Materiali

La riforma del processo penale tra tecnica e politica

Pubblicato il 14 Ottobre 2021
Diritto, Materiali, Politica, Scritti, Temi, Materiali

Tecnica e politica nell’iter riformatore. La “mediazione” Cartabia

Alla legge delega di riforma del processo penale, di recente approvata dal Parlamento, hanno posto mano tecnici del diritto – i componenti della Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi , incaricata dal Ministro della giustizia di redigere uno studio preparatorio e un articolato normativo – e politici, che si sono confrontati con la Ministra Cartabia, autrice poi di una serie di emendamenti al disegno di legge del precedente Guardasigilli Bonafede che hanno definito la fisionomia ultima dell’intervento riformatore.

Si è trattato di una complessa “mediazione” – così è stata definita dalla stessa Marta Cartabia – che in più punti si è discostata dai contenuti e dalle proposte della relazione Lattanzi, dando vita a una normativa di segno notevolmente diverso, presentata come l’unico compromesso possibile tra le diverse forze politiche della composita maggioranza di governo.

Sarebbe sbagliato raffigurare questa vicenda come uno scontro frontale tra tecnica e politica.

Ma certo sono notevoli le divergenze – che verranno di seguito illustrate – tra le proposte della Commissione Lattanzi e la legge definitivamente approvata.

Al punto che un autorevole componente della Commissione, il professor Vittorio Manes, intervenendo a una tavola rotonda del Congresso dell’Unione Camere Penali, ha sentito il bisogno di rievocare la leggenda della nave di Teseo.

Nave sacra, ancorata nel porto di Atene e meta di pellegrinaggio dei cittadini che ne asportavano schegge o pezzi da conservare come reliquie; così che, dopo tante manomissioni e sottrazioni, era difficile dire che il relitto fosse ancora la nave di Teseo.

Non sappiamo dire se sia questa la versione più fedele del mito o se non sia più autentica l’altra, che racconta di una nave tante volte riparata nel corso del viaggio di Teseo da giungere in porto completamente trasformata e ormai irriconoscibile.

È certo però che, in entrambe le versioni, il paradosso della nave di Teseo rappresenta efficacemente ciò che è avvenuto nell’iter di formazione della legge.

La ragionevole durata del processo non si realizza per decreto

Se si scorre un ideale quadro sinottico a tre colonne che veda allineati l’originario disegno di legge delega del ministro Bonafede (Atto Camera 2435), l’articolato normativo proposto dalla Commissione Lattanzi e il complesso degli emendamenti della ministra Cartabia, che hanno poi dato corpo al testo approvato, si coglie innanzitutto la diversa attenzione riservata alle misure in grado di garantire una ragionevole durata dei processi.

La Commissione Lattanzi si era mostrata consapevole che la riduzione dei tempi dei processi penali non si proclama né si realizza per decreto ma può scaturire solo da una pluralità di interventi innovativi e coraggiosi, destinati a incidere su diversi aspetti della giurisdizione penale e su diverse fasi del processo.

Naturalmente una politica della ragionevole durata del processo non si esaurisce neppure nella disciplina processuale giacché ha bisogno – come peraltro il Pnrr prevede ‒ di investimenti in strutture, dotazioni tecnologiche, personale di supporto oltre che di una ragionevole intensità di lavoro dei magistrati e di tutti gli operatori della giustizia1.

Ma ogni politica è destinata a sicuro insuccesso se il processo si rivela un pozzo senza fondo per effetto di meccanismi processuali che determinano la vuota dispersione di energie e non favoriscono un uso oculato della risorsa, scarsa e costosa, del processo penale.

Di qui la scelta della Commissione di formulare un insieme di proposte operative miranti a realizzare quattro grandi obiettivi: a) incisiva deflazione del carico giudiziario; b) più ampio accesso alle alternative al processo; c) filtri più rigorosi dei processi destinati al dibattimento; d) significativa riduzione delle impugnazioni.

Su almeno tre di questi versanti gli emendamenti presentati dalla ministra della Giustizia al ddl delega del ministro Bonafede e la legge delega che ne è scaturita hanno rappresentato un passo indietro:

a) in primo luogo sono stati ridotti e depotenziati gli strumenti miranti alla deflazione dell’insostenibile carico penale immaginati dalla Commissione.

È infatti stato abbandonato l’istituto dell’archiviazione meritata che la Commissione Lattanzi aveva proposto di innestare nel nostro ordinamento in considerazione della buona prova offerta in numerosi altri Paesi.

Si è così rinunciato ad un istituto che avrebbe permesso “di non esercitare l’azione penale (o di estinguere l’imputazione in un momento successivo alla sua formulazione), laddove questa appaia oggettivamente superflua, perché l’indagato (o, a seconda dei casi, anche l’imputato) ha posto in essere condotte positive nei confronti della collettività e/o della vittima di reato, idonee a compensare l’interesse pubblico e privato leso”.

Più circoscritti gli scostamenti riguardanti altri due fondamentali meccanismi deflattivi: la “non punibilità per tenuità del fatto” e la “sospensione del processo per messa alla prova”.

Meccanismi che la Commissione aveva proposto di ampliare più generosamente e la cui portata la Ministra ha inteso ridurre, dando l’impressione che in sede di mediazione politica la linea del “rigorismo” abbia cercato e ottenuto piccole vittorie rispetto alla più radicale e coraggiosa impostazione dell’organismo consultivo;

b) anche sui procedimenti speciali e segnatamente sul patteggiamento ci si è attestati su scelte estremamente più caute e restrittive (e perciò meno intensamente deflattive) rispetto a quelle prospettate dalla Commissione.

Quest’ultima si era spinta a ritenere opportuna una “riduzione per il rito fino alla metà della pena in concreto” e a suggerire l’eliminazione delle preclusioni oggettive e soggettive al patteggiamento previste dal comma 1 bis dell’art. 444 c.p.p., mentre il testo poi approvato si limita a ribadire che “quando la pena detentiva da applicare supera due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata”, con il corollario che “in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare”;

c) è stata infine relegata in soffitta anche la prospettiva di una incisiva riduzione dei giudizi di appello, da realizzare attraverso le numerose ipotesi di inappellabilità suggerite dalla Commissione ministeriale: inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero; inappellabilità per l’imputato delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; inappellabilità delle sentenze di proscioglimento e dei capi civili delle sentenze di condanna ad opera della parte civile in sede penale.

Il nascente dibattito sulle ragioni ispiratrici e sulla legittimità dell’esclusione dell’appello del pubblico ministero (e correlativamente dei molto più numerosi appelli delle parti civili) è dunque superato da una scelta politica che si limita a riproporre le limitate ipotesi di inappellabilità già contemplate nel ddl Bonafede riguardanti le sentenze di proscioglimento e di non luogo a procedere relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e la sentenza di condanna sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

Ora è evidente che la combinazione di minore deflazione, meno agevole accesso alle alternative al processo e rinuncia al ridimensionamento delle impugnazioni allontana il raggiungimento, attraverso percorsi fisiologici, dell’obiettivo della ragionevole durata del processo e ha perciò drammatizzato ulteriormente il nodo, da sempre aggrovigliato, della prescrizione.

Vi è stato , dunque, un cambio di direzione attuato dal Governo che rischia di sostituire alla razionalità processuale un comando politico astratto sui tempi da rispettare nelle fasi di giudizio successive al primo grado.

Lo scoglio – irrisolto – della prescrizione

L’inadeguatezza dell’approccio prescelto si è rivelato appieno a fronte del difficile compito di individuare soluzioni accettabili all’annosa questione della prescrizione.

Su questo terreno si è scelta, nella legge di riforma, una terza via rispetto alle alternative che si erano delineate nel corso degli anni.

Da un lato c’era la prospettiva, più aderente al regime tradizionale della nostra prescrizione, di mantenere in vita i termini di prescrizione sostanziale dei reati, sospendendoli dopo il giudizio di primo grado e facendoli rivivere in caso di sforamento dei termini temporali previsti per i giudizi di appello e di cassazione.

Sull’altro versante si profilava la possibilità di mutare radicalmente il sistema, optando per la cessazione della prescrizione in coincidenza con l’esercizio dell’azione penale e per l’ingresso del processo in un nuovo regime di “prescrizione processuale” concernente i tre gradi del giudizio penale.

Il tertium genus oggi sancito nella legge di riforma nasce da una meccanica operazione di addizione.

Al vigente regime della prescrizione adottato dalla maggioranza Cinque Stelle-Lega su impulso del ministro Bonafede (regime evidentemente ritenuto intoccabile per salvaguardare gli equilibri politici della maggioranza) si è sommato un successivo dispositivo processuale che sanziona con l’improcedibilità i giudizi di appello e di cassazione non celebrati entro i tempi previsti dal legislatore.

Si è così dato vita a un sistema ibrido, in grado di produrre non pochi effetti paradossali, tempestivamente messi in luce nel dibattito che si è immediatamente sviluppato tra gli studiosi e sui media (le riviste giuridiche e la stampa quotidiana, ma anche le mailing list e le chat che raccolgono le obiezioni, le reazioni e le preoccupazioni dei magistrati).

Ci saranno processi rapidamente definiti in primo grado che si estingueranno per improcedibilità (ossia per il mancato rispetto dei termini per la celebrazione del giudizio di appello) quando sarà ancora lontano il termine di prescrizione sostanziale previsto dalla preesistente normativa.

Così come ci saranno processi che si concludono in primo grado a ridosso della scadenza del previgente termine di prescrizione e che verranno addirittura prolungati oltre la durata della prescrizione sostanziale dall’entrata in funzione degli ulteriori termini procedurali introdotti per appello e cassazione.

Ne verrà sconvolta tutta la logica che collega la prescrizione al decorso di un determinato lasso di tempo dalla commissione del reato in ragione dell’oblio prodotto dal tempo e del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione di fatti criminosi molto risalenti nel tempo.

Quando poi sono state rappresentate nel dibattito pubblico le difficoltà di non poche corti d’Appello a rispettare i termini legislativamente previsti, a pena di improcedibilità, per la celebrazione dei giudizi di appello e di cassazione è giunta l’ultima versione della riforma che al giudice ha attribuito un inedito potere: la facoltà di prorogare, in ragione della complessità del procedimento (per numero delle parti o delle imputazioni o per la natura delle questioni giuridiche o di fatto da affrontare), la durata dei giudizi di appello e di cassazione.

Proroga che potrà essere adottata una sola volta per la generalità dei procedimenti mentre sarà reiterabile per i giudizi di impugnazione su reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale aggravata e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.

L’ultima parola al giudice, dunque. Non solo, come è naturale, sui fatti e sulle responsabilità, sulla colpevolezza o sull’innocenza, ma anche sulla durata del processo.

Eppure, secondo la Costituzione, è “la legge” che deve assicurare la ragionevole durata del processo e, aggiungiamo, la ragionevole prevedibilità di tale durata.

Ed è perciò il legislatore che deve fissare la cornice temporale e i limiti invalicabili di ogni processo, valutando il “fattore tempo” nelle sue diverse valenze: tempo dell’oblio sociale nei confronti del reato; vicinanza temporale tra i fatti per cui si procede e il giudizio, per permettere all’innocente di fornire prove a discarico, irrintracciabili a eccessiva distanza dagli eventi; grado di accettabilità di una condizione di imputato troppo a lungo protratta.

Il sentiero impervio, ora imboccato, legittima molti e inquietanti interrogativi.

Quanto saranno comprensibili e socialmente accettabili scelte “operative” sui tempi dei processi (inevitabilmente diverse a seconda dei casi) che incideranno profondamente sul destino ultimo degli imputati?

Fino a che punto il “merito” di tali scelte sarà controllabile dal giudice di legittimità?

A quali rischi esse esporranno magistrati, che devono certo essere pronti ad assumere ogni responsabilità per un giudizio emesso in scienza e coscienza, ma che, in questo caso, saranno chiamati a valutazioni di diversa natura, con effetti salvifici o pregiudizievoli per gli imputati?

Mentre la politica saluta con soddisfazione il primo passo della riforma del processo penale e ciascuna forza politica si affanna a rivendica il suo “decisivo” contributo, è giusto che chi si occupa di giustizia ponga, tra gli altri, questi spinosi problemi.

Non per guastare la festa, né per negare l’indispensabilità di un intervento riformatore, ma per avvertire che il congegno messo in campo rischia di risultare difettoso quando sarà sottoposto alla prova della realtà.

In conclusione: l’ibrido “prescrizione sostanziale operante lungo l’arco del giudizio di primo grado – improcedibilità per superamento dei termini nei gradi successivi” rischia di fallire il suo pur condivisibilissimo scopo di non relegare in una sorta di lungo o lunghissimo limbo i processi conclusi in primo grado nel rispetto dei termini della prescrizione sostanziale.

E la magistratura?

Nel difficile contesto sin qui descritto si muove la magistratura italiana, oggi sospesa tra consapevolezze e timori.

Tra i magistrati vi è infatti la consapevolezza della necessità di norme sul processo penale che restituiscano alla giustizia penale un accettabile grado di efficienza, efficacia e celerità.

Il raggiungimento di questi obiettivi è uno dei presupposti indispensabili perché risulti credibile agli occhi della collettività il parallelo lavoro di risanamento etico faticosamente intrapreso negli ultimi due anni.

Se la giustizia rimane lenta, farraginosa, inefficace, una migliore “amministrazione della giurisdizione” che corregga errori e cattive prassi nel governo autonomo della magistratura non basterà, da sola, a ripristinare la fiducia dei cittadini.

Al tempo stesso i magistrati nutrono un comprensibile timore.

Che la politica si ritenga paga di consegnare a pubblici ministeri e giudici riforme mal calibrate e inadeguate, presentandole all’opinione pubblica come interventi risolutivi.

Con l’effetto oggettivo di caricare sulle spalle degli operatori della giustizia il peso dei possibili fallimenti.

Dopo l’approvazione della legge delega, lo spazio che si apre per la redazione dei decreti legislativi delegati offre la possibilità di attenuare – beninteso nel rispetto della delega – alcune delle contraddizioni e delle carenze della legge.

C’è da augurarsi che questo spazio sia proficuamente utilizzato.

Note

1 Come è noto nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) Next Generation Italia, la riforma della giustizia è qualificata, al pari della riforma della pubblica amministrazione, come una riforma “orizzontale” destinata a investire una pluralità di gangli del sistema Paese per migliorarne in termini complessivi la qualità e l’efficienza.

La premessa da cui sono partiti gli estensori del Piano è che “il sistema della giustizia italiana” è “caratterizzato da solide garanzie di autonomia e di indipendenza e da un alto profilo di professionalità dei magistrati” ma soffre del fondamentale problema della eccessiva durata dei tempi della celebrazione dei processi. Questo dato, prosegue il Piano, “incide negativamente sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie e ne offusca indebitamente il valore, secondo la nota massima per cui ‘giustizia ritardata è giustizia denegata’”. Di qui la centralità del “fattore tempo” nel dibattito politico del Paese, nell’attenzione dell’Unione Europea e nel Piano che mira a “riportare il processo italiano a un modello di efficienza e competitività”.

Abbandonando (finalmente!) l’illusione di interventi riformatori a costo zero, il Piano individua tre ambiti di intervento e su ciascuno di questi terreni formula proposte.

Il primo ambito di azione riguarda l’organizzazione del giudiziario.

Il secondo è riferito agli interventi riformatori sui processi e sull’ordinamento della magistratura (riforma del processo civile e Alternative Dispute Resolution – ADR; riforma della giustizia tributaria; riforma del processo penale; riforma dell’ordinamento giudiziario).

Il terzo concerne la diffusione e la valorizzazione delle best practice, cioè delle pratiche più efficienti e virtuose adottate negli Uffici giudiziari.

Qui il PDF

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *