ridere, è molto divertente, è intriso di un umorismo affilato ma solidale, non sarcastico e non ironico: umoristico.
Una delle argomentazioni che più mi ha colpito nella raccolta, che si potrebbe definire “avvocature e tecnologie”, riguarda la capacità della pratica dell’avvocatura (quando esercitata nel senso anarco-dadaista propugnato da Feyerabend) di smontare il “sapere degli esperti”. Non solo il re è nudo, ma l’esperto è nudo, come diceva Brian Martin, studioso delle nocività degli esperti all’Università di Wollongong e vecchio amico; e chiunque può vederlo.
Personalmente avverso gli esperti: non le persone di grande esperienza (ci sono ancora, ma non si presentano come esperti), ma le persone che fanno calare dall’alto il loro (presunto) sapere, e che per rimanere esperti devono essere riconosciuti dai loro pari, ovvero da un qualche sistema dominante che, anche grazie a loro, si auto-legittima.
“Esperti” del genere propugnano la moltiplicazione di etichette per categorizzare in maniera “oggettiva” il mondo: ad esempio, ciò che rispetta il metodo scientifico e ciò che non lo rispetta e quindi scienza non è. E chi non si conforma viene come minimo dileggiato (si può anche finire sul rogo, o lapidati, perché no, è già successo e succede tuttora). Poi ci sono le idiosincrasie comportamentali, certo: non mi piacciono gli atteggiamenti di chi viene a spiegarmi come funziona il mondo, per quanta “ragione” possa avere.
Le scienze, auspica Feyerabend, devono essere sottoposte al controllo delle persone, del popolo, della democrazia. Altrimenti sono come le religioni. Ma così non è, anzi, è tutto il contrario: le scienze vengono invocate come produttrici di fatti inconfutabili, ricorso costante al principio d’autorità di fronte al quale chi si vuole dilettante (ma dilettante che s’impegna a informarsi, che studia in maniera appassionata) deve chinare il capo e sottomettersi.
Nemmeno per le tecnologie è così, non c’è controllo democratico, tanto meno diritti di opposizione da parte di individui o di minoranze non allineate: vengono spesso imposte, come ineluttabili e ovvie.
Questo è tanto più vero con le tecnologie attuali, come il digitale di massa, che non sono utensili ma trascinano con sé cambiamenti psico-sociali a catena. Riporto la tipica argomentazione, diciamo simondoniana (del filosofo Gilbert Simondon) per far presto: non sono utensili perché non si possono portare con sé. I dispositivi digitali sono utensili solo in apparenza, ogni paragone con il martello (utensile per antonomasia) è fuori luogo: lo smartphone con annessa intelligenza artificiale richiede concatenazioni di macchine in rete per “funzionare”. Preso singolarmente è del tutto inutile. Il martello è un utensile, lo smartphone è al limite un ingranaggio di un macchinario cibernetico reticolare in cui ogni livello e ogni nodo determina retroazioni: l’utente umano che armeggia con lo smartphone modifica il sistema in cui è inserito e viceversa. Eppure persone abili nell’avvocatura possono smontare tutte le argomentazioni degli “esperti”.
Persone non esperte di quello specifico ambito tecnico-scientifico, ma capaci di portare alla luce le contraddizioni di ogni posizione autoritaria che pretende di imporre la propria visione del mondo. Queste persone potrebbero insegnarci a vedere le cose da altre prospettive, senza farsi portatrici degli interessi del più forte.
Esempio a cui ricorro spesso: energia nucleare. Sì o no? O forse? Vogliamo lasciare la questione in mano agli esperti di nucleare? O peggio ai politici che si basano su tali esperti? Assolutamente no, direbbe Feyerabend: sono le persone a dover decidere. Ma purtroppo così avviene. Il mio auspicio invece è che chi si diletta dell’argomento vada ad approfondire, e porti argomentazioni a favore di posizioni diverse, e non si lasci irretire né intimorire dall’autorità degli “esperti”.
Mi è stato fatto notare che già accade, in particolar modo sotto forma di deleteri complottismi che dilagano sui social media. Ma si tratta di dilettantismi per nulla scettici, settari e fortemente autoritari, che aspirano all’egemonia, a essere riconosciuti come portatori di “verità” e come tale imposti, ancora una volta, a chiunque.
Inoltre con Musk a fianco di Trump i social media proprietari sono ormai completamente screditati come arena pubblica (che non sono mai stati) e si presentano esplicitamente come spazi di manipolazione reciproca.
Rimane opprimente l’expertise scientifica che si fa verità su cui articolare le politiche sociali, tanto più quando si estende a dismisura. Perché un fisico teorico dovrebbe avere un’opinione migliore della mia, di un dilettante, su come gestire dei fondi per la ricerca accademica, o appunto sull’opportunità di costruire centrali nucleari, se non per il principio d’autorità in un settore esteso ad altri campi? E anche se fosse esperto di centrali nucleari: chi lo paga? Si trova in conflitto d’interessi? Quali sono le sue opinioni politiche, in che modo si riflettono nelle sue ricerche e convinzioni?
Oggi sta avvenendo lo stesso per quanto riguarda la fantomatica intelligenza artificiale, che, vale la pena ribadire, non esiste, considerata anche la quantità di energia e lavoro umano, niente affatto artificiale, necessaria a far “funzionare” gli LLM tipo GPT (un buon compendio delle argomentazioni in merito si trova in S. B. Barale, L’intelligenza inesistente, Altreconomia, 2023).
Si ammantano di spiegazioni “scientifiche” interessi altri, ricorrendo a tutto l’armamentario tipico della tradizione aristotelica e anche magico-alchemica, ad esempio l’esperienza. Come ricorda Feyerabend, l’esperienza comune supporta l’idea che il Sole ruoti intorno alla Terra: è necessario introdurre ipotesi ad hoc per rendere pensabile l’opposto. Rifarsi all’esperienza è anche tipico della caccia alle streghe: si dimostra che una strega confessa di essere strega in seguito a specifiche torture.
Come volevasi dimostrare: è l’esperienza che lo dice! La comunicazione “scientifica” odierna è assai peggiorata in senso autoritario: Feyerabend mette a confronto il Malleus maleficarum, manuale di stregoneria pubblicato nel 1487 su mandato della Chiesa romano-cattolica, con la Dichiarazione di 186 autorevoli scienziati contro l’astrologia, apparsa nell’edizione di settembre-ottobre 1975 della rivista Humanist. Gli scienziati ne escono molto male: protervi, ignoranti dell’argomento, saccenti, prevenuti, forti con i deboli e deboli con i forti… Il paragone non vuole certo sostenere le violenze dell’Inquisizione, né propugnare l’astrologia come dottrina, ma segnalare da una parte l’infondatezza, secondo i parametri dichiarati della razionalità scientifica, della Dichiarazione contro l’astrologia, e dall’altra parte evidenziare la competenza dei dotti inquisitori a proposito del tema trattato nel Malleus.
Entrambi sono casi evidenti dell’imposizione violenta di una visione del mondo. A chi tocca decidere come procedere con la ricerca spaziale? Antibiotici? Biotecnologie? Armi automatiche spacciate per “chirurgiche”? Sostanze per “potenziare” gli umani, ormoni per trasformarli? Etc…
Disgraziatamente si moltiplicano i panel di esperti. Non sono gli esperti che mancano, tanto meno quelli prezzolati che concorrono per nuove linee di finanziamento. Sono i dilettanti, dilettanti non disposti a inchinarsi di fronte all’autorità e ai luoghi comuni. Gli esempi portati da Feyerabend di questo tipo di dilettanti sono in primo luogo Galileo e Copernico (Contro il metodo), ma anche Einstein. Prima della specializzazione i dilettanti hanno costruito i saperi scientifici. La mia convinzione (indimostrabile) è che ogni persona può acquisire le competenze dilettantesche sufficienti a maneggiare un ambito o un argomento qualsiasi, non importa quanto complesso. Se è volutamente complicato (il caso della IA è lampante), ci sono in ballo altre questioni. E non ci vuole certo un titolo accademico, o un’istruzione “superiore”, bensì persone attorno accoglienti e disposte a condividere ciò che sanno. Ci vuole mutuo appoggio per evolvere insieme.
Questa è la storia umana: gli umani “primitivi” erano in grado di sopravvivere in ambienti nei quali qualunque “moderno armato di razionalità scientifica” soccomberebbe rapidamente; e di tramandare le loro culture! Non mi pare che le nostre culture che si spacciano per superiori ed evolute stiano messe così bene: l’infrastruttura di internet è ridicolmente fragile, il cemento armato dura pochissimo, e tutto il resto va di conseguenza.
Non si tratta di semplificare i messaggi, ma di non perdersi nelle dispute secondarie. Meno sicumera, più scetticismo; meno fede nella tecnoscienza, più fiducia nelle capacità delle persone. Più le persone intorno a noi saranno forti, capaci di non farsi abbindolare, disposte a mettersi in gioco contro ogni supposta evidenza scientifica tipo “le leggi del mercato” (scienza economica?), “il diritto degli Stati” (scienza giuridica?), “la tecnologia migliore” (mito del progresso che è regresso sociale), più avremo qualche possibilità di limitare le catastrofi che ci attendono. Servono tutte le capacità, e mescolarle fra loro, con la letizia del dilettantismo, senza rigidità identitaria. E che ciascuno smetta di fare come se nessun altro fosse in grado di capire e di agire in maniera informata.
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