Il testo è parte di un saggio più ampio, di prossima pubblicazione in un volume edito dalla rivista Left.
Il primo aspetto da chiarire è che la cosiddetta “riforma della giustizia” proposta dal Governo non costituisce un intervento volto a modernizzare l’ordinamento giudiziario. Essa non si propone di risolvere i problemi strutturali dell’amministrazione della giustizia, né di correggere le disfunzioni derivanti dalla (dis)organizzazione dei tribunali, né di ridurre i tempi ormai estenuanti dei processi. Non inciderà sulla carenza di organico, né sulla drammatica situazione delle carceri, e non impedirà il ripetersi di casi giudiziari dolorosi come quelli di Garlasco o di Enzo Tortora. Né, grazie ai contenuti della riforma, i cittadini saranno maggiormente tutelati e meno esposti a eventuali incursioni o a possibili eccessi della pubblica accusa.
Sdoppiare – come la riforma si propone – il Consiglio superiore della magistratura e costituire un organo separato dei pubblici ministeri tutto è, tranne che una buona soluzione per limitare ruolo e funzioni dell’ufficio requirente.
Il secondo aspetto da precisare è che per realizzare la cd. separazione delle carriere si sarebbero potute perseguire altre soluzioni: non era necessario modificare la Carta repubblicana. Continuare a ostentare la separazione delle carriere quale portato preminente – se non esclusivo – della legge di revisione è un’efficace trovata propagandistica dei fautori della riforma, un abile espediente retorico. Ma nulla di più. E la ragione è evidente: nel nostro ordinamento il discrimine tra funzioni giudicanti e funzioni requirenti è già operante. Esso è stato progressivamente introdotto, a Costituzione invariata, dal decreto Mancino (D.Lgs. 5 aprile 2006, n. 160) e poi dalla legge Cartabia (L. 17 giugno 2022, n. 71). Due normative che hanno imposto vincoli stringenti ai passaggi tra ruoli, riducendo la mobilità interna e introducendo, in via di fatto, la separazione delle carriere. La riforma assecondando un approccio pleonastico si limita pertanto a formalizzare, sul piano costituzionale, ciò che è stato già previsto sul piano legislativo. Come ha recentemente evidenziato Margherita Cassano, prima presidente della Corte di cassazione, in audizione alla Commissione Affari costituzionali della Camera, negli ultimi cinque anni solo lo 0,83% dei pubblici ministeri ha chiesto di passare a funzioni giudicanti e appena lo 0,21% dei giudici ha chiesto di diventare pm. Insomma, oggi da separare è rimasto ben poco.
Ma chi ha promosso la legge davvero ne ignorava la scarsa rilevanza pratica? O sono piuttosto altre le finalità della riforma? Se la legge di revisione non è destinata a migliorare le condizioni di vita dei cittadini, né a modernizzare l’organizzazione della giustizia, chi potrà mai allora trarne dei vantaggi? La risposta è una soltanto: l’esecutivo.
E non vi è da sorprendersi. La riforma che sarà sottoposta al voto popolare è nata su iniziativa della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Una revisione di parte, sostenuta dalla maggioranza e considerata da tutte le forze politiche della destra italiana necessaria e anzi improcrastinabile. Ma non per arginare la malagiustizia o le arretratezze della macchina giudiziaria, ma piuttosto per porre fine alle crescenti tensioni innescatesi, in questi anni, tra magistratura e potere politico. Una vera e propria resa dei conti contro l’autonomia dei giudici e l’indipendenza della magistratura, accusata, in più occasioni, di aver ostacolato la volontà politica dell’esecutivo: dall’imbarazzante vicenda dei centri di detenzione in Albania alla mancata registrazione da parte della Corte dei Conti della delibera sul Ponte dello Stretto. Decisione liquidata dai vertici dell’esecutivo come «l’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del Governo e del Parlamento» (Ansa, 29.10.2025). A esplicitare, in modo così encomiabile, contenuti e finalità della revisione in corso è stata la stessa Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Queste le sue testuali parole: «La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei Conti […] rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione di Governo».
La revisione costituzionale delle norme sulla giustizia assume oggi pertanto i connotati espliciti di una ritorsione del Governo contro la magistratura. Ma anche contro il Parlamento. In occasione della sua approvazione, i banchi dell’esecutivo, ben lontani dal rimanere vuoti – come aveva ammonito Piero Calamandrei – si sono affollati all’inverosimile. D’altra parte, il tentativo messo in atto, in questa occasione, dal Governo era quanto mai eterodosso e ambizioso: comprimere il dibattito, sventare gli emendamenti, blindare il disegno di legge. Un tentativo riuscito appieno e pertanto festeggiato al momento del voto con applausi e abbracci nei banchi del governo. Un fotogramma che non ha precedenti nella storia repubblicana.
Dal giorno della sua presentazione fino al voto finale, il testo è rimasto immodificato: granitico, intangibile, perfettamente conforme alla versione originaria. I quattro passaggi parlamentari previsti dall’art. 138 Cost. si sono consumati senza lasciare traccia: più che un iter parlamentare, una vera e propria manifestazione di fedeltà della maggioranza verso il suo capo.
Una torsione che il Governo intende ora sanare sottoponendo la riforma alla «pura corrente ed ai lavacri» del pronunciamento popolare. Di qui i ripetuti tentativi (già altre volte praticati nella storia repubblicana) di manomettere l’istituto referendario e il suo spirito costituzionale: da strumento oppositivo a confermativo, da arma dell’opposizione a sigillo della maggioranza, da pratica attiva di resistenza costituzionale a plebiscito.
La recente revisione costituzionale ripropone, in chiave attuale, un nodo che fu al centro dei lavori della Costituente. Palmiro Togliatti, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia, propose l’inserimento del pubblico ministero all’interno dello stesso ordine della magistratura. Tale scelta segnò una netta discontinuità rispetto al modello delineato dal Codice Rocco del 1930, che configurava il pubblico ministero come organo gerarchicamente dipendente dal Ministro della Giustizia e, dunque, sostanzialmente subordinato all’esecutivo.
La posizione di Togliatti si fondava sull’esigenza di garantire al pubblico ministero le medesime garanzie di indipendenza riconosciute ai giudici: perché solo così poteva essere efficacemente assicurata l’imparzialità dell’azione penale e, con essa, la tutela dei diritti dei cittadini.
La scelta di inserire nell’art. 112 della Costituzione l’obbligatorietà dell’azione penale fu coerente con questa visione e sancì che nessun governo potesse decidere quali reati perseguire e quali ignorare. Optando per questa soluzione, la Costituzione repubblicana superava il modello del Codice Rocco e costruiva un assetto costituzionalmente avanzato fondato sulla separazione dei poteri e sull’autonomia della magistratura.
Ed è proprio questo equilibrio a essere rimesso oggi in discussione dalla riforma Meloni. Una riforma che rischia di ricondurre la magistratura nella sfera del Governo. Non deve quindi sorprenderci se una nutrita schiera di politici e politologi, giuristi e studiosi delle istituzioni, di destra e di sinistra, da sempre attratti dal mito della governabilità, guardi oggi con favore a questa riforma. Essa appare, ai loro occhi, come l’anticipazione di un processo di accentramento dei poteri nelle mani del capo dell’esecutivo, il cui coronamento non potrà che essere il premierato.
L’effetto che si intende sortire è, quindi, evidente: comprimere il ruolo costituzionale e gli spazi di autonomia di tutti gli organi di garanzia. Oggi la magistratura, domani la Presidenza della Repubblica. Una ragione in più per opporsi.
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