Il Parlamento europeo, nel suo ultimo rapporto sulla revisione della Direttiva 2011/36/EU, ha incluso la “surrogacy for reproductive exploitation” nella definizione di tratta di esseri umani. Per comprendere il significato di tale innovazione, introdotta a sorpresa dal Parlamento in una fase avanzata della discussione, è opportuno ripercorrerne brevemente l’iter.

Nel dicembre del 2022 la Commissione europea ha presentato una proposta di revisione della Direttiva sulla tratta. A parere delle associazioni che si occupano di assistenza alle persone trafficate, non si tratta di una priorità, poiché la Direttiva costituisce ancora oggi un valido strumento legislativo, mentre è carente la sua applicazione, come del resto ammesso anche dalla stessa Commissione nel rapporto sulla sua implementazione. In ogni caso il processo di revisione potrebbe costituire l’occasione per migliorare alcune previsioni sui diritti delle vittime, in particolare in relazione all’assistenza incondizionata, al permesso di soggiorno, all’accompagnamento di lungo periodo nel percorso di inclusione sociale e ai rimedi, ivi compreso il pagamento dei salari pregressi e il risarcimento dei danni. Viceversa, la proposta della Commissione appare ispirata a un approccio minimalista, che fa spiccare come unico obiettivo rilevante l’obbligo di criminalizzare i clienti delle sex workers, secondo il c.d. modello nordico, plasmato sulla legislazione svedese e adottato da altri Paesi europei tra cui l’Irlanda e la Francia. Senza entrare per il momento nel merito di quest’ultimo aspetto, occorre fin d’ora rilevare che molte grandi organizzazioni anti-tratta tra cui il network La Strada International e la Global Alliance Against Trafficking in Women (GAATW) si sono espresse in senso contrario a tale previsione vincolante che, sia pure indirettamente, sospingendo l’intero mercato del sesso verso l’illegalità, aumenta l’insicurezza delle persone che si prostituiscono ivi comprese le vittime di tratta, e le rende più dipendenti dai loro sfruttatori.

Oltre all’emendamento relativo alla criminalizzazione dei clienti, nella proposta della Commissione vengono inclusi tra i fini illeciti perseguiti dai trafficanti anche i matrimoni forzati e le adozioni illegali. Com’è noto, la definizione internazionalmente accettata di tratta si compone di tre elementi: gli atti, tra cui il reclutamento, l’ospitalità, il trasporto; i mezzi illeciti, tra cui la violenza, la minaccia, la frode e l’abuso di una posizione di vulnerabilità; il fine di sfruttamento, comprensivo del lavoro forzato, schiavitù, servitù, sfruttamento sessuale ed espianto di organi. Conviene subito sottolineare che la proposta della Commissione non costituisce un vero ampliamento della definizione, poiché la lista degli scopi di sfruttamento è una lista aperta, e dunque le legislazioni nazionali possono aggiungere fini ulteriori. Dunque, l’introduzione nella definizione dei matrimoni forzati e delle adozioni illegali costituisce piuttosto un’indicazione politica, che incoraggia gli Stati alla criminalizzazione di tali fenomeni. Se l’inclusione dei matrimoni forzati può considerarsi accettabile, data l’enorme diffusione del fenomeno che ammonta secondo le stime ILO- Walk Free a 22 milioni di persone al livello globale ed è coerente con le caratteristiche e gli scopi della legislazione contro il trafficking, non altrettanto può dirsi per le adozioni illegali. L’introduzione di tale finalità potrebbe infatti comportare l’incriminazione dei genitori adottivi per tratta – un reato gravissimo – anche al di là dei casi di adozione fittizia, realizzata solo a fini di sfruttamento sessuale o lavorativo del minore.

Il Parlamento europeo ha calendarizzato in tempi serrati la discussione nei Comitati congiunti LIBE (Giustizia) e FEMM (Diritti delle donne). Il Rapporto finale, datato 10 ottobre 2023, è andato ben al di là della proposta della Commissione, poiché non solo ha approvato l’allargamento delle finalità della tratta, ma ha esasperato la tendenza alla superfetazione degli scopi del trafficking proponendo, oltre a “forced marriage” e “illegal adoption”, anche “surrogacy for reproductive exploitation, exploitation of children in residential and closed-type institutions, or the recruitment of children to commit or participate in criminal activities”.

È appena il caso di rilevare che gli ultimi due fini illeciti riguardanti i minori sono già completamente coperti dalla preesistente definizione, comprensiva del “child trafficking”. Dunque, la vera novità introdotta dal Parlamento è l’inclusione della maternità surrogata nella definizione di tratta.

Qual è lo scopo di tale iniziativa? Essa è inutile dal punto di vista giuridico, poiché – come già detto – la lista degli scopi illeciti non è esaustiva né chiusa. Si tratta dunque di un obiettivo squisitamente politico, che va letto alla luce della segnalata tendenza a “gonfiare” la definizione di tratta per fini esclusivamente retorici. L’ampliamento non ha né lo scopo né l’effetto di rendere più efficace la norma e di favorire la condanna dei responsabili, che ammonta a una cifra assai modesta, addirittura in diminuzione stando ai dati dell’UNODC (agenzia dell’ONU, con sede a Vienna, incaricata di monitorare l’applicazione del Protocollo ONU sulla tratta, c.d. Protocollo di Palermo). Al contrario, inserire nella definizione nozioni aggiuntive, con una storia giudiziaria recente e/o controversa determina ulteriori incertezze sull’ambito applicativo delle previsioni che criminalizzano la tratta, anche al livello nazionale. Una importante difficoltà è costituita dal fatto che lo sfruttamento non è definito da nessuno strumento internazionale, e solo da pochissime legislazioni nazionali tra cui l’art. 603-bis del codice penale italiano, che tuttavia si riferisce solo allo sfruttamento lavorativo. Se a tale difficoltà si aggiunge quella di inquadrare concetti nuovi come i matrimoni forzati, le adozioni illegali e la “maternità surrogata per sfruttamento riproduttivo”, si comprende che la nozione di sfruttamento diventa ancora più vaga e sfuggente.

Il tentativo perseguito con un tale affastellamento di nozioni è, in primo luogo, rendere la legislazione sul trafficking una sorta di mega-manifesto in cui viene annoverato tutto ciò che è oggetto di riprovazione morale, e che si vorrebbe vietare. Ma invece di affrontare una discussione sulle singole questioni nei Parlamenti nazionali, ci si nasconde sotto l’ombrello della tratta. Poiché il trafficking è un grave delitto, oggetto di universale riprovazione, i comportamenti indicati come fini di sfruttamento sono colpiti da una stigmatizzazione che va bene al di là della formulazione giuridica utilizzata. Quando si parla di “surrogacy for reproductive exploitation”, qualora tale formulazione fosse approvata nel testo definitivo della Direttiva 2011/34/UE e trasposta nella legislazione domestica, in via interpretativa si dovrebbe ritenere che a essere incriminati debbano essere solo i casi in cui sono riscontrabili tutti gli elementi della tratta, cioè che la donna venga “reclutata” in modo violento, fraudolento o abusivo per essere sfruttata attraverso la maternità surrogata, laddove “sfruttata” potrebbe significare che non le venga riconosciuto quanto pattuito. Tuttavia, queste considerazioni giuridiche non hanno nulla a che vedere con il vero obiettivo politico perseguito dal Parlamento, che è già raggiunto con la sola inclusione della maternità surrogata nella definizione. Con questo semplice emendamento, la “surrogacy” viene infatti accostata alla schiavitù, alla servitù, allo sfruttamento sessuale, al lavoro forzato. Con ciò, la gestazione per altri viene indicata come un’attività illecita di rilevante gravità, indipendentemente dalle circostanze concrete nelle quali essa viene realizzata.

Un secondo obiettivo va decodificato tenendo conto che l’introduzione della “surrogacy”nella definizione si accompagna all’adozione del modello nordico sulla prostituzione nella sua forma più estrema. Mentre nella proposta della Commissione l’obbligo di criminalizzare i clienti era limitato a quelli consapevoli che la persona fosse vittima di tratta, il Parlamento ha eliminato la formulazione “knowingly use”. In altri termini, in questa versione, il consumatore di sesso a pagamento è soggetto a sanzione penale anche quando non sa che la persona è stata trafficata, il che equivale a criminalizzare tutti i clienti di coloro che si prostituiscono. È opportuno a questo punto riflettere sul fatto che, sia in materia di prostituzione sia in materia di gestazione per altri, all’ombra dello standard del trafficking, si intacca la sfera dell’autodeterminazione sessuale e riproduttiva delle donne. La volontà politica espressa dal Parlamento è vietare comportamenti considerati lesivi della “dignità” di tutte le donne. Questa nozione oggettiva di dignità (SS.UU. Civili n. 38162/2022, https://www.eius.it/giurisprudenza/2022/728), accolta purtroppo anche in materia di procreazione assistita dalle Sezioni Unite Civili dalla nostra Corte di Cassazione in base a un obiter dictum della Corte Costituzionale, diventa un concetto morale che impedisce perfino il bilanciamento dei diritti, nullificando l’autodeterminazione.

Per proteggere le donne dallo sfruttamento, si pretende di dettare loro ciò che è lecito o non è lecito in relazione all’uso del proprio corpo in nome della “dignità” elevata a nozione extragiuridica e indiscutibile. Né l’art. 3 né l’art. 41 della Costituzione italiana implicano una tale interpretazione. Anzi, l’articolo 41 Cost. esplicitamente prevede che la dignità umana ponga un limite all’iniziativa economica di terzi. Tuttavia, solo in tema di autodeterminazione sessuale e riproduttiva, secondo la posizione proibizionista, non sarebbero le/i titolari di diritti e libertà a decidere che cosa è dignitoso per loro, ma sarebbero piuttosto le autorità pubbliche a imporre una nozione astratta di dignità, forgiata su ciò che il senso comune considera tale. Coerentemente con questo approccio, le donne sono considerate sempre vittime, indipendentemente dalle circostanze concrete nelle quali esse hanno contrattato ed espresso il consenso. Questo approccio è fondato sull’idea patriarcale che, per proteggere le donne dalla mercificazione del corpo, bisogna evitare che, con le loro decisioni libere, esse si espongano alla violenza e/o allo sfruttamento. Il fatto che una parte del femminismo europeo abbia adottato questo punto di vista e che lo sostenga con furibonda determinazione, in una paradossale alleanza con gruppi religiosi ultra-conservatori, è a mio parere sconcertante.

È certamente vero che i trafficanti approfittano delle condizioni di vulnerabilità sociale di alcune donne, soprattutto quelle economicamente più svantaggiate e provenienti dal Sud del mondo, inducendole in modo abusivo ad accettare la gestazione per altri a condizioni inique e degradanti. Tuttavia, il problema non si risolve limitando la loro autonomia procreativa, ma combattendo l’impunità dei trafficanti – che purtroppo nel campo della tratta è ancora la regola – individuando intermediari senza scrupoli e network criminali, seguendo i percorsi dei flussi finanziari, e comunque accompagnando le donne sfruttate in un percorso di inclusione, nel rispetto della loro libertà di scelta. Non c’è bisogno di nuove leggi o di modifiche alla Direttiva per fare tutto questo. Dunque, lo scopo della introduzione della surrogacy nella definizione di trafficking è extra-giuridico: strumentalizzando lo standard dell’anti-tratta, si vuole in realtà proclamare che la maternità surrogata è illecita, e che chi la pratica è necessariamente un carnefice o una vittima. Ciò rafforza la narrazione vittimaria del genere femminile che si sposa con l’approccio securitario e che permea il discorso pubblico in maniera pervasiva (cfr. T. Pitch, Il malinteso della vittima, Ed. Gruppo Abele, 2022).

La maternità surrogata è una situazione complessa, nella quale si intrecciano individualità, desideri, diritti, interessi. Occorre regolare i rapporti e i conflitti che vi sono implicati, piuttosto che demonizzarla introducendo nella legislazione divieti indiscriminati e destinati fatalmente a essere elusi con ricorrenti e penose forme di turismo riproduttivo, come già accade nel nostro Paese. Non è questa la sede per una discussione su una regolazione possibile, che tuteli il preminente interesse del minore, la libertà dallo sfruttamento della madre gestante e al tempo stesso la sua libertà di autodeterminarsi, e le aspettative dei genitori intenzionali. Basta qui ricordare che da molti anni sono state avanzate in campo femminista analisi e proposte che, anche sulla scorta delle legislazioni di altri Paesi, hanno privilegiato la gestazione per altri in forma solidaristica e gratuita, ovvero hanno sostenuto che l’autodeterminazione non deve incontrare il limite del mercato (cfr. fra altri, M. L. Boccia, G. Zuffa, L’eclissi della madre, Pratiche Editrice, 1998; Leggendaria, n. 115, 2016, L. Ronchetti, La dimensione costituzionale dell’autonomia riproduttiva delle donne, in Riproduzione e relazioni. La surrogazione di maternità al centro della questione di genere, Studi di Genere, Cirsde, Università di Torino, 2019). In ogni caso, come ci ha insegnato Stefano Rodotà, la posizione non proibizionista richiede l’accettazione dello slittamento del limite etico, come conseguenza dell’esistenza stessa delle tecnologie riproduttive, il suo governo e la soluzione dei conflitti che possono derivarne. Una tale regolazione, incontrando il campo dell’autonomia procreativa, delle relazioni personali primarie e dei diritti fondamentali, dovrebbe essere “leggera” (cfr. M. G. Giammarinaro, Diritto leggero e autonomia procreativa, in La legge e il corpo, Democrazia e Diritto, n. 1, 1996) e, senza mettere in discussione la liceità dell’accordo di gestazione per altri, ma ponendo al centro la figura della madre gestante, dovrebbe consentire a quest’ultima di ritornare sulla sua decisione dopo il parto. Si tratta di un ragionamento opposto, rispetto alla pervasività dell’approccio penalistico che domina il discorso proibizionista, anche nel contesto della revisione della Direttiva 2011/36/UE.

L’accostamento tra surrogacy e tratta nella proposta del Parlamento europeo – un espediente politico-retorico, come si è detto – colloca la maternità surrogata in un campo semantico connotato dall’eccezionalità e dalla illiceità, e si presta a criminalizzazioni indiscriminate al livello nazionale, che potrebbero andare anche al di là del testo della Direttiva. L’approccio che qui si suggerisce è al contrario volto a considerare la gestazione per altri come una fattispecie da regolare in modo rispettoso dell’autonomia delle persone, con lo scopo di dirimere i conflitti relazionali, in maniera da tutelare prioritariamente i bambini nati da GPA – indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori di intenzione – e le madri gestanti, anche in termini economici. Al contrario, il divieto di gestazione per altri vigente nella legislazione italiana, che si vorrebbe legittimare al livello europeo, priva di qualunque tutela proprio le madri surrogate socialmente più fragili, che vengono lasciate in balìa di intermediari e sfruttatori. Dunque, una normativa “leggera” dovrebbe regolare la materia, lasciando al diritto penale un ruolo limitato e residuale, riservato ai casi nei quali l’intermediazione criminale costringe la madre gestante a subire condizioni disumane e degradanti.

*Magistrata, già Special Rapporteur dell’ONU sulla tratta di persone, in particolare donne e minori.

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3 commenti a “La stigmatizzazione della maternità surrogata, all’ombra della tratta”

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