Intervento conclusivo al convegno del CRS “La questione morale”, svoltosi a Catania il 15 e 16 aprile 1988. Dattiloscritto inedito di 22 pagine, delle quali sono qui pubblicate le pp. 1-12.
In questo convegno abbiamo cercato di chiarire il significato che diamo a queste due parole: questione morale. Non le riferiamo soltanto alla crescita della disonestà del singolo, al fatto che ci sono più ladri. Ci sono, lo sappiamo, questioni brucianti di moralità individuali di fronte alle quali troppo spesso ci troviamo di fronte a silenzi, omertà, ambiguità e indifferenza. Ma non vogliamo fermarci a questo, né al numero dei processi, degli accusati e dei condannati. Le disposizioni, i caratteri, i difetti degli individui non bastano a spiegare l’entità e l’urgenza che sta assumendo il fenomeno.
A nostro parere dietro quelle due parole – questione morale – c’è un mutamento netto della funzione che ha tanta parte della vita politica e dei suoi soggetti, in particolare dei governanti. Voglio essere sincero. Esito a usare quelle parole per il timore di ridurre a singole vicende di Tizio o Caio, o ad oscillazioni di costume quello che sta accadendo, nascondendo le radici vere, gravi, del fenomeno che io definisco un pesante spostamento di poteri nello Stato e nella società. Per brevità le chiamerò “nuove oligarchie”, nuove reti di potentati, con una caduta della funzione e dell’orizzonte dello Stato repubblicano.
In questo convegno è stato sottolineato lo stretto legame tra la caduta della funzione progettuale dei partiti di governo e l’estendersi della corruzione. Proprio in quanto governano hanno perduto la capacità e la funzione di progettare la società, un suo assetto diverso dall’esistente. La domanda è sulle ragioni di una caduta così marcata di progettualità. Giuseppe Vacca ha ricostruito in modo puntuale i processi di internazionalizzazione che hanno spogliato gli Stati nazionali di poteri decisionali, sovrani. Io sottolineerei anche la grande, grave, ristrutturazione sociale determinata dalla rivoluzione neo-conservatrice.
Due atti politici di Berlinguer, la questione morale e la lotta operaia alla Fiat
Pietro Barcellona nell’introduzione – molto bella anche se amara – ha ricordato Enrico Berlinguer, il primo che adoperò con forza queste parole. In quella scelta è probabile che influì in Berlinguer – per come l’ho conosciuto – una forte ispirazione etica. Ma non credo che vi fosse un disgusto, un bisogno di purezza. Non riesco a separare quell’evocazione da un altro suo atto politico di grande rilevanza e che gli fu molto rimproverato. Ricordate? Enrico Berlinguer andò a parlare ai cancelli della Fiat, agli operai in lotta della fabbrica simbolo della storia italiana. Credo che Berlinguer andò con grande consapevolezza a quell’appuntamento, valutandone tutta la portata e anche l’arditezza. Berlinguer era molto misurato, prudente. Perché compì quell’atto? Secondo me perché avvertì che non si trattava di una lotta parziale, torinese, che non riguardava solo la Fiat, ma che eravamo a una svolta. Era l’inizio di un processo che metteva in discussione i rapporti di potere su scala nazionale. Berlinguer avvertì che l’attacco colpiva il mondo operaio, non solo quegli operai in carne e ossa, tendeva a dislocare le sedi essenziali delle decisioni per la vita non solo di Torino o della vicenda della Fiat, ma per la vita di tutti i paesi.
Alcuni, e non erano solo reazionari, gli hanno rimproverato quel gesto. Ma dobbiamo domandarci cosa fu quella sconfitta: persero solo gli operai della Fiat? Non lo credo. Con quella e poi altre vicende si sono aperti gli spazi per poteri volti a scavalcare la forza di risposta sociale che esisteva nel paese, nelle grandi masse popolari, e anche l’incidenza dei poteri pubblici. Più lo guardo da lontano, più mi colpisce la radicalità e l’evidenza del mutamento anche per le successive accelerazioni che ha avuto. Sono un deputato dell’Umbria. Ebbene le principali imprese della regione sono state in breve tempo comprate dai grandi magnati dell’economia italiana. Da Agnelli a Gardini a De Benedetti sono venuti e si sono impadroniti del meglio. Prendo ad esempio De Benedetti, considerato un esponente della borghesia illuminata. Con un’operazione di una semplicità e linearità davvero impressionanti ha comprato la Buitoni, ci ha guadagnato, dopo poco più di un anno l’ha rivenduta a una società straniera, la Nestlé. Guardate come avviene lo spostamento di poteri. Questo grande magnate, ma si potrebbe pure dire questo governante, non si è preoccupato di dare un’informazione, non dico agli operai, ma allo Stato o alla Regione, nemmeno ai partiti. Potrei fare molti altri esempi in altri settori industriali e finanziari e altre aree del paese da Torino a Genova, a Napoli, a Taranto; potrei parlare della Sme o della Montedison o di Mediobanca. Tutte decisioni che avvengono con lo Stato, il Governo, e i partiti di governo che al massimo contrattano a valle, le conseguenze residuali di queste decisioni, soprattutto le distribuzioni di potere interne, tra di loro. Sono atti che investono non solo il volto produttivo e sociale del paese, ma il volto culturale, la fisionomia nazionale del paese. Ecco, lo spostamento di poteri che dobbiamo guardare lucidamente, ecco la caduta di progettualità di cui abbiamo parlato in questo convegno. Sono perfino generoso verso i partiti di governo se dico che hanno lasciato fare, hanno dato spazio e poi hanno sostenuto.
La riduzione dei partiti a ceto politico e il voto di scambio
Quindi, sono stati ridotti sempre più a ceto politico subalterno; sempre più la politica invece di essere progetto, ipotesi e programma di società, dell’interesse generale, si presenta come gestione tecnica, amministrazione delle quantità redistributive che derivano dalle decisioni realmente sovrane che sono in mano ad altri. I partiti sono agenti di scambio, usano risorse pubbliche di questo o quel pezzo di apparato che controllano, per redistribuzioni parziali. Si è determinato un circolo vizioso tra partiti, con correnti e sottocorrenti e gli apparati pubblici, con i primi che per legittimarsi al governo hanno bisogno di controllare i secondi. E per ottenere questi strumenti di potere devono ricorrere al mercimonio dei voti.
Confesso che un po’ capisco questi manovratori di tangenti, per quello che alcuni hanno ammesso: “Sapeste quanto ci costano le elezioni!”. E dico a me stesso: “Tu non puoi vantarti!”. Sono deputato da 40 anni e non spendo un soldo per esserlo, vado in giro in campagna elettorale, mi raccontano dei banchetti organizzati da candidati, e a me pagano la cena i miei compagni, non tiro fuori un quattrino, sono un privilegiato. Non posso vantare alcun merito dell’onestà. E fossero solo i banchetti! C’è tutta la rete dei controlli e dei controllori dell’amministrazione dei voti, c’è l’uso degli strumenti televisivi e non solo, tutte le spese di rappresentanza. Ho letto cifre fatte da candidati democristiani: chi parla di 20 milioni, chi di 500, chi di 800 milioni, chi di 1 miliardo. Ma più della spesa mi colpisce il sistema del traffico dei voti di preferenza. Degli aspetti penali si occupano i giudici, a me colpisce l’opacità della politica che ne deriva. E c’è qualcosa di più profondo. C’è una riforma istituzionale occulta. Io apprezzo le parole ripetute continuamente da Ciriaco De Mita e Bettino Craxi sulle riforme istituzionali da fare, ma non parlano mai della riforma già avvenuta che ha mutato aspetti di fondo e ha letteralmente stracciato alcuni articoli della Costituzione.
La riforma occulta della rappresentanza
Come si formano i governi? Come vengono scelti i ministri? Nella Costituzione è scritto che li nomina il Presidente del Consiglio incaricato. Ma è questo che accade? Mi ricordo, nella vicenda del governo Goria, un’intervista clamorosa di Oscar Scalfaro, in cui racconta il colloquio che ebbe con De Mita. Gli disse: “Bada, non puoi più essere Ministro degli Interni, non perché hai fatto male, anzi hai fatto bene, ma ci deve andare Fanfani. Vuoi la pubblica istruzione?”, Scalfaro rispose – gliene do atto –: “Ma no, ci sono stato, non mi interessa”. “ Vuoi un ministero economico?”; e Scalfaro rispose: “Ma veramente non me ne intendo molto”. È impressionante il mercato dei ministeri, avulso completamente da una riflessione sulle competenze e sul programma, in una trattativa privata tra il segretario di partito, che non avrebbe nessun ruolo nella formazione del governo, ed un candidato. Come forma la lista De Mita? Seguendo quali criteri? Ha ricevuto dalle correnti e dagli altri partiti la rosa dei candidati e in qualche modo li combina. Che senso hanno, dunque, le prediche sulla governabilità, gli appelli alle riforme istituzionali, se i governi sono costruiti con metodi che colpiscono direttamente la rappresentanza, che è la struttura della Repubblica?
Riflettete su questa parola “rappresentanza”. Su questo, tra l’altro, i compagni socialisti ci fanno da sempre la predica, hanno messo sotto processo Togliatti per non aver compreso e accettato realmente la democrazia rappresentativa. Ma perché ci sia rappresentanza deve essere chiaro il contenuto del mandato ricevuto, basato su un rapporto. Questo rapporto diviene oscuro, quando i contenuti sono scavalcati dai traffici dei posti, quando l’aggregazione non avviene sui programmi ma su questo gioco all’occupazione dei posti di potere e la politica è ridotta a mercato di scambio.
Il popolo comunità della Costituzione in frantumi
Così si agisce anche sul corpo dei rappresentati, l’ operazione ha una sua forza di corruzione che tende a frantumare, a corporativizzare la massa che nella Costituzione è chiamata “popolo”. Grande, solenne parola Popolo che vorrebbe dire comunità, e viene spezzata, segmentata, ridotta appunto a mercimonio. Colpita prima di tutto nel suo nucleo più forte, nel suo fondamento culturale, nella sua base storica, con questo arrembaggio, questa selezione selvaggia con cui si tende a rompere gli elementi di solidarismo, le scale di valori.
Perché ci sorprendiamo allora della disonestà e della corruzione se la politica si riduce a questi connotati. Perché ci stupiamo del carattere selvaggio che stanno assumendo le concentrazioni urbane, lo spazio tipico dove si compie questa polverizzazione e riclassificazione delle esperienze umane, con una perdita dei diritti di cittadinanza e della capacità sovrana che è clamorosa. Tanto più grave al Sud dove sconvolgimenti e rotture sono stati in questi anni più profondi. E dove, bisogna dirlo, le aggregazioni storiche che potevano resistere a questa ondata che frantumava la vita delle masse erano più deboli. La crisi delle istituzioni è qui più grave, proprio perché l’innovazione doveva essere più profonda e più ardita, su beni essenziali: sull’occupazione, sul sapere, sull’organizzazione dei servizi, sulle strutture della comunicazione. E i prezzi di questa riduzione della politica ad affare sono stati più pesanti perché si sono innestati su una vecchia regolazione autoritaria, sulla dualità dello Stato che si esprime nella presenza della vecchia e della nuova mafia. Nuova nelle sue dimensioni internazionali, nella finanziarizzazione, nel traffico della droga e perfino delle armi.
Qui è il senso vero della Questione morale come attacco ai diritti di rappresentanza e di cittadinanza del popolo, quindi alla vera risorsa di mobilitazione innovativa e solidaristica.
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