In materia di lotta alla deforestazione, la Cop26 ha fatto registrare due eventi.

Il primo consiste nella Dichiarazione dei leader di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo. Il testo è stato firmato da 141 paesi che promettono di “lavorare insieme per fermare e invertire la perdita di foreste e il degrado del suolo entro il 2030”. I Paesi firmatari rappresentano quasi il 91% della copertura forestale mondiale.

Il secondo evento consiste in una nuova dichiarazione su foreste, agricoltura e commercio di materie prime (FACT), intesa a favorire il commercio sostenibile tra i paesi produttori e consumatori di materie prime. Il FACT Dialogue è stato firmato da 28 paesi “che rappresentano il 75% del commercio globale di materie prime chiave” che contribuiscono alla deforestazione. Il documento fornisce una “tabella di marcia per l’azione” che identifica le azioni chiave e le aree di ulteriore discussione all’interno delle tematiche “Commercio e sviluppo del mercato”, “Supporto ai piccoli proprietari”, “Tracciabilità e trasparenza”, ”Ricerca, sviluppo e innovazione”. Allo stato attuale il FACT sembra essere poco più di una manifestazione di volontà (peraltro ancora in embrione e per le quali si definiscono solo i titoli), anche se una semplice visita al sito “The Tropical Forest Alliance”, che promuove il FACT, mostra ben evidenti piantagioni di palme da olio, che per quanto teoricamente ben gestite sono più parte del problema che della soluzione.

È interessante ora tornare ad occuparci del primo evento, la dichiarazione dei leaders.

Questa, a differenza di precedenti eventi simili, prevede 12 miliardi di dollari in finanziamenti pubblici provenienti da 12 paese, da rendere disponibili nel 2021-2025, per “sostenere il lavoro destinato a proteggere, ripristinare e gestire in modo sostenibile le foreste”, 7,2 miliardi di finanziamenti privati da fondi aziendali e filantropici, almeno 1,5 miliardi di dollari stanziati specificamente per proteggere le foreste del bacino del Congo, almeno 1,7 miliardi di dollari promessi per sostenere le popolazioni indigene e le comunità locali e promuovere i loro diritti di proprietà terriera. È contenuto inoltre un impegno degli amministratori delegati di oltre 30 istituzioni finanziarie a disinvestire dalle attività legate alla deforestazione indotta dalla ricerca di materie prime.

I paesi firmatari della dichiarazione si impegnano a “fermare e ribaltare la perdita di foresta” (“forest loss”) entro il 2030. Sebbene apparentemente si tratti di un accordo positivo, ci sono buone ragioni per avere serie riserve, come espresso da Kieran Mulvaney su National Geographics. Ancora una volta non è un accordo, ma solo una dichiarazione d’intenti. Il testo non ha carattere vincolante, è muto sulle procedure da attuare, non specifica obiettivi per paese e non prevede alcuna sanzione in caso di mancato rispetto.

Già nel 2014 la Dichiarazione (non vincolante) di New York sulle foreste prometteva la cessazione della deforestazione nel 2030. Negli anni successivi i tassi di deforestazione sono andati in direzione contraria, salendo del 41%. Tuttavia oggi alcuni campioni della distruzione delle foreste, come Russia e Brasile, sono firmatari del testo adottato a Glasgow. Ma cosa è stato firmato esattamente? Cosa significa “fermare e rovesciare la perdita di foreste” (“forest loss”)? Ci sono interpretazioni per cui eliminare una foresta non è una perdita di foresta “se il suolo viene poi usato per piantare alberi” (cosa che in monocoltura costa meno), magari per un “commercio sostenibile”, come espresso dalla FACT. Oppure per produrre “crediti di carbonio”, in vendita come “compensazione” per le emissioni di CO2 dei paesi industrializzati, per alimentare altiforni di carbone di legno o per produrre pellet o anche per piantare palme da olio. C’è un messaggio semanticamente sfuocato tra “deforestazione” e “perdita di foresta” che forse spiega l’atteggiamento di un paese come l’Indonesia. In questo paese la foresta pluviale residua viene distrutta per piantare palme da olio. L’Indonesia ha firmato la dichiarazione ma, reagendo all’interpretazione mediatica del testo sottoscritto, il suo ministro dell’Ambiente ha ritenuto giusto affermare su Twitter che “costringere l’Indonesia a raggiungere zero deforestazione nel 2030 è chiaramente inappropriato e ingiusto”. Il vice ministro degli esteri del paese, Mahendra Sinegar, successivamente, ha negato che la deforestazione zero fosse anche parte dell’impegno di Glasgow, dicendo a Reuters che il suo paese l’ha interpretato come un impegno per “la gestione sostenibile delle foreste!”. L’Indonesia produce con la Malesia almeno il 85 % dell’olio di palma. Avrebbe dovuto prolungare la moratoria su questa produzione e quindi sulla deforestazione. Non l’ha fatto.

Una consistente diffidenza è anche indotta dall’adesione del Brasile. Quale credibilità si può dare alla firma di Bolsonaro, personaggio che ha dichiarato guerra alla foresta amazzonica?

È abbastanza evidente che “forest loss” (“perdita di foresta”) e “deforestation” (“deforestazione”) sono termini differenti e che tale differenza lascia ben spazio ad interpretazioni che poco hanno a che fare con la salvaguardia delle foreste e della biodiversità in esse contenuta. Che i finanziatori privati vogliano mettere a produzione economica anche le foreste residue?

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