Il 2 novembre scorso, alla Cop26, Stati Uniti, Comunità Europea ed oltre 100 paesi si sono impegnati a ridurre le loro emissioni di metano del 30% entro il 2030, alleandosi nel Global Methane Pledge. Se tale riduzione fosse effettiva, nel 2050 il riscaldamento globale, sarebbe ridotto di 0,2 °C.

Il metano (CH4) è il maggior costituente del gas naturale ed esprime una capacità climalterante di grande rilievo. Poiché la molecola si degrada nel tempo con una certa rapidità, l’effetto in 100 anni supera di 30 volte quello della CO2, mentre su tempi brevi l’effetto è oltre 80 volte. A fianco delle pure notevoli emissioni correlate alle attività agroalimentari, gran parte del metano disperso in atmosfera risulta direttamente correlata ad attività estrattive di gas o altri fossili, come da fughe sulla rete di distribuzione. Non essendo necessari interventi strutturali imponenti sugli apparati produttivi e distributivi, è tecnicamente semplice abbattere tali perdite, con un effetto climatico immediato che può risultare molto importante.

A fronte di questa potenzialità senz’altro positiva i paesi che aderiscono al Global Methane Pledge (ma spicca l’assenza di Cina e Russia) lo fanno su base volontaria, senza alcun vincolo, sanzione e scadenza temporale, come in tutti i casi analoghi.

Qualcosa di più del Global Methane Pledge si può capire dall’analisi dei ‘supporter’. Tra questi spiccano molte organizzazioni e fondazioni private tra le quali la Global Methane Iniziative, una partnership pubblico-privato che si propone la “riduzione delle barriere al recupero ed all’utilizzo del metano come sorgente di energia pulita”. Tralasciamo di commentare il termine “pulita” (il metano rimane una fonte fossile che come tutte le fonti fossili bruciando produce CO2). Il punto più importante è che, nelle condizioni date, sorge il sospetto che l’interesse ad abbattere le fughe sia essenzialmente di tipo economico, in ragione della prospettiva di significativi incrementi del costo del gas – cosa di cui questo primo scorcio di ripresa post-pandemica lascia già vedere i segni.

Senza obblighi vincolanti o penali il Pledge, in piena logica di “green business”, appare anche funzionale allo sdoganamento “verde” del gas, contribuendo alla sua permanenza nel sistema energetico anche laddove se ne potrebbe fare senz’altro a meno perché facilmente sostituibile da fonti rinnovabili. In questo senso, il “caso italiano”, dove si chiudono centrali a carbone volendole sostituire con centrali a gas risulta tristemente emblematico.

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