Pubblicato su “il manifesto” del 09.04.2025.

Tra manifestazioni di piazza e crepe che attraversano gli schieramenti politici, tra sottili distinguo e spericolati equilibrismi converrà mettere a fuoco l’essenziale della partita che si sta svolgendo in Europa intorno alla “minaccia russa”.

In primo luogo non esiste né si intravede all’orizzonte alcun riarmo europeo, alcun concreto progetto di una forza di difesa comune.
Esiste invece un programma per spingere al riarmo gli Stati nazionali dell’Unione attraverso l’indebitamento (per quelli che se lo possono permettere).

Quanto a quelli già ultra indebitati, che trovino i soldi in qualche altro modo, e non è difficile intuire quale. Si richiede, insomma, che la spesa militare dei paesi europei si adegui alle pretese del socio di maggioranza della NATO, gli Stati Uniti. I quali non pensano minimamente di uscire dall’Alleanza atlantica e men che meno di rinunciare alla massiccia presenza militare nel Vecchio continente, la quale non consiste per l’essenziale nella paterna protezione dei cittadini europei ma in una leva irrinunciabile del dispositivo geopolitico statunitense. Ciò che preme al nuovo inquilino della Casa bianca è molto semplicemente scaricare il più possibile sui partner europei i costi dell’apparato militare occidentale.

Tra i protagonisti del cosiddetto riarmo europeo, gli Stati nazionali e gli Stati Uniti, chi non figura proprio è l’Unione europea, se non per la retorica bellicista che ci mette, per qualche allentamento dei vincoli sul debito e la promessa di una ricaduta positiva del riarmo sull’industria europea. Di fatto l’Europa che si militarizza in questo modo assomiglia molto da vicino a quella “Europa delle nazioni” che le destre nazionaliste europee vagheggiano da tempo, almeno da quando la Brexit ha mostrato a tutti che l’uscita dall’Unione non è una scorciatoia per il paradiso.

Poiché non esiste alcun riarmo europeo e la più grande capacità di indebitamento e di spesa è oggi appannaggio della Germania (che per l’occasione si è liberata dell’autoinflitta coazione al risparmio) quel che si prospetta sul più breve periodo è un massiccio riarmo della Repubblica federale tedesca del tutto sproporzionato rispetto ai risultati conseguibili su questo terreno dagli altri Stati nazionali europei. I quali sembrano avere ormai convenuto con una ricorrente rivendicazione della destra tedesca, e cioè che le speciali responsabilità della Germania verso i popoli d’Europa e le conseguenti autolimitazioni siano ormai definitivamente prescritte. E che l’agibilità geopolitica e militare della Germania dentro e fuori dai suoi confini debba essere integralmente ripristinata. Tanto che non vi sono nemmeno più remore nel discutere se la Repubblica federale possa e debba dotarsi di un proprio armamento nucleare.

Questa “svolta epocale”, già annunciata dall’ex cancelliere Olaf Scholz il 27 febbraio del 2022, si va compiendo ora in un paese nel quale una destra nazionalista e xenofoba è diventata la seconda forza politica, ha buone probabilità di conquistare il primo posto ed è già in grado di condizionare in molti modi il clima politico della Germania. Naturalmente anche Berlino si associa al coro di tutti quelli che, nel moltiplicare gli armamenti, giurano e spergiurano di dedicarsi esclusivamente a un’opera di deterrenza, di intendere prevenire le guerre e non certo di volerne creare la condizioni.

Fatto sta che un siffatto sistema di deterrenze multipolari e nazionalizzate non figura proprio tra gli scenari più rassicuranti. Come si può parlare di una comune politica di difesa europea quando anche una scelta come quella di uscire dalla convenzione internazionale che mette al bando le mine antiuomo è lasciato all’arbitrio dei governi nazionali? La Finlandia ha fatto proprio ora questa scelta sciagurata. E se qualcun altro finisse invece col ritenere indispensabile alla propria sicurezza dotarsi di armi chimiche e batteriologiche?

Mentre la sostanza resta nella disponibilità dei governi nazionali, la Commissione europea si cimenta nell’esibizione retorica di una trita cultura bellicista. Dall’immancabile richiamo ai valori di libertà democrazia e solidarietà, che bisogna aver la forza (militare) di difendere, allo spirito guerriero che difetterebbe alla gioventù europea, all’intera società civile cui si chiede di familiarizzare con l’idea della guerra e di prepararsi alle pratiche di autoconservazione che le si confanno.

Ma non è difficile leggere, nelle modalità stesse cui la governance politica europea fa ricorso nella sua chiamata alle armi, quanto le decisioni che riguardano la pace e la guerra siano estranee alle forme della democrazia. Le dichiarazioni di guerra non sono sottoponibili a un pronunciamento popolare, non sono costituzionalmente materia di referendum. L’emergenza, reale o immaginaria che sia, implica sempre, a vari gradi, il restringimento o la sospensione delle procedure democratiche, fin dall’antico istituto della dittatura nella Roma repubblicana.
Così la preparazione alla guerra già esercita l’intera società a fare a meno della democrazia o ad accettarne almeno il ridimensionamento a favore della ragion di Stato. La leva obbligatoria, sulla cui reintroduzione si strepita in diversi paesi europei è la prova provata che combattere non è una scelta e che la guerra, anche la più sentita, la fanno per la maggior parte quelli che non l’hanno scelta.

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