Dei tre livelli coessenziali alla piena realizzazione del principio di “sussidiarietà circolare”, quello costituzionale, quello normativo e quello attuativo, vorrei soffermarmi in particolare sul terzo, senza omettere qualche riferimento al secondo. Per affrontare la dimensione della operatività mi riferirò al concetto di governance sussidiaria, ovvero ad una “modalità di governo nella quale i cittadini svolgono attività di interesse generale in modo autonomo, senza togliere alle istituzioni pubbliche né il dovere di mettersi in relazione con esse, né alcuna delle responsabilità che esse hanno, tra le quali vi è anche quella di “favorire” tali attività”.
Cercherò di mantenere il focus su Roma, e lo farò mettendo in evidenza alcune condizioni di contesto – che pongono domande ad oggi in gran parte irrisolte – delle quali è necessario tenere conto nel nostro ragionamento.
Il contesto civico/politico cittadino è caratterizzato, semplificando molto, da quattro fattori a mio avviso tanto evidenti quanto significativi:
1. La presenza di un vivacissimo, composito, multiforme ambiente civico nel quale operano non solo associazioni storiche ma anche una miriade di gruppi, comitati, piccole organizzazioni informali. Un ambiente che esprime istanze, proposte e progetti che vanno dal micro al macro, a volte di ampia rilevanza, nel quale vengono esercitate in autonomia dalle istituzioni forme di partecipazione anche inedite che si collocano all’interno dei tre grandi contenitori della cura dei beni comuni, della difesa dei diritti, dell’empowerment delle fasce più deboli della popolazione. Questo mondo, orientato alla concretezza e al conseguimento di risultati tangibili, spesso non interloquisce con l’amministrazione. Dai risultati della ricerca realizzata da Fondaca sulla rubrica “La città che resiste” della cronaca di Roma del quotidiano La Repubblica (analisi effettuata su sei mesi del 2019), risulta che in ben 272 iniziative, pari al 70,8% delle 384 riportate, non è emersa alcuna evidenza di un rapporto con le istituzioni, di segno positivo o negativo. Ma questo mondo, altrettanto spesso, si scontra e si contrappone con la PA (gestendo anche forme di motivato conflitto), ed è spesso del tutto indipendente, se non ostile al rapporto con le organizzazioni di partito. In casi non isolati si muove in forma indipendente anche dai grandi movimenti di attivismo civico. In generale, queste realtà riescono a operare nonostante la selva di norme e regolamenti che sembrano fatti apposta per scoraggiare qualunque iniziativa. Si tratta, del resto, di un insieme di realtà non sempre capaci di coordinarsi fra loro, molto parcellizzate, a volte incapaci di una lettura trasversale dei problemi. Ma è certamente la parte della città nella quale, da diverso tempo, esiste maggiore fermento, disponibilità alla sperimentazione e innovatività. Di certo è l’ambiente più prossimo e sensibile agli impatti delle politiche pubbliche.
2. L’assenza della cosiddetta politica, ovvero l’incapacità dei partiti tradizionali di svolgere adeguatamente il proprio ruolo di rappresentanza e di indirizzo – prova ne è il preoccupante ritardo nella formalizzazione di programmi e nella scelta dei candidati per le prossime elezioni amministrative, come anche una progressiva presa di “potere” della struttura amministrativa rispetto alle scelte e al governo della città. Nel bene e nel male, l’interlocutore principale sembra essere appunto l’amministrazione (la burocrazia?) nel silenzio assordante delle forze politiche che non riescono ad offrire alcuna visione credibile sul futuro della città e tantomeno ad orientare le policy pubbliche verso obiettivi strategici di largo respiro.
3. Un’amministrazione elefantiaca quanto a numero di dipendenti, caricata di aspettative legittime da parte dei cittadini, ma anche esagerate per i motivi di cui sopra, assolutamente al di sotto degli standard minimi di efficienza e di efficacia necessari per il governo di una città complessa come la nostra, con un personale impreparato, procedure stantie, zero digitalizzazione, poca trasparenza, indietro rispetto alle sfide ambientali, della mobilità, dei servizi sociali, delle politiche abitative solo per citarne alcune. Un comune che non ha affrontato il passaggio a città metropolitana come invece detterebbe la legge. Dire che la sfiducia dei cittadini nella PA (a prescindere dai sondaggi pre-elettorali) sia scarsa è quasi una banalità.
4. La scarsa/quasi nulla presenza nell’arena della battaglia politica di quella che potremmo definire la leadership culturale, del mondo delle arti, delle imprese, della ricerca. Negli ultimi anni (anche mesi) su Roma sono stati scritti molti testi, sono state pubblicate moltissime ricerche, articoli, interviste, per non parlare dei tweet, ma la “scrittura” sembra essere al momento l’unica forma di partecipazione di mondi che probabilmente esitano a prendere posizione, perché raramente questi cervelli si uniscono o si spendono per cause comuni o si mobilitano a fianco dei cittadini. Tranne, ovviamente, preziose eccezioni.
In questa situazione, grossolanamente tratteggiata, e a fronte delle innumerevoli problematiche che coinvolgono la città, il suo presente e il suo futuro, è chiaro che la dimensione operativa della sussidiarietà circolare, da una parte, potrebbe rintracciare un terreno fertile di sperimentazione e di concreta applicazione, dall’altra, si trova a fronteggiare numerosi ostacoli, resistenze e difficoltà, scivolando spesso verso derive che ne possono indebolire se non minare alla base la portata eccezionale di cambiamento in essa insita.
Mi riferisco per esempio ai frequenti tentativi di strumentalizzazione o di “subsidiarity washing”, prendendo a prestito il noto neologismo inglese sull’ecologia di facciata, operato dalla pubblica amministrazione quando, ad esempio, confonde le – rare – iniziative di democrazia partecipativa (che per definizione sono uno strumento il cui attore principale è la stessa amministrazione), con la sussidiarietà circolare che ha tra i propri elementi costitutivi l’autonoma iniziativa dei cittadini. Ma lo stesso discorso potrebbe valere anche per alcuni movimenti civici affermati e di tutto rispetto, quando questi accettano partnership con l’amministrazione su questioni nelle quali le carenze e i difetti del servizio pubblico sono conclamate, senza porsi il problema delle responsabilità, delle scelte e dei comportamenti dell’attore pubblico, ovvero del quadro politico più generale. E lo fanno sempre in nome della cosiddetta sussidiarietà circolare (cit.“xxx è un movimento che si occupa del coinvolgimento dei cittadini nell’attività mirata alla cura della città in supporto del Comune di Roma sulla base del principio della sussidiarietà).
Detto questo, proverò quindi a formulare alcune questioni, sulle quali a mio avviso sarebbe utile concentrare l’attenzione di noi tutti in una prospettiva di apporto propositivo. Una finalità perseguibile potrebbe essere quella della formulazione di una sorta di linee guida su quella che potremmo definire la governance sussidiaria.
I soggetti e i ruoli della sussidiarietà circolare
A me sembra chiaro che i grandi protagonisti del principio della sussidiarietà circolare siano i cittadini, singoli e associati che operano per l’interesse generale. La Costituzione, del resto, raccoglie e riconosce una realtà di fatto, emersa in Italia come un po’ in tutto il mondo negli ultimi decenni. Il secondo polo della relazione è costituito dalle istituzioni, che hanno il compito (comprendo, non facile) di favorire le iniziative che nascono autonomamente in ambito civico.
È evidente che ci si trovi di fronte ad un fatto nuovo, perché alla PA viene richiesto di essere in grado di accogliere un soggetto complesso e di gestire un ruolo difficilmente compatibili con ciò che gli strumenti ordinari in suo possesso prevedono e consentono di fare. Eppure, nonostante la tentazione di ignorare questa nuova soggettività civica, o di viverla come una insidia al proprio potere sulla cosa pubblica, la stessa amministrazione deve prendere atto che il suo monopolio non c’è più, né di fatto, né di diritto.
In un certo senso la chiamata è ad avere il coraggio e la lungimiranza di aprire le porte per fare entrare i cittadini nei luoghi che storicamente sono stati e sono dominio dei pochi, accettando quindi che essi possano andare ben oltre la protesta, la vigilanza o la segnalazioni di situazioni anomale, e anzi riconoscendo loro perfino la capacità di indicare come spendere le risorse pubbliche o di indirizzare specifiche scelte, anche non economiche. La PA è chiamata a superare il paradigma che inchioda i cittadini alla rabbia, alla rassegnazione o al disimpegno – tutti sentimenti che proprio perché di stampo emotivo possono essere di volta in volta rimossi oppure facilmente strumentalizzati. La PA dovrebbe accettare che i cittadini sono in grado di scegliere la strada della consapevolezza come quella del conflitto informato, quasi impossibile da addomesticare. Recentemente, in occasione del suo congresso nazionale, il movimento Cittadinanzattiva ha ribadito l’importanza di rimanere tra i “molti” (cfr. il saggio di Nadia Urbinati, “Pochi contro molti”, aprile 2020), di dar loro strumenti di informazione e di autotutela, di riecheggiarne la voce e le istanze, esprimendo quindi la capacità di interagire con i “pochi” nelle forme della collaborazione ogniqualvolta è possibile o del conflitto ogniqualvolta è inevitabile. In questo caso per conflitto si intende una contrapposizione informata e sul merito, non fine se stessa, urlata o propagandistica, ma che invece prende atto della dimensione anche conflittuale, cioè “politica”, delle attività civiche.
Ma se la risposta prevalente dell’amministrazione, è quella “amministrativizzante”, la cui traduzione normativa per eccellenza è stata la cosiddetta riforma del terzo settore, nella quale le organizzazioni di impegno civico vengono omologate da una normativa con apparenti intenti semplificatori, come va colto quel riferimento al “favorire” insito nell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione? La tendenza sembra essere quella di appiattire verso l’erogazione dei servizi la multiformità di soggetti, molti dei quali attivi sui fronti dell’advocacy o dell’intervento diretto (vedi anche sotto). Anche qui, la funzione meno generatrice di conflitto (erogare servizi in sostituzione delle istituzioni e in convenzione con esse) viene preferita a quelle a più alto potenziale di conflitto mentre, riguardo ai beni comuni, l’autonoma iniziativa dei cittadini viene diffusamente interpretata non in una prospettiva di “governance sussidiaria” ma di “amministrazione condivisa”, pacificando arbitrariamente l’interazione tra istituzioni e cittadini e appiattendo questi ultimi sull’inedito ruolo di chi dovrebbe amministrare con, piuttosto che di chi ambisce a co-governare. Che è appunto la questione di cui oggi stiamo trattando.
La portata della sussidiarietà circolare
Dovremmo chiederci se non sia il caso di rafforzare la riflessione sulla applicazione del principio costituzionale a tutte e tre le strategie dell’attivismo civico, a partire da quelle dell’advocacy e dell’intervento diretto. Noto infatti che l’attenzione sia prevalentemente concentrata sulla organizzazione di servizi. Forse perché essi possono sembrare maggiormente “concreti”, anche se va sempre tenuto conto: 1) del rischio che la sussidiarietà circolare si trasformi in sostituzione tout court di ciò che stato e amministrazioni non riescono a garantire; 2) dello scivolamento generalizzato verso la questione dei beni comuni, che ovviamente ci sta, ma se tutto diventa bene comune l’estensione del concetto è tale da banalizzarlo e annacquarlo. Detto in altre parole, se tutto diventa bene comune (il prato, la scuola, il quartiere, la città, come l’acqua pubblica o il patrimonio artistico- culturale) alla fine nulla è bene comune.
Il mio intento è comunque sottolineare l’importanza della strategia e della pratica civica dell’advocacy e dell’intervento diretto, che rischiano di rimanere schiacciate dal “predominio” della dimensioni dell’organizzazione di servizi che, quantomeno a livello locale, è maggiormente à la page. Le altre due, probabilmente, fanno più paura.
Si tratta invece di ambiti essenziali, anche nel processo di riconoscimento e di presenza nel dibattito pubblico di quelle istanze che rappresentano a tutti gli effetti l’interesse generale, anche perché si tratta di processi maggiormente sottoposti alla raccolta di consenso e di adesione da parte di larghe fasce della società (l’advocacy) e di espressione autonoma ed autorganizzata (quella dell’intervento diretto).
Il perimetro della sussidiarietà circolare
Molte delle azioni che vengono poste in essere dai cittadini, come dicevo sopra, nascono, crescono, si attuano a prescindere o comunque prima di un eventuale incontro/scontro o necessaria relazione con le istituzioni. L’attivismo civico, come del resto la PA, spesso non sono neanche consapevoli del riconoscimento costituzionale ottenuto e si muovono lo stesso, anche senza il riconoscimento formale della portata delle loro azioni. Non faccio riferimento solo al fattore dell’autonomia, ma anche della loro “indipendenza” da forme normative ad hoc, sia perché la realtà è troppo ricca per poter essere ridotta a un regolamento o ad una norma specifica, sia perché spesso le norme esistenti, diciamo l’ordinaria amministrazione, possono essere sufficienti ad offrire risposte a specifiche questioni. Cosa sta dentro e cosa sta fuori il perimetro della sussidiarietà circolare? Cosa può servire davvero per dare valore alle iniziative civiche e non a toglierlo, ma anche a non irrigidire o appesantire con una iper-normatività le prassi già in atto? Forse la riposta potrebbe essere quella di mettere in fila l’esistente – prassi, esperienze, successi e insuccessi e su questo ricostruire il filo rosso, o meglio la rete di connessione della sussidiarietà.
Come costruire una relazione se non c’è fiducia?
Il tema della fiducia, in una relazione tra soggetti profondamente diversi è ovviamente centrale. La circolarità poi, accentua la portata della relazione/delle relazioni da instaurare, si parte dalla autonoma iniziativa dei cittadini per arrivare all’interesse generale in un processo che, come detto sopra, può avere elementi di conflitto, ma che dovrebbe essere caratterizzato dalla facilitazione da parte delle istituzioni e, specialmente a un risultato valido per tutti. Ora è noto non solo che istituzioni e PA sono tra quelli maggiormente sotto schiaffo quanto a fiducia da parte dei cittadini. A Roma, poi, specialmente durante l’attuale consiliatura, ma il discorso vale anche per parecchi anni indietro, tutto si respira fuorché fiducia reciproca. Come si può non tenere conto di questo fattore? Un’amministrazione che taglia il sussidio per i care giver dei malati con disabilità gravissima, che non è capace dopo mesi di emergenza per i senza dimora, con l’inverno e con il covid di assegnare i fondi per il piano accoglienza o di gestire i voucher per i pasti, cosa e come può favorire? Perfino la rete della solidarietà e della cooperazione, che ha sopperito alle carenze dell’amministrazione, di fatto è a rischio smantellamento a causa dell’inerzia, degli errori, delle scelte di Roma Capitale, che, per contro, invita i cittadini – attraverso il suo portale ufficiale – a segnalare i casi di violazione del distanziamento da covid, come se questo fosse il problema principale, e comunque considerando i cittadini utili solo per le segnalazioni di stampo “poliziesco”. Si potrebbe affermare che la sfiducia sia reciproca.
Quando un’amministrazione si comporta in questo modo (ma gli esempi per Roma ed altre amministrazioni potrebbero essere moltissimi) come ci si può comportare? E come distinguere le responsabilità politiche da quelle amministrative? E, sempre per restare su Roma, come non tenere conto dell’attuale assetto dettato dallo statuto capitolino, che riserva ai municipi un ruolo del tutto residuale, quando invece, spesso, sono proprio i municipi (magari governati dall’opposizione e quindi considerati “nemici” dal governo capitolino), nonostante tutto, ad essere non solo il primo riferimento per i cittadini ma anche gli organismi che più virtuosi nella sperimentazione di forme di relazione con le realtà civiche locali e di sussidiarietà? Anche questo assetto anomalo e inefficiente genera una logorante, quotidiana, implacabile sfiducia verso la PA. Con chi dovrebbero collaborare i cittadini, esattamente? E questa amministrazione sarà in grado di facilitare – con quali mezzi, strumenti, personale, capacità di visione – l’iniziativa autonoma dei cittadini nel quadro dell’interesse generale? Non dovrebbe prima profondamente riformarsi?
Chi stabilisce l’interesse generale?
Se da una parte l’art. 118 pone i cittadini in condizione di parità costituzionale, in funzione dall’attività che viene svolta, è anche chiaro che esso si rivolge alle azioni connesse all’interesse generale. L’indicazione è chiaramente rivolta al “fare”, non al come farlo, né al chi è deputato al farlo (si parla di cittadini associati e singoli). L’accento è evidentemente riposto sui risultati, sugli outcome (sic, a differenza delle amministrazioni che spesso spacciano gli output per risultati, con la ovvia, crescente delusione di gran parte dei cittadini che invece si aspetterebbero ben di più di una delibera o un atto meramente formale). Il tema dunque è quello del grado di potere che assumono i cittadini nei processi decisionali. Ma chi decide che una attività sia di interesse generale e non leda altri interessi o diritti? L’esperienza dice che quando i cittadini si mobilitano e riescono a catturare un consenso trasversale, lo fanno certamente in favore di interessi diffusi e collettivi, peraltro anche a prescindere dalla “quantità” dei mobilitati o dell’estensione locale della questione (anche un cittadino singolo può porre una questione di interesse generale). L’amministrazione dovrebbe favorire il processo (peraltro è pagata, da noi, per garantire servizi, non è certo la proprietaria della città) ma ad un certo punto è la politica che dovrebbe intervenire. In questo senso esistono ottimi metodi per evitare la trappola del contarsi a maggioranza/minoranza (che lascia sempre fuori qualcuno) come quello del processo deliberativo, nel quale la decisione avviene su base consensuale, dopo una discussione informata. Nel dirimere eventuali conflitti tra parti e posizioni avverse, di solito questo metodo risulta il più efficace. In sintesi, la definizione dell’interesse generale è anche il frutto della vita della comunità politica, delle pratiche di cittadinanza, del dibattito pubblico e dei conflitti che esso genera o raccoglie. Ed è probabilmente a questo insieme di fatti e soggetti che dovremo guardare, anche nel disegno della governance sussidiaria.
Suggerimenti da approfondire
Mettere in comune, in una formalizzazione da articolare, le molte esperienze già realizzate e individuare – insieme, e senza rigidità preconcette – le risposte mancanti. Si potrebbero elaborare, ad esempio, delle linee guida. Di certo non possono essere uno o più regolamenti a legittimare l’azione civica, ma un insieme di azioni, comportamenti, scelte. Riflettere invece sulle indicazioni, anche di governance operativa, che possono venire delle diverse fasi del ciclo di vita delle politiche pubbliche.
Sviluppare iniziative di informazione e formazione, sia rivolte alle amministrazioni, che ai cittadini, che alle PA e alle istituzioni. Cimentarsi in sfide grandi, in operazioni ambiziose per Roma, come per esempio la partecipazione civica alla elaborazione della riforma dello statuto di Roma Capitale e del perimetro geografico dei attuali municipi.
Avere sempre a mente che la “chiamata” è governare insieme, non ad amministrare insieme.
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