Interventi

Ora che l’“avventuriero” di Rignano è riuscito nel suo piano di mandare a casa il Governo Conte e di favorire l’arrivo di Draghi alla Presidenza del Consiglio, è opportuno ricordare le tappe della sua resistibile ascesa.

Andrebbe, però, sottolineato anche che le prime, quasi generali, accuse di aver “sfasciato” sono state sostituite da un altrettanto quasi generale plauso per l’incarico a Draghi (riconoscendo, in qualche modo, il merito a Matteo di aver provocato l’arrivo dell’“Uomo della Provvidenza”).

Ricostruendo il passato di Renzi, si potrebbe cominciare da quando, in qualità di Presidente della Provincia di Firenze, ancora esponente della Margherita (che non si era ancora unificata con i Democratici di Sinistra), ebbe comportamenti autoritari nei confronti degli Assessori della sua Giunta Marzia Monciatti e Mauro Romanelli, che licenziò in tronco, senza nemmeno un tentativo di confronto, per degli atti da lui non condivisi.

Non prese minimamente in considerazione le proteste di una parte consistente della società civile attiva, in particolare del movimento delle donne: durante un’assemblea pubblica in cui le sue azioni furono contestate da tutti i partecipanti, mostrò la sua arroganza parlando in continuazione al telefonino senza ascoltare gli interventi. Ma ciò non suscitò alcuna reazione nei DS, che pure erano gli “azionisti” principali della sua maggioranza.

Nel frattempo toglieva fondi alle politiche sociali per investirli in un’iniziativa tutta di immagine denominata il “Genio fiorentino”.

Si aprì così la strada per divenire sindaco, grazie alle primarie, una pratica introdotta fra i DS da Walter Veltroni l’“Americano”, imitatore acritico dei metodi utilizzati dai Democratici degli Stati Uniti nei loro rapporti con gli elettori (imitatore che impiegò le primarie aperte a tutti/e, non solo per individuare i candidati a sindaco, ma anche per eleggere il segretario del partito, il che risultava un contro-senso in quanto annullava, o quasi, l’impegno diretto in un soggetto politico – quella che un tempo si chiamava la “militanza”).

Anche da sindaco il geniale Matteo fu in gran parte “chiacchiere e distintivo”, affidandosi a provvedimenti come la pedonalizzazione di piazza Duomo (che subito fece il giro del mondo), impegnandosi a non utilizzare altro suolo per edificare (sapendo bene che ormai si era deciso di cementificare ogni spazio cementificabile), distruggendo progressivamente il tessuto partecipativo costruito negli anni in città con il decentramento amministrativo (e cioè diminuendo poteri e risorse dei consigli circoscrizionali o di quartiere, strumenti di partecipazione democratica, e promuovendo un rapporto diretto dell’Amministrazione con la cittadinanza nelle “100 assemblee 100 in una notte sola”, un’iniziativa populista solo immagine, essendo privo di sostanza e di continuità). Si tratta del periodo durante il quale dalla sua stanza in Palazzo Vecchio, come ha raccontato in un libro, poteva vedere il luogo in cui era stato ucciso Francesco Ferrucci, scambiando piazza Gavinana, nell’Oltrarno, per la località in provincia di Pistoia in cui Ferrucci fu assassinato da Maramaldo.

Le primarie “veltroniane” lo fecero diventare anche Segretario del PD , sull’onda dei suoi spettacolari incontri annuali, a partire dal 2010, nello spazio della Leopolda a Firenze (molto reclamizzati dai giornalisti ed a cui aderirono personaggi dell’arte e, naturalmente, dello spettacolo, contribuendo a farne degli appuntamenti di rilievo, delle ottime “vetrine” pubblicitarie, che produssero documenti inconsistenti, che avevano poco a che fare con le scelte reali, come la “Carta di Firenze” nel 2010, e “Italia obiettivo comune”, frutto del Big Bang “leopoldino” del 2011).

In un primo tempo vi furono coinvolte anche persone che, in buona fede, ritenevano innovative le pratiche di colui che si auto-proclamava “rottamatore” di un mondo politico vecchio e un po’ imbalsamato. Ma si ricredettero presto, avendo preso coscienza di quale fosse il gioco politico del giovane Matteo. Ne è un esempio Tomaso Montanari, che diventerà poi uno dei più agguerriti ed efficaci critici di Renzi e del suo modo di far politica.

Da Segretario del PD rassicurò il Presidente del Consiglio Letta, del suo stesso Partito, sulla tenuta del Governo (probabilmente con un motto che lo ha caratterizzato anche in altre occasioni: “stai sereno”), ma dopo poco tempo riuscì a sostituirlo, anche questo con grande risalto sugli organi d’informazione (in cui venne messo in rilievo come, trentanovenne, fosse il “più giovane presidente del consiglio di sempre”, il “più giovane leader del G7”, un “fenomeno”, insomma, al di là di quello che diceva e di quello che metteva in atto). E quello che metteva in atto era veramente nefasto per il mondo dei lavoratori e delle lavoratrici (pensiamo al “Jobs act”, che espandeva ulteriormente il precariato ed aboliva l’articolo 18 dello “Statuto dei lavoratori”, un caposaldo della loro tutela – si trattava di un’opera di demolizione che era riuscita solo parzialmente ai governanti precedenti, anche a quelli di destra, “berlusconiani”). Sulle orme del premier inglese Tony Blair, un laburista “innovatore” (nel senso che vedremo tra poco) che aveva proseguito l’opera devastatrice dei diritti di chi lavora avviata da Margaret Thatcher (quella del TINA – “There Is Not Alternative” al dominio del capitalismo finanziario).

Ma la resistibile ascesa di Renzi, alimentata dal risultato del PD alle elezioni europee (40%), proseguì sotto le insegne di quella che era un tempo la sinistra e che era stata presa, ormai da parecchi anni, nella spirale della cosidetta “innovazione” (un termine molto in voga in quel periodo) che riconosceva il primato dell’impresa e del mercato (e metteva in secondo piano i principi di uguaglianza, di solidarietà, di contrasto ai poteri forti – , principi su cui era nata e si era sviluppata). Tony Blair ne è stato l’emblema e non a caso il nostro Matteo più volte si è qualificato suo seguace.

Anche molti di coloro che nel PD non condividevano fino in fondo le politiche renziane dicevano: “Comunque lui ci fa vincere”.

Ad arrestare temporaneamente la corsa di Matteo fu il risultato, indubbiamente negativo per chi vi aveva giocato tutte le sue carte, del referendum costituzionale.

Ma anche questo insuccesso non fu sufficiente a toglierlo di scena.

Tornò ad essere segretario del PD, sostenuto da una parte del partito come se potesse esserne il “salvatore”, proseguendo una carriera nella quale era stato sempre, o quasi, al vertice della formazione a cui aderiva (del Partito Popolare prima, della Margherita poi ed infine del Partito Democratico). Fino all’esito, deludente per il PD (ma non per lui, che fu eletto senatore), delle elezioni politiche del 2018. Il che comportò, comunque, le sue dimissioni da segretario.

Sembrerebbe qui concludersi la sua ascesa, ma Renzi, come la Fenice, rinasce dalle sue ceneri e continua la sua opera distruttrice, in sintonia con la Confindustria, con i poteri finanziari, con i “padroni del vapore”, per dirla con un’espressione usata spesso da Ernesto Rossi. Un’opera che ha sempre messo in atto fin dall’inizio della sua carriera politica – l’essere stato boy-scout non gli aveva insegnato granché in fatto di solidarietà e d’impegno per gli ultimi.

Fino a giungere ultimamente, mentre poneva fine, dall’alto del 2 o 3 per cento di consensi al suo partitino personale (ma avvalendosi anche delle “terze colonne” lasciate all’interno del PD), ad un incontro amichevole, volto ad intessere affari nel segno del Rinascimento, con il despota assassino dell’Arabia Saudita, a cui ha manifestato la sua ammirazione per il costo del lavoro in atto in quel Paese.

Come si può dedurre da questo breve “excursus”, molte volte la sua scalata al successo, priva di retroterra progettuali e culturali seri, avrebbe potuto facilmente essere interrotta. Ma, come nel caso dell’Arturo Ui brechtiano, hanno prevalso meschine logiche di bottega e ciò non è stato fatto.

Con un ulteriore passo avanti (e ne è conferma, comunque, al di là dei risultati che riuscirà ad ottenere, l’affidamento al “tecnico” Draghi dell’incarico di formare il Governo) nel processo, che sembra inarrestabile, di un progressivo degrado della politica.

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