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Articolo pubblicato su “Tranform!Italia” il 29.11.2023.

Riformare l’Unione Europea; è il mantra di questi ultimi anni. Ognuno lo interpreta a modo suo. La Conferenza sul Futuro dell’Europa, voluta da Emmanuel Macron, nel maggio 2022, dopo un anno di lavoro, ha elaborato 49 proposte, ma, sul piano delle riforme istituzionali, non è esagerato ritenere che la montagna abbia partorito un topolino. Da allora, un gran fermento di iniziative e di proposte che hanno preso, principalmente, tre diverse direzioni: riforme a Trattati vigenti, revisione dei Trattati e potere costituente del prossimo Parlamento Europeo. Della prima si è parlato nell’articolo dell’8 novembre 2023. Per quanto riguarda la terza, è verosimile che quanto accaduto a Strasburgo il 22 novembre 2023 imponga una profonda riflessione, a partire dai suoi stessi sostenitori.

Il 22 novembre 2023 il Parlamento Europeo ha approvato una Risoluzione in cui, oltre a ribadire la richiesta di convocazione di una Convenzione per la revisione dei Trattati, si chiede di modificarli con un nutrito numero di proposte volte a “rimodellare l’Unione in modo da rafforzarne la capacità di azione, nonché la legittimità democratica“ e a “consentire all’Unione di far fronte più efficacemente alle sfide geopolitiche”. La Risoluzione consta di 44 proposte di riforma, accompagnate da ben 245 emendamenti ad altrettanti articoli o paragrafi dei Trattati vigenti; 67 emendamenti riguardano il Trattato sull’Unione Europea (TUE) e 178 il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE). Si tratta di proposte che cambierebbero sensibilmente la fisionomia dell’UE e il funzionamento delle sue Istituzioni.

Media e realpolitik

Ci si chiede come mai un atto politico così rilevante, assunto dall’Istituzione che rappresenta i cittadini dell’Unione, sia stato pressoché ignorato dai media europei e, soprattutto, da quelli italiani, in cui, invece, le questioni europee sono abbastanza presenti; sia in quelli che si sperticano nel richiamare il Governo a non sottrarsi alla responsabilità di ottemperare alle regole europee, sia in quelli che individuano in queste regole l’origine di tutti i guai del nostro Paese. E ora, che si sta discutendo di cambiare non questa o quella regola, ma la regola delle regole, tutti zitti…

Si potrebbe arguire che ciò rientra nella consueta scarsa attenzione dei media nei confronti del Parlamento Europeo, ma si sarebbe subito smentiti dalla vasta copertura mediatica che ha avuto un’altra Risoluzione, quella sulla riduzione degli imballaggi, approvata dal Parlamento qualche ora prima. Ovviamente, c’è una grande differenza tra le due Risoluzioni; per gli imballaggi si tratta della definizione della “posizione” del Parlamento, su cui si svilupperà il negoziato con il Consiglio e che si concluderà con un atto legislativo che avrà notevoli conseguenze sulle imprese e sui cittadini europei. La Risoluzione sulla revisione dei Trattati, invece, non ha conseguenze normative immediate; il Parlamento, utilizzando la facoltà datagli dall’art. 48 del TUE, con questa Risoluzione sottopone al Consiglio una serie di proposte di modifica dei Trattati. Il Consiglio deciderà poi se, e come, dare seguito a queste proposte; se convocando una Convenzione (sulla base dell’esperienza del 2001 e come proposto dal Parlamento Europeo già dal giugno 2022 ) o solo una Conferenza Intergovernativa, ovvero mettendo in atto le “procedure di revisione semplificate” previste dallo stesso art. 48.

Ciò che può spiegare la scarsa considerazione di queste proposte del Parlamento da parte dei media è il fatto, ormai acclarato, che i Governi non hanno nessuna intenzione di seguire la via maestra per la revisione dei Trattati (Convenzione/Conferenza Intergovernativa). Già nel maggio 2022, a conclusione della Conferenza sul Futuro dell’Europa, ben 13 Governi si sono espressi addirittura contro ogni ipotesi di revisione dei Trattati di Lisbona. Naturalmente si tratta dei Paesi che maggiormente temono che le revisioni si traducano, come è sempre successo, in nuove competenze per l’Unione e maggiore accentramento di potere a Bruxelles.  Non sono i Paesi più importanti ma, anche considerando i cambiamenti politici conseguenti alle elezioni nazionali dell’ultimo anno, siamo comunque intorno alla maggioranza degli Stati membri.

Per questo, gli Stati che contano, Germania e Francia, non vogliono correre rischi – il ricordo dei referendum francese e olandese del 2005 è ancora bruciante – ma intendono esperire tutte le possibilità di revisione offerte dai Trattati vigenti. Tutt’al più, possono prendere in considerazione l’escamotage suggerito dal “Gruppo dei 12” (esperti nominati dai Governi di Francia e Germania) e consentito dall’art. 49 del TUE; cioè, inserire modifiche ai Trattati vigenti negli Accordi del prossimo allargamento dell’UE. Una soluzione che avrebbe due vantaggi. In primo luogo, ci sarebbe una sola ratifica nazionale, anziché due; secondariamente, poiché gli Stati membri più restii a modificare i Trattati sono quelli più favorevoli all’allargamento, ci sarebbe materia per possibili scambi nel negoziato tra i 27 Governi. Una soluzione questa inaccettabile per il Parlamento Europeo che in questo modo non avrebbe voce in capitolo sulle modifiche dei Trattati.

Dramma politico a Strasburgo

Se queste considerazioni di realpolitik possono spiegare lo scarso interesse dei media per le proposte di revisione dei Trattati approvate dal Parlamento Europeo, non giustificano la loro sottovalutazione della vicenda politica che si è consumata in occasione dell’approvazione della Risoluzione. Una dinamica non priva di traumi che avrà riflessi importanti, non solo all’interno dei partiti (europei e nazionali) ma anche delle coalizioni governative nazionali, e che non mancherà di pesare sulle prossime elezioni europee.

Di cosa si tratta? Bisogna risalire a giugno 2022, quando, per rispondere alle istanze della Conferenza sul Futuro dell’Europa, sei Gruppi politici presenti in Parlamento – tutti ad eccezione di “Identità e Democrazia” (Lega, Rassemblement National, Alternative für Deutschland) e del Gruppo dei Non Iscritti-NI (per ovvie ragioni di disomogeneità) – decidono di lavorare insieme per elaborare delle proposte di revisione dei Trattati, così come si dovrebbe sempre fare per definire regole “costituzionali”. All’interno della Commissione Affari Costituzionali (AFCO), è stato formato un gruppo di correlatori, espressione dei sei Gruppi politici: il tedesco Sven Simon per i Popolari (PPE), la tedesca Gabriele Bischoff per i Socialisti e Democratici (S&D), il belga Guy Verhofstadt per Renew Europe, il tedesco Daniel Freund per i Verdi, il tedesco Helmut Scholz per La Sinistra, il polacco Jacek Saryusz-Wolski per i Conservatori (ECR). Quest’ultimo, nell’agosto 2023, si è dimesso, diventando il relatore ombra per il suo Gruppo. Il Gruppo dei correlatori ha lavorato per circa un anno, nella più assoluta riservatezza. Una elaborazione “senza trasparenza e senza dibattito pubblico, sottovalutando anche la necessità di coinvolgere in questo lavoro società civile e cittadini che avevano partecipato alla Conferenza sul futuro dell’Europa”, come lamenta il Movimento Europeo.

La Relazione dei Cinque correlatori, con il progetto di Risoluzione, è un testo di compromesso, frutto del negoziato tra i Gruppi, approvato nella riunione della Commissione AFCO il 25 ottobre, con 19 voti a favore, 6 contrari (2 ECR, 2 PPE, 1 ID, 1 NI) e 1 astenuto (PPE). Una votazione che aveva il senso di una sostanziale coerenza tra le posizioni dei correlatori e quelle dei loro Gruppi di appartenenza. Un mese dopo, lo scenario sembra profondamente cambiato. A cominciare dalla discussione in aula del 21 novembre, dove il cambiamento del clima politico si è cominciato a percepire dagli interventi dei cinque correlatori, preoccupati di rassicurare il Parlamento che la proposta non significa tanto determinare i contenuti della modifica dei Trattati quanto premere sul Consiglio per avviare il processo di riforma, insistendo soprattutto sulla paralisi dell’Unione causata dal voto all’unanimità. Mentre i deputati socialisti, Verdi e di Renew hanno più o meno seguito questa linea, la maggior parte degli interventi dei deputati del PPE e tutti quelli della Sinistra (escluso ovviamente quello del correlatore Scholz) hanno preso le distanze o attaccato la proposta approvata in Commissione AFCO. Da quelli del PPE è venuta una esplicita difesa del voto all’unanimità, la contrarietà nei confronti della Convenzione e l’esortazione ad adeguare l’assetto e le politiche dell’Unione utilizzando tutte le possibilità offerte dai Trattati vigenti; in sostanza la posizione dei Governi. Per quanto riguarda La Sinistra sono emerse le tre principali anime presenti nel Gruppo: la posizione di quelli che contestano la proposta perché rafforzerebbe l’Europa dell’austerità, la renderebbe ancora più antidemocratica e, per di più, militarizzata; le posizioni di sovranismo di sinistra, e cioè l’opposizione a un’Unione che limiti ancora di più la sovranità degli Stati membri; e, infine, quelle degli “europeisti miglioristi”, quelli che hanno votato a favore della Risoluzione o si sono astenuti.

La votazione del giorno dopo ha esaltato queste divaricazioni. La Risoluzione è stata approvata con 291 voti favorevoli, 274 contrari e 44 astenuti; 93 deputati non hanno votato. Il numero dei deputati, appartenenti ai Gruppi dei correlatori, che non hanno votato a favore della Risoluzione è di 109, un quarto del totale dei deputati dei cinque Gruppi. Le defezioni hanno riguardato, anche se in misura diversa, tutti e cinque i Gruppi. Sono state eclatanti nella Sinistra: ha votato a favore solo un quinto dei deputati; quasi due terzi hanno votato contro. Tre quarti dei deputati del PPE non hanno votato a favore; quasi la metà ha votato contro. Negli altri tre Gruppi, le defezioni hanno riguardato quasi un terzo dei deputati; hanno votato contro il 15% dei Socialisti, il 17% di Renew, nessun deputato dei Verdi. È presumibile che con questi voti, il peso politico del Parlamento nei confronti del Consiglio per indurlo a mettere in moto il processo di revisione e a convocare la Convenzione, sia diventato esiguo.

Non c’è una sola ragione ma un insieme di ragioni che possono spiegare questa enorme differenza tra il voto in Commissione e quello in Plenaria. Innanzitutto, il profilo dei deputati della Commissione AFCO, che è una piccola Commissione (28 membri), rispetto a quello prevalente tra i membri dell’Assemblea. Chi sceglie di farne parte lo fa o per difendere i bastioni del sovranismo (comunque una minoranza appartenente ai due Gruppi di destra ed estrema destra) oppure perché interessato a fare progredire il processo d’integrazione europea. Un’altra spiegazione è che molti deputati temono che, dati gli attuali equilibri politici, una revisione dei Trattati si risolva in una riduzione dei poteri del Parlamento. C’è anche la preoccupazione, soprattutto nei deputati dei Paesi più piccoli, di un’Unione ancora di più governata dagli Stati forti. Il fatto che su cinque correlatori quattro fossero tedeschi potrebbe non aver agevolato. Ma ciò che ha pesato maggiormente è stata la posizione della stragrande maggioranza del PPE, decisamente contraria a ogni cambiamento dei Trattati, perché allineata con la posizione dei 13 Governi del maggio 2022 ma, soprattutto, coerente con la dottrina Merkel, lucidamente e tremendamente esposta nel famoso discorso di Bruges del 2 novembre 2010, in cui la Cancelliera fece l’elogio del metodo intergovernativo.

Le proposte del Parlamento

Prima di proseguire nell’analisi del significato politico di questa vicenda, è d’uopo soffermarsi sui contenuti della Risoluzione, prendendo in esame, innanzi tutto i due capitoli principali: le riforme istituzionali e le competenze dell’Unione, tenendo conto che ciò che fa fede è l’allegato con gli emendamenti puntuali agli articoli dei Trattati (anche perché in fase di votazione si sono create alcune discrasie tra i due testi).

Per quanto riguarda le riforme istituzionali, si propone, prima di tutto, il rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo: aumento considerevole delle materie su cui si decide tramite la procedura legislativa ordinaria (codecisione Consiglio-Parlamento), diritto d’iniziativa legislativa al Parlamento, co-legislazione in merito al quadro finanziario pluriennale (oggi limitato al bilancio annuale), nomina dei membri della Commissione (con conferma del Consiglio e non viceversa, come accade ora). Certamente, si tratterebbe di avanzamenti significativi dal punto di vista della democrazia, ma del tutto insufficienti a colmare il deficit democratico che pesa sull’UE. Intanto, perché l’esperienza ha dimostrato che anche nella procedura ordinaria, soprattutto attraverso il sistema dei “triloghi”, è soprattutto il potere del Consiglio a prevalere, trasformando quello che dovrebbe essere codecisione in consociativismo (cfr. Andrea Amato, Sovranità e democrazia nell’Unione Europea, Transform!Italia, 10/12/2022).

Siamo ben lontani da un sistema bicamerale, come evocato dalla Risoluzione. Nei sistemi bicamerali esistenti le Camere o hanno funzioni legislative paritarie (Italia, USA) o hanno funzioni diversificate (Germania, Regno Unito) dove la funzione legislativa viene svolta principalmente dalla Camera bassa; l’UE non ricade né nel primo né nel secondo caso. Ma è soprattutto, la struttura istituzionale generale dell’UE, improntata a un rigido intergovernativismo, a limitarne la legittimità democratica. Il collo di bottiglia rappresentato dal Consiglio Europeo, lo strapotere del COREPER (Comitato dei Rappresentanti Permanenti), il dilagare della Comitologia, l’avvento della governance economica sono le modalità con cui i Governi esercitano/impongono il loro potere reale, nei confronti del Parlamento nonché della Commissione, ormai diventata poco più di un segretariato del Consiglio. In passato l’Unione Europea veniva considerata una via di mezzo tra federazione e confederazione; oggi, con la prevalenza del metodo intergovernativo su quello comunitario, essa sta assomigliando sempre di più a una confederazione di Stati sovrani, che è il modello istituzionale preferito dai sovranisti italiani ed europei.

Sempre sul terreno istituzionale, vi è un gruppo di proposte che potrebbero chiamarsi di lubrificazione e manutenzione. Si propone di cambiare nome alla Commissione Europea chiamandola Esecutivo Europeo. Ci sono anche aspetti di “manutenzione illuminata”; infatti uno degli emendamenti al TUE così recita: “Le parti sociali sono consultate durante la preparazione di qualsiasi iniziativa in materia di politica sociale, occupazionale ed economica”. Per contro è stata bocciata la proposta relativa alla indizione di referendum europei.

Molto più che un semplice intervento di manutenzione è la proposta di aumentare “considerevolmente il numero di settori in cui le azioni sono decise a maggioranza qualificata (VMQ)”, superando i blocchi che l’Unione ha conosciuto grazie all’unanimità e al diritto di veto presenti in diverse materie importanti, a cominciare dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC). Una vasta estensione del VMQ non avrebbe, però, solo il significato di sbloccare il meccanismo decisionale dell’UE, ma anche quello di cambiare, in senso ancora più antidemocratico, l’assetto intergovernativo attuale. Infatti, con il VMQ, sarebbe la volontà degli Stati membri più importanti a prevalere. Si passerebbe da una intergovernatività di tipo confederale a una intergovernatività a “Direttorio”, una sorta di autocrazia del “centro forte”. Rimane da capire perché nella votazione, che si è svolta per parti separate (compresi gli emendamenti ci sono state 147 votazioni), proprio quelli più preoccupati di una centralizzazione del potere nelle mani dei Paesi più forti, abbiano affossato le proposte della Commissione AFCO per una precisa quantificazione nella definizione del VMQ, volta a salvaguardare i Paesi minori.

Le proposte approvate dal Parlamento incidono sensibilmente sulle competenze dell’Unione, a partire dalla istituzione di un’Unione della Difesa, le cui decisioni sono prese con VMQ, previa approvazione del Parlamento Europeo. L’Aula ha bocciato la proposta di inserire l’ambiente e la biodiversità tra le competenze esclusive dell’Unione, accettando solo quella relativa ai ”negoziati globali sui cambiamenti climatici”. Il Parlamento propone di inserire tra le materie di competenza concorrente sanità pubblica (si propongono indicatori comuni sull’accesso universale e paritario ai servizi sanitari), protezione civile, industria e istruzione. Chiede il rafforzamento della competenza concorrente nei campi di energia, affari esteri, difesa, frontiere esterne, giustizia e infrastrutture transfrontaliere; mentre viene affossata la proposta di armonizzare, con decisioni a VMQ, anche le imposte dirette. In sostanza con le proposte di riforma approvate dal Parlamento si andrebbe a configurare un’Unione a più intensa gestione sovranazionale ma con un deficit democratico superiore a quello attuale. Un vero rompicapo per gli europeisti che non vogliono rinunciare alla democrazia.

In ogni caso, la posizione del Parlamento deve essere valutata politicamente, non solo per le proposte avanzate, ma anche, e soprattutto, per quelle non fatte. E a ben vedere, queste ultime riguardano la natura stessa di questa Unione, con i suoi peccati originali legati alla costituzionalizzazione del mercato e della concorrenza, fino a quelli più recenti della sacralizzazione dell’austerità e della propensione alla militarizzazione. Certo, da un testo di compromesso come quello uscito dalla Commissione AFCO sarebbe difficile pretendere tanto. Ma sono stati presentati diversi emendamenti da parte del Gruppo della Sinistra che andavano in quella direzione, ma non hanno ottenuto che una manciata di voti. Per esempio, l’emendamento presentato da Manon Aubry e José Gusmão a nome della Sinistra che proponeva l’abrogazione del Patto di Stabilità, del Fiscal Compact, dei famigerati parametri di Maastricht, incollati indissolubilmente nel Trattato sull’Unione Europea, nonché del protocollo sui disavanzi eccessivi ha avuto solo 54 voti favorevoli, tra cui 12 socialisti (l’unica italiana Mercedes Bresso), 14 non iscritti (5 di 5Stelle). Nessun voto dalla Lega che per anni ha fatto campagna su questi obiettivi, né tanto meno da Fratelli d’Italia.

Ancora, un altro esempio; riprendendo un suggerimento del Movimento Europeo, Marc Botenga, a nome del Gruppo della Sinistra, ha presentato un emendamento volto a introdurre nel TUE il testo, pressoché identico, dell’art. 11 della Costituzione italiana, quello del ripudio della guerra. Ha anch’esso ottenuto poco più di 50 voti; ma la cosa “interessante” è che soltanto 21 dei 76 deputati italiani hanno votato a favore: 12 Socialisti, 7 Non Iscritti, 2 Verdi. Infine, un esempio al contrario; un emendamento sottoscritto da tutti i deputati italiani di centro-destra proponeva lo scorporo degli investimenti pubblici, legati a obblighi dell’UE, dal calcolo del rapporto debito/PIL. L’emendamento non è stato approvato; votato solo dai deputati italiani di ECR, ID e PPE mentre i loro colleghi europei degli stessi Gruppi hanno votato contro. Non solo, nessun altro deputato italiano appartenente ad altri Gruppi ha votato a favore; una quindicina di deputati del PD si sono astenuti. Eppure, in Italia l’idea dello scorporo degli investimenti dal calcolo del rapporto debito-PIL non l’ha inventata il Ministro Giorgetti.

Quanto finora evocato non è solo la dimostrazione palmare che molto spesso si vota più per posizionamento politico che non sui contenuti, ma è, soprattutto, il segno della persistente nazionalizzazione della presenza politica nel Parlamento Europeo; dove a prevalere è la fedeltà ai propri Governi se si appartiene a partiti di maggioranza a livello nazionale; dove, all’interno di uno stesso Gruppo politico ci si divide continuamente in base alle nazionalità, in nome dei cosiddetti interessi nazionali.

Per concludere

Molte sono le considerazioni politiche che si potrebbero trarre da quello che potrebbe apparire solo uno dei tanti episodi di cronaca parlamentare. Due sono le più immediate.

La prima riguarda il ruolo del Parlamento Europeo. Teoricamente il luogo privilegiato della rappresentanza dei cittadini europei, quello che dovrebbe assicurare la legittimità democratica dell’Unione, nella realtà, schiacciato dal peso politico del Consiglio, cioè dai Governi, incastonato in un asfissiante sistema intergovernativo, non riesce ad essere il depositario della sovranità popolare, svolgendo spesso un ruolo poco più che ancillare. Da tempo i cittadini europei l’hanno percepito. In particolare, in Italia, dopo lo slancio popolare della prima elezione diretta, nel 1979, il Parlamento Europeo ha progressivamente perso credibilità. Le elezioni europee hanno ormai solo il ruolo di verifica degli equilibri partitici nazionali. Più in generale, in Europa, abbiamo assistito al paradosso che man mano che sono aumentati i poteri del Parlamento, sono via via diminuiti i cittadini che partecipano alle elezioni europee.

Come si è visto, non è certo con questa revisione dei Trattati, che peraltro è del tutto improbabile che si faccia, che il Parlamento può aspirare a colmare il deficit democratico che affligge l’Unione. Né si possono riporre speranze sul prossimo Parlamento; per i probabili equilibri politici, per la perdurante assenza di veri partiti politici europei, per la vischiosità delle politiche nazionali che influiscono negativamente sul profilo “europeo” dei deputati.

La seconda considerazione riguarda la natura dell’attuale scontro politico in Europa. Va demistificata l’idea che si tratti di uno scontro tra europeisti e sovranisti; e questo nonostante le avanzate elettorali delle destre sovraniste in Germania, Spagna e Paesi Bassi – senza contare l’Italia. La vera partita si gioca tra due tipi di europeismi; quello che vuole lasciare le cose come stanno, gli orfani di Angela Merkel, che hanno primeggiato il 22 novembre a Strasburgo, e quello che vuole un Europa “all’altezza delle sfide globali”, economicamente e militarmente aggressiva, il cui alfiere è Mario Draghi. Ambedue europeismi comportano costi insopportabili per i cittadini e per la democrazia europea. Certo ci sono anche i sovranisti, ma le loro spinte finiscono sempre per essere assorbite dalla prima categoria di europeismo. Così come ci sono tanti sinceri europeisti che, consapevolmente o meno, accettano la prospettiva di un’Europa autocratica, militarizzata e antidemocratica. Il problema è più complicato per chi vorrebbe un’Europa attore globale ma al tempo stesso veramente democratica, per chi non vuole consegnarsi agli USA e alla NATO e al tempo stesso non può rivolgersi al sovranismo nazionale.

2 commenti a “La riforma dell’irreformabile Unione”

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