Che il viaggio a Washington della presidente Giorgia Meloni potesse portare a risultati concreti sul fronte della guerra commerciale era davvero difficile pensarlo, specialmente dopo che la proposta di “zero dazi” tra USA e Europa era stata respinta nettamente dall’Amministrazione statunitense e ribadita al Commissario europeo per il commercio, Maros Sefcovic. Allo stesso tempo supporre che Donald Trump potesse assumere posizioni sostanzialmente diverse da quelle brutalmente aggressive, appena temperate dalla tregua dei 90 giorni, per di più alla vigilia di importanti riunioni del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale era altrettanto impensabile. Oltre tutto la natura della visita della Meloni era stata messa in dubbio da più parti, se si trattava di una missione per conto della UE – non bastavano le telefonate con Ursula von der Leyen per accreditarla – o di un bilaterale Italia-USA, come i suoi fedelissimi nel Governo italiano avevano prudentemente detto alla vigilia della su partenza. Cosicché l’incontro si è svolto in un’aura di indeterminatezza che in fondo faceva comodo alla Meloni, potendo in questo modo vendere nel modo più favorevole qualunque tipo di esito, evitando le strette di una valutazione sui risultati concreti, avendo avvolto nel fumo gli obiettivi di partenza. La risposta di Trump all’invito a venire a Roma è rimasta indeterminata nei tempi e negli scopi e, secondo la stessa Meloni, non si sa se in quel caso intenderà farne sede di trattativa con la UE. Non a caso l’incontro con la stampa italiana, previsto prima della partenza da Washington, è stato sconvocato e la Meloni ha risolto con un whatsapp che definiva, in termini del tutto rituali e burocratici, l’incontro con il Presidente USA come un “confronto ideale e costruttivo”.
Il timore di una brusca accoglienza da parte di Trump è stato volutamente ingigantito per potere poi presentare come una vittoria i sorrisi e le parole di encomio che Trump non ha lesinato alla ospite italiana. Anche qui non c’è da stupirsi, dal momento che la Meloni poteva vantare un feeling di vecchia data con The Donald, avendolo sostenuto nelle sue accuse di brogli elettorali nel 2020. Del resto, nell’incontro, la Meloni ha detto le cose che Trump voleva sentirsi dire, a parte qualche sottile differenza che non poteva non essere rimarcata. Tuttavia un risultato c’è stato e come vedremo non va affatto sottovalutato. Come, ha giustamente osservato Piero Ignazi, alla fin fine tra i due protagonisti dell’incontro è stata riconfermata e rafforzata una “sintonia ideologica”1.
D’altro canto se si potessero tradurre in un grafico le innumerevoli e contradditorie dichiarazioni e azioni di Donald Trump, ne risulterebbe probabilmente un tracciato simile a quello di una pallina in un flipper. Un zigzagare improvviso e imprevedibile, da una parte all’altra, un salire e scendere senza una direzione definitiva e coerente, ma sempre con il massimo di energia nella spinta. Tutto ciò non significa affatto che siamo di fronte a un pazzo come viene descritto in frequenti banalizzazioni, o quantomeno faremmo bene a indagare il metodo che vi è quella follia, seguendo il consiglio implicito nel famoso detto shakespeariano (“there’s method in his madness”). In altre parole Trump sta non solo implementando un credo ideologico e ferocemente classista, ma sta seguendo a modo suo un piano che è alla base di quella che ormai possiamo chiamare trumponomics. Del resto l’autorevole The Economist, oggi tra i più critici, come il Wall Street Journal, sulle scelte trumpiane, non molto tempo fa titolava prudentemente che la “Trumponomics potrebbe non essere così male come molti si aspettano”2.
Ma certamente il 2 aprile 2025 Trump ha delineato con la consueta ruvidezza una svolta drastica nella politica estera, economica e finanziaria degli USA, buttando per aria regole e intese che riguardavano il commercio mondiale e creando conseguentemente forti turbolenze sui mercati finanziari. Non era mai successo, almeno in questi termini e in queste proporzioni nel secondo dopoguerra, anche se i primi segnali si erano avvertiti durante la prima presidenza di Trump. Al punto che emergono incrinature tra Musk e il tycoon, avendo il primo interessi assai concreti da tutelare in diverse parti del mondo, mentre la popolarità di Trump è in discesa rapida anche in Occidente. Nel nostro paese, ad esempio – ove la Meloni cerca di restare aggrappata al Presidente USA, in un gioco di spericolato equilibrismo nei confronti della von der Leyen, mentre Salvini si propone come il più autentico sostenitore della linea d’oltreoceano – recenti sondaggi, che certo non sono verità assolute ma spesso indicano tendenze reali, testimoniano un rapido crollo di fiducia da parte dei nostri cittadini nei confronti di Trump3. Negli USA i sondaggi di opinione tra i cittadini statunitensi mostrano cali ancora più considerevoli nel gradimento di Trump mano a mano che le sue minacce sui dazi si concretizzano. Secondo l’ultima rilevazione di YouGov per The Economist si tratta di un -14% che coinvolge anche settori di voto tradizionalmente repubblicano. Intanto le Borse segnano pesanti passivi sia in Europa che in Asia; Wall Street sale e soprattutto scende a seconda delle voci, vere o false che siano, che si inseguono nell’arco della giornata; mentre anche l’oro ha avuto un andamento altalenante, restando però dominante la tendenza verso la crescita che ha permesso di raggiungere nella giornata di mercoledì scorso la cifra record di 3.350 dollari l’oncia, segno tangibile quanto inequivocabile della ripresa della corsa verso i beni rifugio, di cui l’oro rappresenta l’eccellenza4.
Nelle ultime ore colpisce in particolare il crollo di oltre il 7% delle azioni del colosso tecnologico Nvidia, che prevede di perdere 5,5 miliardi di dollari nel trimestre che si chiuderà il 27 aprile, dopo che l’amministrazione Trump ha vietato la vendita in Cina dei chipH20, perché si ritiene possano essere usati in supercomputer cinesi. Il che costringe Nvidia a ottenere licenze speciali per la vendita. Una mossa che si inserisce nella più generale battaglia contro lo sviluppo dell’intelligenza artificiale nel grande paese asiatico. Ma se tale trovata fa crollare i titoli del colosso tecnologico statunitense, accade praticamente il contrario sui mercati orientali dal momento che – come ha dichiarato Vey-Sern Ling, direttore generale di Union Bancaire Privée – “L’innovazione IA in Cina è in pieno boom e il divieto sull’H20 non la rallenterà, anzi potrebbe accelerare l’uso di chip domestici” e come si è già visto la Cina può sviluppare modelli IA innovativi neutralizzando le restrizioni trumpiane. Quindi le azioni hardware cinesi hanno tenuto o sono andate in rialzo5.
Intanto lo scontro tra il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, e Trump si fa sempre più rovente. Il primo avverte che la Banca centrale potrebbe trovarsi in grave difficoltà a seguito delle mosse dell’amministrazione sul fronte dei cambi e che dunque potrebbe diventare difficile mantenere in equilibrio i due mandati a cui la Fed è tenuta, il controllo dell’inflazione e il raggiungimento della piena occupazione. E il Presidente, che è interessato solo all’abbassamento dei tassi di interesse, ne invoca apertamente il licenziamento.
Allo stesso tempo cominciano a delinearsi più apertamente e nettamente diverse posizioni all’interno dell’entourage e dell’Amministrazione trumpiani. Da una parte si collocano gli ideatori e i falchi della guerra commerciale, Peter Navarro, consigliere per il commercio e il manifatturiero, e Stephen Mirano, capo dei consiglieri economici del presidente. Dall’altra i segretari al Tesoro, Scott Bessent, e al Commercio, Howard Lutnick, sostenuti da importanti banchieri, quale Jamie Dimon, capo di JP Morgan. Alle loro pressioni su Trump sembra si debba attribuire la sospensione di novanta giorni sull’innalzamento delle tariffe doganali.
Un simile sconvolgimento non era certamente imprevedibile. Anche se sembra assumere persino tratti autolesionisti. Anzi era messo nel conto da Trump e dai suoi consiglieri economici. Vi è infatti una ragione di fondo che sta dietro le sue mosse ed un piano specifico.
Il già citato Wall Street Journal aveva definito “stupida” la guerra commerciale intrapresa da Trump. Ma non è così. Ce lo suggeriscono due studiosi americani, l’uno operante a San Francisco, l’altro a Pechino, i quali ci avvertono che le guerre commerciali sono in realtà guerre di classe6. Il perché è semplice. I dazi e i contro dazi aumentano inevitabilmente i prezzi delle merci in una economia integrata che tale rimane malgrado il rinculo della globalizzazione; quindi l’inflazione riparte e a farne le spese sono i ceti, le classi meno abbienti e interi popoli di quello che ormai siamo soliti chiamare (con una definizione di carattere più politico ed economico che non geografico) il Sud globale. Non è quindi come dice Jeffrey Sachs, pur all’interno di una intervista piena di buone cose, “che sarà una battaglia lose-lose, tutti hanno da perdere”7. Non tutti. Il fatidico 1% ne trarrà ulteriore vantaggio e le diseguaglianze già così enormi si approfondiranno ulteriormente. “È il momento di arricchirsi” ha detto Trump, inconsapevolmente – credo – ricalcando quasi il celebre invito lanciato, in tutt’altra condizione, da Deng Hiaoping. Il progetto di fondo di Trump è esattamente quello non solo di vincere la lotta di classe – cosa già avvenuta, come ci ha detto Warren Buffet – ma di stravincerla, anche a costo di calpestare quella middle class e quelle parti di classe operaia della Rust Belt (“la cintura della ruggine”, ovvero le zone deindustrializzate) che pure lo hanno votato8.
Questo disegno di fondo, per riuscire, ha bisogno di un piano, per quanto rischioso, che si muova a livello internazionale. Questo gli è stato fornito in un paper – “A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System” – elaborato nel novembre del 2024 dal suo principale consigliere economico Stephen Miran. Il nocciolo della questione è subito esplicitato nelle prime righe del testo “La radice degli squilibri economici risiede nella persistente sopravvalutazione del dollaro che impedisce l’equilibrio del commercio internazionale e questa sopravvalutazione è guidata dalla domanda anelastica di attività di riserva. Con la crescita del Pil globale diventa sempre più gravoso per gli Stati Uniti finanziare la fornitura di attività di riserva e l’ombrello della difesa, poiché i settori manifatturiero e commerciale sopportano il peso dei costi”. Il primo step di questo percorso è appunto rappresentato dall’aumento dei dazi. Miran si rende perfettamente conto che questo può portare in un primo momento, per l’aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione, a un rafforzamento del dollaro, anziché a un suo indebolimento come sarebbe da lui stesso auspicato quale obiettivo di fondo di tutto il piano. Infatti lo scrive nella pagina conclusiva dell’articolo: “In ogni caso, poiché il presidente Trump ha dimostrato che i dazi sono un mezzo con cui può estrarre con successo leva negoziale (ed entrate) dai partner commerciali, è molto probabile che i dazi vengano utilizzati prima di qualunque strumento valutario. Poiché i dazi sono positivi per il dollaro statunitense, sarà importante per gli investitori comprendere la sequenza delle riforme del sistema commerciale internazionale. È probabile che il dollaro si rafforzi prima di invertirsi, se ciò avviene”.
Ma nessuna paura, fa capire Miran, perché gli USA hanno altre frecce al loro arco. Certamente, spiega, “storicamente gli accordi multilaterali sulla valuta sono stati il mezzo principale per attuare cambiamenti internazionali nel valore del dollaro”. Come fu con il Plaza Accord del 1985, ove USA, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito si sono coordinati per indebolire il dollaro, frenandone poi l’eccessiva discesa con il successivo Louvre Accord del 1987. Ma allora il quadro era decisamente diverso. Ad esempio, mancava un player, oggi diventato un protagonista e un antagonista, dal punto di vista statunitense, sulla scena mondiale, quale è la Cina. È difficile oggi immaginare un accordo monetario multilaterale, una sorta di Mar-a-Lago Accord, dal nome della residenza in Florida di Trump. Allora, dice Miran, bisogna ricorrere al metodo del bastone e della carota: “Innanzitutto c’è il bastone delle tariffe. In secondo luogo c’è la carota dell’ombrello della difesa e il rischio di perderla”. Ecco quindi che il disegno strategico per riacchiappare la centralità e il dominio del dollaro nel commercio e nei mercati globali, e con esso la diminuzione del deficit commerciale e dell’enorme debito degli USA, si intreccia indissolubilmente con la costruzione di un sistema di guerra che funzioni da ricatto e minaccia permanenti. E che, per avere efficacia, non può basarsi solo su guerre latenti, ma su guerre effettivamente guerreggiate e possibilmente infinite se viste nel loro insieme, al di là dei singoli luoghi dove possono accendersi e (provvisoriamente) spegnersi. I pericoli di contro dazi, almeno nel campo dove ancora ha determinante voce in capitolo la declinante potenza di Washington – ad esempio l’Europa – sarebbero così eliminati o almeno fortemente attutiti dalla capacità di manovrare il bastone e la carota. Da qui la necessità di scavalcare ogni sistema di intermediazione a livello mondiale, come quelli nati alla fine della seconda guerra mondiale così come quelli che hanno cercato di governare la globalizzazione nel suo periodo più aureo, cioè l’ultimo ventennio del secolo scorso, e di trattare con i singoli Paesi ponendoli di fronte ad una scelta secca: o nella sostanza accettate i dazi oppure aumentate le spese per la difesa militare della NATO.
Nello stesso tempo Miran si pone il problema di come convincere le banche centrali di Cina, Giappone ed Europa a vendere le riserve di dollari in eccesso da esse possedute comprando sui mercati le rispettive valute nazionali. Per questa via il dollaro dovrebbe perdere valore e quindi ne trarrebbe profitto la competitività delle merci statunitensi. Non facile, come è evidente, soprattutto tenuto conto delle elevatissime riserve in dollari della Cina. Non solo, ma come evitare che la forte vendita dei titoli USA (i Treasury) possa provocare una corsa alla liquidazione di attività in dollari, quindi un rialzo dei rendimenti, ottenendo un effetto collaterale del tutto indesiderato (viste le pressioni di Trump sulla Fed su questo tema) e cioè che i tassi di interesse salgono anziché scendere? C’è un altro coniglio nel capace cappello di Miran pronto ad essere estratto: i cosiddetti titoli Matusalem. Ovvero, le banche centrali verrebbero incoraggiate a scambiare titoli a breve termine con quelli a lunghissima scadenza, fino a 100 anni, garantendo al contempo alle banche di approvvigionarsi della liquidità a loro necessaria senza essere costrette a vendere i bond in perdita9.
Questo è dunque il disegno e questo il piano di attuazione. Non siamo quindi di fronte ad atti di sconsiderata follia. Ma ciò non significa che questi non creino contraddizioni o che siano imbattibili. Certamente ci vorrebbe ben altra consapevolezza e altro spirito di quelli messi in campo qui da noi e in Europa. Mi riferisco sia ai propositi dei vari governi, sia a quanto è emerso a livello UE. La strategia dei contro dazi rischia di essere facilmente schiacciata dalla logica della trattativa con ogni singolo paese da parte degli USA e dal maneggio alternato del bastone e della carota. Oggi più che mai l’indipendenza dell’Europa dal disegno di Trump di riconquistare ciò che USA stanno perdendo, ovvero il ruolo di baricentro dell’economia e della politica mondiale, il famoso “secolo americano”, risiede nello spezzare il sistema di guerra, così consustanziale, come abbiamo visto, al disegno economico e politico degli USA, quindi farsi portatrice di un progetto di pace che in primo luogo si opponga al riarmo, alla cosiddetta difesa comune, ai progetti di un esercito europeo. Nello stesso tempo la via di uscita non può essere quella di inseguire gli USA nell’innalzamento dei dazi europei, quella di volgersi dal punto di vista commerciale ed economico verso i BRICS, verso i paesi del Global South, attuando accordi su basi paritarie. Non basta qualche troppo timida apertura registrata negli ultimi giorni da parte della von der Leyen verso la Cina e il mondo asiatico in generale. Bisognerebbe che le economie basate sull’export traessero dalla negatività della guerra dei dazi, l’occasione per un cambiamento di paradigma. In particolare i paesi che si sono basati soprattutto sulle fortune delle esportazioni, la Germania, ma anche l’Italia (per la quale l’export costituisce circa un terzo della parte più innovativa e propulsiva dell’economia nazionale) si concentrassero sullo sviluppo interno, aumentando l’intervento pubblico nei settori capaci di sviluppare l’economia e di venire incontro ai bisogni delle popolazioni, sbarazzandosi dei vincoli del pareggio di bilancio, addirittura infilati in Costituzione. La Germania lo ha fatto, ma finalizzando esplicitamente la spesa al riarmo, l’Italia non muove un dito, neppure dal versante dell’opposizione all’attuale governo, per cancellare la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio nell’articolo 81 della nostra Costituzione attuata – PD consenziente, anzi protagonista – nel 2012.
Come ha detto Thomas Piketty in una recente intervista: “Ora tutti i paesi [europei] che hanno investito per potere esportare si trovano penalizzati. L’Europa deve quindi uscire dalla sua postura attendista […] ovvero restrittiva […] abbiamo bisogno soprattutto di investimenti pubblici, nell’istruzione, nella ricerca, nella sanità […] dobbiamo inventare nuove forme di governance nel settore digitale per controllare i grandi gruppi privati”10. Ma purtroppo la UE si muove in senso opposto, come dimostra la sconcertante risoluzione in 197 punti e 59 pagine votata a Strasburgo lo scorso 2 aprile (di cui ha scritto in questa Newsletter la scorsa settimana Pasqualina Napoletano) che può essere considerata come un muro che l’Occidente vuole alzare verso l’Oriente e il Sud del mondo dentro un sistema di guerra che riguarda la spesa militare, come la produzione bellica, come gli indirizzi da dare all’insegnamento scolastico, come il più generale orientamento culturale. Anche qui dagli USA ci viene un input negativo, basti pensare all’offensiva trumpiana in atto contro le migliori università americane, che si concretizza nel taglio dei finanziamenti, come ha detto Christopher Rufo, ideologo della repressione accademica, “modificare la formula del finanziamento del governo federale alle università in modo da gettarle in uno stato di terrore esistenziale”11. Ecco la consonanza ideologica: questo è l’Occidente che Giorgia Meloni vuole fare di nuovo “grande” assieme a Trump.
Note
1 Piero Ignazi, “La favorita del tycoon e i boomerang di ritorno”, Domani, 18 aprile 2025.
2 “Trumponomics would not be as bad as most expect. Opposition would come from all angles”, The Economist, 11 luglio 2024.
3 Cfr. Renato Mannheimer “Crolla la fiducia verso Trump. Si amplia anche la frattura fra l’Europa e gli Stati Uniti”, ItaliaOggi, 8 aprile 2025.
4 Il Sole 24 Ore del 9 aprile 2025 sintetizzava così la situazione nel titolo a cinque colonne di prima pagina: “Borse nel caos, crollano Europa e Asia, Wall Street sull’ottovolante, oro in caduta”. Poco più di una settimana dopo, nell’edizione del 17 aprile lo stesso quotidiano annunciava il nuovo record dell’oro, vedi appunto Vito Lops, “Wall Street cade dietro i chip. Nuovo record dell’oro a 3.350$”.
5 Vedi Vito Lops, cit.
6 Matthew C. Klein, Michael Pettis Le guerre commerciali sono guerre di classe. Come la crescente diseguaglianza corrompe l’economia globale e minaccia la pace internazionale, Einaudi, Torino 2021.
7 Vedi Eugenio Occorsio, “È come una guerra che tutti perderanno” intervista a Jeffrey Sachs, Affari&Finanza, 7 aprile 2025.
8 Una trattazione più estesa di questi aspetti della politica di Trump è contenuta nel mio editoriale: “Il nichilismo di Trump”, Alternative per il Socialismo, n.75, Castelvecchi, Roma pp. 326.
9 Si veda anche, su questi ultimi temi, Luigi Pandolfi, “Matusalem bond, i prestiti a 100 anni, l’arma letale per coprire il debito USA”, il manifesto, 3 aprile 2025.
10 Anais Ginori intervista a Piketty, “Stati Uniti così brutali perché hanno perso il controllo”, la Repubblica, 17 aprile 2025.
11 Riportato nell’Editorial Board del New York Times, 16 aprile 2025.
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