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Nel corso della vecchiaia, «il periodo meno assennato dell’esistenza»1, si sarebbe tentati a volte di riprendere l’uso dell’imperfetto ludico, quel tempo verbale tipico dell’infanzia per cui quando i bambini dicono “Io ero la Bella Addormentata che dormiva, tu eri il Principe Azzurro che mi svegliava”, misteriosamente quei bimbi sono mentre erano2. Per intenderci, il tempo che marca un già accaduto che accade ancora.

Chi da adulto ricorresse a quel tempo, sarebbe meglio lo facesse con in più (o in meno, vai a capire) la consapevolezza che quell’incompiutezza affascinante propria dell’imperfetto sta al posto dell’esperienza: dal momento che ormai è scrittura, arte – sublimazione, direbbe qualcuno. Scelgo questo piano, diciamo così, più associativo che testuale, per condividere qualche riflessione a partire dal più recente racconto lungo di Domenico Starnone, Il vecchio al mare3.

Nel quale Nico, il protagonista, uno scrittore ottantaduenne con una vita piena alle spalle, sceglie di prolungare le vacanze al mare di Sabaudia approfittando di una calda ottobrata. È lì, da solo, per scrivere, ma non rinuncia a farsi investire dal flusso della vita che la spiaggia, fin dal primo mattino, gli propone. E così continua, a suo modo, quel gioco dell’imperfetto, assumendo le vesti di un vecchio non troppo vecchio, soprattutto non spento: come se anche lui, ottantenne, non fosse diverso da un giovane uomo pieno di desideri (ma sì, spoleiriamo: anche i vecchi desiderano), aperto agli accadimenti contingenti e fortuiti della vita di spiaggia, da cui possono nascere storie imprevedibili, che – da narratore – proverà poi a mettere nero su bianco. Con l’essenziale differenza che sta tutta nel passaggio dall’innocenza dell’infanzia alla consapevole disonestà dell’adulto. Secondo Starnone, infatti, solo se il realmente accaduto cede alla disonestà del narratore il racconto diventa vero. Verità fa rima con disonestà. Infatti, il raccontare, come già il ricordare, altera i fatti. Lo sostiene anche uno dei protagonisti di Confidenza, altro racconto di Starnone ora al cinema in un film di Daniele Luchetti: «Narrare significa mentire, e meglio racconta chi meglio mente»4.

Per raccontare bene, servono un buon contenuto e una buona forma. Riguardo al primo, al di là dell’intrico tra fatterelli di tarda estate vissuti da buoni e buone borghesi più o meno annoiati e annoiate, quel che vale la pena davvero di raccontare e che emerge dalle riflessioni del vecchio scrittore è quel che lo ha segnato nella vita, quel che è stato d’inciampo, ciò che lo ha ustionato. Solo se si è provato l’autentico dolore del vivere e dell’amare si è capaci di narrarli. Non a caso nei racconti di Starnone sono centrali i temi della perdita, del desiderio e del tradimento. Come se lo scrivere avesse bisogno di un innesco traumatico. Tanto che il vecchio scrittore del racconto confessa: «Per tutta la vita ho creduto che senza pece bollente non si gioisce mai come si deve»5.

Questo reale costituisce, diciamo così, la materia autentica di ogni racconto. Poi però bisogna pure saperlo raccontare. Chi è capace, rovescia l’insensatezza debordante del vivere in senso studiato del racconto scritto. Il vecchio in spiaggia lo dice chiaramente: «Cos’è scrivere bene? Trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera». Starnone lo aveva anche teorizzato, anni fa: «Il racconto rovescia la morte in “finale” che, al contrario della morte, disegna e organizza»6.
Il “mettere in forma”, lo scrivere, ha dunque un rapporto costitutivo con “l’essere disonesti”. E come mai allora da vecchi si è più severi con ciò che si è scritto, anche se si ha più mestiere? Perché scrivere è un mestiere difficile. E più si va avanti con l’età e l’esperienza, più si comprende che non basta buttar giù le parole cercando di dar conto delle sensazioni e dei sentimenti. Anche perché la vita appare sempre più insensata, sembra venir giù a casaccio, venirci incontro travolgendo la nostra volontà. Lo scrittore dunque è come l’aruspice che guarda un cielo nuvoloso con occhi vuoti di stelle e che allora prova a riempirlo con la sua grafia, dice Starnone. Ma attenzione: servono sapienza e maestria,ammoniva Luigi Meneghello, autore che Starnone apprezza al punto che un suo saggio apre l’edizione dei Meridiani dedicato allo scrittore vicentino, oltre a esser stato tra gli sceneggiatori del film tratto da I piccoli maestri. Meneghello si era dato come compito il “voltare esperienza in scrittura”, in un rapporto di permanente lotta con le parole scritte, parole che restano comunque creature viventi, ci ricorda Eugenio Borgna. Perché la vita scorre e non ci aspetta, e lo scrittore può, anzi non può fare a meno di provare a starle appresso attraverso “la fiumana dello studiare-scrivere” (altra espressione di Meneghello) che finisce con l’occupargli la vita. E infatti il vecchio in spiaggia, sulla sua sediolina portatile ritta sul bagnasciuga, scrive e cancella, riscrive e ricancella, mai del tutto soddisfatto. Non è contento, però insiste.
Allora, quando Starnone afferma che la vecchiaia consuma residui di futuro, e mentre li consuma non ne produce altri; quando sostiene che l’ultima fase della vita è un tempo che non genera domani, pur essendo un tempo molto mosso, impreciso, che reinventa il passato, forse non sta dicendo tutta la verità. Perché la creatività e la scrittura anche per chi è avanti negli anni restano quegli “strumenti umani” capaci di ingannare perfino la vecchiaia, e far sì che anch’essa generi a suo modo pezzetti di futuro, alimentati da quella incessante dinamica desiderante che non ci abbandona mai, se solo lo si vuole. In cima, c’è sempre la vita: «S’incomincia con un temporale»7, e parte il racconto.

Lo scrittore di una certa età narra i desideri che ha vissuto e che osserva vivere intorno a sé, soddisfacendo anche una propria potente pulsione: assecondando la tendenza a trasformare i desideri in segni, chi scrive prova piacere. È un desiderio che comporta fatica, ma anche autentico piacere e che, per di più, può durare tutta la vita: si può fare l’amore con le parole, anche se poi sono le parole che fanno l’assenza, scrive una giovane, valente poeta italiana.

Il tema del desiderio è potente anche in questo racconto, ma Starnone ne parla anche in termini molto teneri. Il desiderio è ottativo, origina da una mancanza che non è solo penuria, assenza, ma anche spinta e che, come tale, ha un bisogno costitutivo di futuro. Cosa accade ai vecchi che hanno dinnanzi poco futuro e sembrano non produrne più?

Il desiderio è ciò che accende ed erotizza la vita. È la forza che rende la vita viva. La mancanza da cui origina il desiderio è quindi mancanza in senso molto forte: la mancanza dell’Altro, rappresentata nell’opera di Starnone dalla madre, ciò da cui siamo stati originariamente separati, quel che ci è stato e ci sarà sempre negato. Una madre che potrà e saprà anche tornare, ma che tornando sarà comunque la madre che si è assentata, che a tratti ci è stata tolta.

Vita e scrittura costituiscono il nucleo incandescente del mestiere del narratore. Si tratta di capire se e come le arti riescano a sublimare, o a rimpiazzare, la pulsione a godere implicata nel desiderio, ciò che nella vita lega. Non è facile la relazione tra il desiderare e la creatività. Forse la scrittura è là dove non c’è (più) godimento, è al posto della vita che si è vissuta, narrata e tradita. In Labilità, il protagonista diceva: «Ho pensato che scrivere fosse la continuazione piacevole dei giochi dell’infanzia. E invece? Scrivere è vivere fino a morire di scrittura e io, in tutti questi anni, non ho mai avuto il coraggio necessario»8.

Ma chi scrive vive il desiderio di dar forma alle cose. E seguendo questo desiderio non credo si possa mai “morire di scrittura”. Perché per farlo si dovrebbe rinunciare al legame, al desiderio che unisce. Come in Kafka, per esempio, nel quale prevale ciò che scioglie e separa, la tendenza a fare zero, una funzione dell’istinto di morte. Se si fa questa scelta, lo scrittore è morto già in vita alla vita, diviene essenziale mancare l’incontro, fare Uno e restare saldi nella propria impotenza. Se si è Kafka, ne esce grande letteratura. Ma di Kafka ce n’è uno solo.

La poetica di Starnone sembra ispirata da tutt’altro. Nel racconto, anche da vecchi sembra darsi una chiave per vivere gli anni residui senza che l’angoscia ci sopraffaccia. Nico accetta il trascorrere del tempo, ma si dimostra disponibile a ogni incontro propostogli dalla sua nuova vita balneare, con una disponibilità quasi scanzonata alla novità. Se aperta agli altri, la vecchiaia non è più solo «un balcone sull’insignificanza». Aiuta il non prendersi del tutto sul serio. A un certo punto, il vecchio dice di chiamarsi Nicola Gamurra, il nome dell’odioso scrittore in erba che in Labilità perseguitava il protagonista. Scherzi d’autore, capace di creare ad arte parentele, anche improbabili, tra i propri romanzi.

Resta il fatto che le occasioni decisive per accorgersi che si è ancora vivi sono gli incontri e i desideri che mobilitano, che magari non saranno più fuoco o ghiaccio (come diceva Robert Frost), ma che si fanno sentire anche se si è vecchi e magari pure malati. Lu, la giovane venticinquenne incontrata in spiaggia, con il suo bimbo Ninì e il suo kayak rosso, presta il proprio corpo al ricordo della madre di Nico: è lei al dunque il vero portento che lo tiene vivo, fungendo da legante ai tanti ricordi che gli affollano la mente. Lu, un nome brevissimo per dire invece «una commistione di polietilenekevlarcarnevecchiacarnegiovanefigliofigliamadremarevitamorte»: tutto il senso compendiato in una sola parola che dice la giovane commessa per nulla sprovveduta, titolata quindi a porre nel finale a Nico la domanda esiziale, la domanda che un giovane non dovrebbe mai fare: «Quando si finisce di desiderare?».

L’interrogativo infatti non è promosso tanto dalla curiosità di Lu nei confronti di quel vecchio attivo e misterioso, ma dalla constatazione che desiderare espone al rischio della relazione, anche se si hanno 24 anni: se si è fedeli al desiderio si accetta il Due, l’altro. Ma è un rischio da correre, non importa l’età. Non si finisce mai di desiderare. Starnone infatti fa rispondere così il vecchio alla ragazza: «Ci vuole tempo, e non per non avere più desideri ma solo per sentirne meno la forza». La vecchiaia, al più, attenua l’intensità del godimento, ma non è in grado di spegnere la forza del desiderio che solo può esser messa in ginocchio dalla paura di desiderare.
Forse Philip Roth era eccessivamente pessimista, affermando che la vecchiaia è un massacro. L’inconscio, e il sogno, insomma la vita, continuano a qualsiasi età a proporci situazioni aperte, come quelle figurette dorate che baluginano tra l’assito del terrazzo e la rena della spiaggia, e che svicolano via, trascinandosi i ricordi del vecchio e con loro le sue e le nostre intimità più segnate e segrete che potremmo non smettere mai di rincorrere e interpretare.

Al dunque questo racconto funziona anche come invito, neppure troppo velato, alla politica in quanto arte dell’incontro. Ritrarsi nella propria individualità, magari motivati dal timore che l’altro ci turbi apportando novità, è – anche secondo Starnone – l’asse dell’atteggiamento conservatore-reazionario, tipico di quegli anziani (ma anche di quei giovani già vecchi) che rimpiangono i tempi trascorsi, lasciando così che il passato usurpi lo spazio del futuro. Si potrebbe ripensare in questa chiave il famoso verso di Yeats, «That is no country for old men»9: il nostro non dovrebbe essere il paese giusto per questi vecchi, qualsiasi età abbiano, che si rifiutano alla forza propulsiva del desiderio, che si tappano nelle loro presunte, rassicuranti certezze, impermeabili all’incontro e alla novità dell’altro.

Note

1 Domenico Starnone, L’umanità è un tirocinio, Einaudi, Torino 2023, p. 3.

2 Ivi, p. 83.

3 Domenico Starnone, Il vecchio al mare, Einaudi, Torino 2024.

4 Domenico Starnone, Confidenza, Einaudi, Torino 2019, p. 129.

5 Domenico Starnone, Il vecchio al mare, cit., p. 81.

6 Domenico Starnone, Intervento al Seminario sul racconto, a cura di L. Rustichelli, Bordighera 1998, p. 66.

7 Luigi Meneghello, Libera nos a malo, Mondadori, Milano 1996, ed. orig. 1963.

8 Domenico Starnone, Labilità, Einaudi, Torino 2006, p. 260.

9 Com’è noto, Sailing to Byzantium di William Butler Yeats si apre col famoso verso «That is no country for old men» (tradotto in italiano come «Non è un paese per vecchi»). Un verso che introduce al contrasto tra la giovinezza e la vecchiaia, l’effimero e l’eterno, e che si sviluppa nel resto del testo.

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