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In questi ultimi anni nelle riviste americane di relazioni internazionali, si sono moltiplicati i saggi di sinologi e di esperti generalisti in allarme per le iniziative cinesi di affermazione non solo economica ma anche politica e militare.

Con il segno opposto si sta ripetendo con la Cina il medesimo approccio avuto con l’Urss. All’epoca i sovietologi (con rarissime eccezioni) descrivevano un sistema così solido che per l’appunto aveva partorito il riformista Gorbachev. Sappiamo come è andata a finire. Con i medesimi paraocchi ideologici invece di dare conto del come e perché della strategia cinese, della sua penetrazione con infrastrutture tecnologiche d’avanguardia – a costo zero – sia nella zona geografica limitrofa, sia in Africa, sia in America Latina, siamo informati principalmente sui mercati dei pipistrelli e sulla rieducazione dell’etnia musulmana. I saggi sono pubblicati in un paese che tiene in gabbia migliaia di minori di etnia latina, separati dai genitori, colpevoli di aver tentato di entrare nel mercato clandestino del lavoro, mettendo a rischio il lavoro degli americani bianchi. Ancor più spaventa la concorrenza della Cina non più o non solo come “fabbrica del mondo” ma in realtà per il suo dichiarato antagonismo culturale e politico. Per il suo agire da pari a pari con il mondo bianco.

La Cina usa con successo tre invenzioni occidentali. La prima ha un’origine europea: il partito comunista come Stato-partito a fondamento della stabilità politica. La seconda è l’information technology, che si considera ‘made in USA’ mentre la sua origine è europea-mediorientale-indiana, nasce come una tecnica militare per essere poi orientata alla gestione dell’economia e della società. La terza invenzione – il soft power – ha un nome e cognome, quello di Joseph Nye, il professore di Harvard che ha spiegato come ‘persuadere’ fosse preferibile a ‘costringere’ con l’hard power.

Le invenzioni sono state adattate alle specificità del paese dal 1949 in poi.

Lo Stato-partito è una riedizione del partito socialdemocratico tedesco di Kautski e del partito bolscevico di Lenin, mentre la gestione staliniana ha un ruolo secondario per due caratteristiche. La prima sta nell’originaria esile esistenza di una classe operaia industriale moderna da rendere protagonista – secondo l’ideologia sovietica. Il suo ruolo è stato svolto dall’esercito di provenienza contadina, spina dorsale ieri e oggi del governo.

La seconda caratteristica sta nel rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, rovesciato rispetto alla sperimentazione staliniana degli operai al governo. Gli operai sono rimasti in fabbrica. Al governo sono andati coloro che sanno governare: i politici professionali dopo aver percorso l’iter della carriera politica. Vi sono poi i tecnici, istruiti nelle università americane e europee, e i manager – statali e privati – istruiti dai loro omologhi delle company estere all’avanguardia. Vi sono gli scienziati, i quali devono inventare e non solo copiare le invenzioni straniere. In tal ambito crescono i successi, soprattutto nell’information technology.

La terza caratteristica sta nell’uso del soft power, la scelta politica (identitaria del successo cinese) orientata all’ampliamento dei consumi interni e al superamento del dislivello città/campagna.

Nella versione cinese il soft power è un solido cerchio tra il dare e l’avere del singolo come ‘lavoratore che da’ e come ‘consumatore che ha’ nella sua comunità, nel suo collettivo. A rendere solido il cerchio è la linea-guida del partito-stato volta a garantire il vivere bene del singolo come base di scambio delle politiche di governo dell’élite di un così grande paese, rimasto ai margini per troppo tempo. Lo scambio è tra il governo che promette un livello sempre più alto di beni al singolo, ma che al singolo chiede di identificarsi negli obiettivi del partito-Stato.

Gli obiettivi sono due, uno è il distacco dalla matrice originaria europea; l’altro è la sfida all’egemonia bianca.

Il distacco riguarda le ideologie e le sperimentazioni che nella fase della prima industrializzazione della piccola Europa, erano assurte a icone divine cui universalmente uniformarsi: per imitarle, per avversarle, ma comunque sempre per confrontarvisi. La Cina ha rotto il suo cordone ombelicale con esse quando Gorbachev ha distrutto l’Urss. Nel passato vi erano state occasioni di autonomia da Mosca, ma la semplice esistenza dell’Urss, con la sua proiezione ideologica alternativa, aveva ancora una sua utilità per quella parte del mondo non bianco, che aspirava ad alternative all’egemonia bianca.

Allo stesso tempo, paradossalmente, proprio la sparizione dell’Urss ha dato maggiore linfa alla sfida tra la Cina e agli USA-con i suoi clientes.

Nella sfida la prima mossa è stata farsi i ‘suoi’ clientes, cercandoli nei paesi non bianchi ed ex colonie e in quei governi latino-americani, stufi di essere “il cortile di casa” di Washington. Nelle relazioni internazionali gli investimenti in Africa, i prestiti a fondo perduto e i vaccini regalati nella contingenza della pandemia sono scelte di soft power, contrapposte alla politica di potenza, alle guerre interminabili, al terrorismo islamico.

Nella sfida la seconda mossa è politico-culturale, riguarda la contrapposizione tra un sistema politico con mille partiti, mille elezioni, mille opinioni, e un sistema basato sull’intesa di massa con chi governa dall’alto, con un unico partito-Stato. L’intesa ha basi materiali nell’aspettativa sul vivere sempre meglio in città e in campagna e ha l’obiettivo ideologico di diffondere l’ostracismo per l’egemonia bianca, nel paese e nel mondo non bianco perché recuperi le proprie radici.

In tal senso la sfida è tra Voltaire e Confucio, in India è tra l’induista Modi e quasi cinque secoli di influenza culturale inglese, mentre il confronto con il terrorismo islamico tocca gestirlo a chi lo ha risvegliato con un miope agire politico-militare.

Anche la Cina è stata implicata da quel risveglio con la riscoperta dell’etnia uigura – undici milioni di musulmani – la cui integrazione è un problema non ancora risolto. La soluzione decisa sembra un tuffo nel passato: ipotizza un’integrazione che ricorda l’approccio delle scuole socialdemocratiche tedesche dove si alfabetizzavano gli operai poiché il sapere consolidava il legame con il partito; per il musulmano che resiste alla secolarizzazione vi è l’hard power d’ispirazione sovietica.

In una realistica scala di obiettivi, l’assimilazione dei musulmani uiguri viene ben dopo i successi economici e la stabilità politica, fondamenta della sfida.

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Un commento a “La sfida della Cina”

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