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Chi arrivava a Glasgow 50 anni fa veniva immerso in una densa cappa di smog fuligginoso che gli abitanti erano costretti a inalare giorno e notte. La città che vantava i più grandi cantieri navali dell’impero aveva una densità abitativa simile a una metropoli indiana. Trovandomi lì nell’agosto del 1961, ricordo di quella visita soltanto la spettrale cappa di smog e una cena deprimente a base di fish and chips. Tornandoci poco tempo fa, non la riconobbi più. Roccaforte socialista per decenni, la città si era rigenerata: abbattuti i livelli di ozono e di particolato, imbrigliati i reflui industriali, migliorata la qualità dell’acqua, esteso ampiamente il verde urbano… La città più piovosa della Gran Bretagna era diventata perfino più ridente.

Come e meglio di Glasgow, tante altre metropoli del mondo vantano successi analoghi e si sono federate in un’associazione di città “virtuose”, presenti anche alla COP26 per dimostrare che la sostenibilità ambientale non è una chimera. E ora che la maggioranza dell’umanità si concentra in aree urbane, il dato acquista la massima rilevanza. Ma è ovvio che non è la buona volontà di associazioni o sindaci o tante Ong battagliere a poter risolvere la mega-crisi climatica.

Per risolverla, tutti i 190 Paesi del mondo si erano riuniti nel 1992 a Rio de Janeiro e avevano sottoscritto una convenzione-quadro sui cambiamenti del clima, ricca di buoni propositi ma priva di obiettivi e scadenze vincolanti. A sottolineare la vacuità di quel trattato intervenne anche la delegazione italiana. Il ministro Ruffolo che la guidava propose di introdurre nei Paesi industrializzati una tassa energia/CO2 il cui gettito venisse ripartito in tre lotti: uno per ridurre altre tasse in casa propria, un secondo per investire nelle energie rinnovabili e un terzo per finanziare il trasferimento di tecnologie pulite ai Paesi in via di sviluppo. Vidi i Grandi del mondo, da Bush a Fidel Castro, applaudire quella proposta avveniristica: il Financial Times la definì una delle rare proposte concrete emerse a Rio. Tuttavia, se invece di limitarsi ipocritamente ad applaudirla i Grandi l’avessero applicata, oggi la Terra starebbe molto meglio.

Per 26 volte i Paesi firmatari della convenzione si sono riuniti per “non” prendere decisioni vincolanti. Tutti d’accordo ad evitare che la temperatura media del pianeta aumenti oltre un grado e mezzo, ma intanto la concentrazione di CO2 nell’atmosfera continua ad aumentare: dopo aver oscillato per milioni di anni da 200 a un massimo di 270 parti per milione, favorendo così l’evoluzione della specie umana, nei soli due secoli dell’era industriale – complice anche l’aumento vertiginoso della popolazione – la concentrazione di CO2 è salita a 410 ppm e non smette di salire. Per farla tornare ai livelli preindustriali, non basteranno certo i placebo concordati a Glasgow da governi inchiodati ai loro bisogni e ai loro interessi immediati.

Alla COP26 si erano accreditati 503 lobbisti, oltre a un centinaio di compagnie petrolifere. La loro stessa presenza indicava quanto sia arduo non solo programmare l’uscita dalle energie fossili, ma perfino eliminare le sovvenzioni statali erogate a loro beneficio: si calcola che ogni anno nel mondo 450 miliardi di dollari di fondi pubblici vengano sborsati a sostegno di carbone, gas e petrolio. Dato che il settore energetico è responsabile dell’80-90% del riscaldamento globale, è chiaro che non se ne uscirà mai senza forti scossoni partiti dal basso.

Le lacrime con cui il presidente della COP26, Alok Sharma, ha chiuso i lavori sabato notte la dicono lunga sui risultati della 26° sessione. Mentre da un lato i governi confermavano all’unanimità l’impegno a evitare che il pianeta si surriscaldi più di 1,5 gradi (ora siamo già a +1,1°), dall’altro ognuno precisava a quale data sarebbe potuto uscire dalle energie fossili (carbone in primis) per conseguire l’obiettivo “emissioni zero”, obiettivo imprescindibile per salvare il pianeta. Ebbene, nessuna di quelle date dichiarate ci consentirà di contenere il surriscaldamento entro il famoso +1,5°. Peggio, pare che Boris Johnson, mentre esortava gli altri a disinvestire dalle energie fossili, abbia avuto la faccia tosta di ordinare ulteriori perforazioni al largo delle Shetland. La mazzata finale è stata inferta da Modi l’ultima notte: l’India – ha annunciato – non potrà disfarsi dell’uso del carbone prima del 2070, ossia fra mezzo secolo! Per vendetta della sorte, in quello stesso momento New Dehli veniva paralizzata da una nube di smog letale per i suoi cittadini.

L’atmosfera che si respira ad ogni COP è di manifesta impotenza, se non d’ipocrisia. Il mondo tenta di camminare verso una meta di sviluppo sostenibile, ma lo fa con il freno a mano tirato. Al riguardo è stato coniato un neologismo che rende bene il concetto: greenwashing. Un esempio? Anni fa la BP chiese a un semiologo americano amico mio qualche idea per “rinverdire” il proprio brand; il semiologo suggerì “BP = Beyond Petroleum”; la società accettò l’idea, finché fu costretta a lasciar perdere per non sprofondare nel ridicolo. Oggi siamo martellati dalla pubblicità: tutto è “bio”, tutto viene prodotto in maniera “sostenibile”. Che sia vero o no, vuol dire comunque che i consumatori di mezzo mondo si sono sensibilizzati al rischio dei cambi climatici. I produttori hanno agito di conseguenza, e perfino l’alta finanza sta disinvestendo dalle attività inquinanti. Ma l’altra metà del mondo – quella tagliata fuori dal “mercato” – patirà gli effetti nefasti dei cambi climatici, dato che i Paesi ricchi non hanno neppure mantenuto l’impegno di sborsare i 100 miliardi di dollari promessi ai Paesi più bisognosi.

Concludendo: di fronte all’impotenza (per non dire l’impudenza) dei governi, la palla passa ora alle nuove generazioni. Si è visto come abbiano riempito le piazze del mondo con le loro proteste e i loro progetti a tutela del “loro” pianeta. È così che hanno ribattuto alla esilarante battuta di Woody Allen: “Che cosa hanno fatto i posteri per me per dovermi occupare di loro?”.

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