Materiali

La visione del Mite

Qualche nota a margine sull’audizione del ministro Cingolani.

Ha fatto un certo clamore la dichiarazione del Ministro della transizione ecologica Cingolani sulla “rinnovabile delle rinnovabili”: la fusione nucleare. Certamente relegare la transizione energetica allo sviluppo di una tecnologia la cui linea di fede si sposta in avanti di 50 anni in 50 anni non sembra essere un buon viatico per l’andamento della stessa, e appare essere una dichiarazione dal sen sfuggita, diretta emanazione di una diffusa linea di pensiero secondo la quale “la tecnologia ci salverà”. Del resto anche il riferimento a monitoraggi ambientali fatti di digitalizzazione spinta e droni riflette la stessa linea di pensiero, escludendo dall’orizzonte il ruolo attivo che le comunità possono e dovrebbero avere nella gestione e nella salvaguardia del bene comune. Ma torneremo più avanti su questo. Nel seguito viene espressa qualche valutazione sull’audizione del ministro alle Commissioni riunite ambiente e industria di camera e senato, evento in sé da valutare senz’altro positivamente, in relazione alla stessa istituzione del Ministero della transizione ecologica (Mite). Il nuovo ministero, infatti, rappresenta finalmente il riconoscimento a livello istituzionale della forte interconnessione che esiste tra le questioni energetiche ad ambientali, specie in un tempo che sembra avviarsi a vedere grandi cambiamenti nelle modalità in cui da almeno due secoli produciamo ed utilizziamo l’energia. Il modo con cui verranno sciolti i nodi irrisolti sul piano delle politiche concrete e delle attività che ne conseguono faranno parte di un discorso ancora tutto da scrivere.

La decarbonizzazione del sistema energetico italiano: è tutto oro quel che luccica?

L’audizione del neo-ministro alla transizione Roberto Cingolani contiene dichiarazioni e prese di posizione che meritano senz’altro di essere sottolineate. Ad una prima lettura appare esistere consapevolezza della necessità di accelerare verso un sistema energetico a basse emissioni di gas climalteranti, con l’assunzione dell’obiettivo di alimentare il Paese con il 72% di elettricità rinnovabile entro il 2030. Coerentemente viene riconosciuta la necessità di un forte incremento dell’installato rinnovabile, fotovoltaico ed eolico, anche marino, e conseguentemente la necessità di modificare gli attuali percorsi autorizzativi, che fungono da ostacolo alle installazioni, con l’ulteriore necessità, dunque, di definire una netta “transizione burocratica”. Ancora positivamente viene riconosciuta la necessità di revisione del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), fermo a obiettivi di riduzione delle emissioni consistentemente più bassi rispetto a quelli assunti come vincolanti dalla Comunità Europea (il 38% italiano contro il 55% europeo rispetto al 1990). Tutto bene, allora? No, perché da qui iniziano le problematicità. Vediamo meglio. Affermato come necessario l’obiettivo più ambizioso, immediatamente si pone l’accento su come la modalità con cui arrivare a tale valore possa essere estremamente variabile. Nei fatti viene prevista una curva di crescita delle rinnovabili sostanzialmente ferma almeno fino al 2025, anno in cui è già delineata la chiusura del carbone in Italia. Successivamente dovrebbe verificarsi una del tutto teorica impennata finale delle installazioni, specie negli anni più a ridosso del 2030. Quindi, al di là delle dichiarazioni ambiziose, si parte ribadendo un percorso a breve-medio termine coincidente con quanto già lo stesso ministro ha dichiarato superato dai nuovi impegni europei. E nel frattempo? Su questo il ministro sfuma, ma le sue parole lasciano bene intendere che il gas naturale, fossile anch’esso ed esso stesso climalterante, continuerà ad avere un ruolo dominante in quel che viene definito il mix energetico italiano. Lo stesso gas naturale per il quale il piano nazionale superato prevede esplicitamente la costruzione di nuove centrali termoelettriche a gas, atte a sopperire al mancato utilizzo del carbone programmato a partire dal 2025. Ma è proprio il gas naturale a essere uno degli ostacoli alla crescita di un sistema energetico ambientalmente sostenibile. Infatti, sempre nel 2019, è stato definito il meccanismo con cui Terna, società a maggioranza pubblica, acquista la corrente che poi distribuisce nella rete. Il meccanismo, chiamato Capacity Market, pone in pagamento la disponibilità di potenza elettrica a prescindere dalla corrente effettivamente venduta. Il mercato delle capacità è un meccanismo adottato in tutta Europa, ed è specificatamente previsto per sopperire alla aleatorietà delle fonti rinnovabili non programmabili, secondo modelli di implementazione differenti da paese a paese. Il sistema adottato dal capacity market italiano (insieme a quello polacco) è un sistema che favorisce il gas, fungendo da incentivo alla costruzione di nuove centrali, anche a dispetto del pieno utilizzo delle centrali già esistenti. Nei fatti, ponendo in secondo piano altre possibili soluzioni tecniche, col meccanismo del Capacity Market si mettono in grado le aziende di subordinare la dismissione del carbone alla costruzione di nuove centrali a gas, fortemente incentivata dal punto di vista economico. In Italia nel 2019 sono stati consumati circa 300.000 GWh di energia elettrica, di cui circa 1/3 rinnovabile, derivante da poco più di 119 GW di capacità produttiva complessiva installata. L’operatività delle centrali termoelettriche preesistenti non ha raggiunto il 35% della loro capacità massima (pari a 64 GW) e già nelle condizioni attuali il sistema elettrico è del tutto in grado di fare a meno del carbone, con un semplice aumento del tutto temporaneo e marginale (non superiore al 20% e comunque destinato a diminuire in maniera sostanziale con l’incremento delle rinnovabili) delle ore di utilizzo. Senza alcuna discussione pubblica, il modello di capacity market adottato ha creato una condizione che agisce da elemento di stabilizzazione della produzione elettrica da fossile, fungendo da freno alle fonti sostenibili a dispetto di qualunque revisione del PNIEC. Uno dei motivi per cui si sceglie di pagare la capacità disponibile rispetto alla corrente realmente erogata è rispondere ai picchi di domanda che possono verificarsi data la aleatorietà della disponibilità elettrica tipica delle rinnovabili non programmabili. Tuttavia rimane del tutto assurdo pensare di risolvere gli eventuali problemi di stabilizzazione della rete attraverso la costruzione di nuove centrali a gas naturale, combustibile fossile di cui viene proclamata la necessità di dismissione. Il ministro ha parlato di una modulazione degli interventi in funzione delle necessità e degli avanzamenti che via via si verificano, ma nei fatti appare proprio che la centralità del gas naturale come “combustibile di transizione” non venga affatto messa in discussione. Nelle sue dichiarazioni il ministro ha confermato che si provvederà all’attuazione del Capacity Market, senza neanche accennare alla necessità di un capacity market che escluda nuove installazioni a gas e che al contrario agevoli il disimpegno del paese dalla dipendenza fossile nella generazione elettrica. E in tutto questo anche la dismissione dei sussidi ambientalmente dannosi (SAD) viene rimandata a tempi migliori, presumibilmente in là, fuori dalle condizioni di crisi che stiamo oggi vivendo.

La via italiana all’idrogeno

In relazione all’idrogeno il ministro ha dato indicazioni generiche contenenti anche cose tecnicamente condivisibili, in un quadro tuttavia molto più discutibile. L’idrogeno è un elemento gassoso in grado di produrre una elevata quantità di energia ed emissioni climalteranti potenzialmente nulle nel suo utilizzo. Per tale ragione è un ottimo vettore energetico. Tuttavia, non trovandosi allo stato libero in natura, è necessario ottenerlo estraendolo dalle molecole cui è legato, principalmente da idrocarburi o da acqua. Le caratteristiche dell’idrogeno ne fanno un vettore energetico particolarmente importante per arrivare a realizzare una decarbonizzazione profonda del sistema, specie nei settori di particolare difficoltà, come alcuni settori industriali “difficili” (chimico, siderurgico…) o nella logistica pesante e a lunga distanza, compresa la portualità. La commissione europea ha posto l’idrogeno verde, ottenuto da fonte rinnovabile e con emissioni climalteranti nulle, quale punto centrale per arrivare al 55% di riduzione delle emissioni entro il 2030 e alla piena decarbonizzazione nel 2050, attribuendo a esso la capacità di sopperire alle necessità non elettrificabili, valutate attorno al 20% del globale dei consumi energetici europei. L’idrogeno, inoltre, può essere prodotto e accumulato nei momenti di sovrapproduzione di energia da fonte rinnovabile, per essere successivamente utilizzato in una cella a combustibile producendo di nuovo elettricità e affiancandosi in tal modo e in prospettiva agli altri sistemi di gestione dei picchi di domanda. Dato il ruolo strategico dell’idrogeno verde, la Commissione europea lo pone al centro di una rilevante mole di investimenti comunitari, con l’obiettivo di arrivare ad un costo di mercato competitivo di 1,5 – 2 €/kg per il 2030. Nella sua esposizione il ministro rimanda al documento “Strategia nazionale idrogeno. Linee guida preliminari” già pubblicato dal Mise per la consultazione e di cui non ci occupiamo in questo testo. Quello che qui si vuole sottolineare è quello che forse sottende le affermazioni esposte al termine dell’audizione. Nel dire che l’idrogeno verde al 2030 alimenterà l’autotrasporto il ministro espone tutta la sua relazione a una contraddizione rilevante. Come si concilia una diffusione massiva dell’idrogeno al 2030 con il fatto che egli stesso nella sua audizione ribadisca che occorre “puntare decisamente sulla mobilità elettrica sviluppando una tecnologia degli accumuli” (elettrici, ndr) “che permetta di costruire una filiera nazionale delle batterie”? Nel dire che le batterie hanno un problema di gestione a fine vita, affermazione allo stato condivisibile, non sarebbe stato bene affiancare allo sviluppo della filiera nazionale delle batterie anche lo sviluppo ancor più deciso e parallelo di una filiera a basso impatto ambientale per il recupero dei componenti delle batterie stesse? E poi, se la necessità di arrivare al 72% di elettricità da rinnovabile al 2030 fa tremare i polsi rendendo difficile la produzione di ulteriori rinnovabili per la generazione di idrogeno verde, come faremo ad avere nel 2030 quantità del vettore adeguate a sostenere il sistema dei trasporti? Sottolineando che non si tratta di alimentare l’intero sistema energetico ad idrogeno verde, è probabile che il ministro, nella fase più direttamente espositiva delle linee guida del Mite, attinga a documenti sviluppati prima del suo arrivo e che il suo pensiero di fondo corrisponda invece proprio a quanto da lui espresso in coda all’audizione, compresa la fusione nucleare in stato avanzato al 2030, “rinnovabile delle rinnovabili” con la quale potenzialmente ottenere tutto l’idrogeno verde che ci potrà servire. Sull’idrogeno sarebbe stato bene sentire parole nette, che andassero non solo verso il del tutto condivisibile elogio dell’idrogeno verde (ma solo verde…), ma anche che non immettessero il vettore sostenibile in un “mix estremamente variabile” di diversi vettori energetici, seppure in funzione dell’evolversi delle tecnologie. Quindi, mentre si pensa senz’altro alla coesistenza con il gas naturale (e questo viene dichiarato), si pensa forse anche ad altro? Da osservatori non si può evitare di soffermarsi sul fatto che l’idrogeno blu, derivante dal gas naturale e ottenuto adottando tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2, è un vettore particolarmente caro all’Eni, il quale ne promuove la produzione chiedendone anche il finanziamento, e avendo in mente la reimmissione ad alta pressione della CO2 catturata nei siti dismessi nell’Adriatico. E proprio in relazione all’Eni sarebbe stato bene che il ministro avesse detto qualcosa in più sulla definizione del ruolo e dei confini che le società partecipate possono svolgere nella transizione energetica del paese: dove produrre, come produrre, verso cosa utilizzare. Tutto questo è mancato, e un ministero nato con un nome ambizioso sembra ridursi a essere qualcosa che è la somma dei pezzi preesistenti, in totale piena continuità con quanto da quei pezzi già precedentemente elaborato. Sostanzialmente si lasciano i grandi operatori energetici, che in Italia sono a controllo pubblico, liberi nelle loro scelte, dando loro la possibilità di determinare la direzione verso cui orientare il paese, essendo spesso tali operatori non solo in grado di definire i contesti di riferimento nazionali entro i quali si troveranno ad operare, ma anche, probabilmente, gli estensori materiali degli stessi documenti quadro di riferimento.

La rinnovabile delle rinnovabili

La fusione nucleare, “l’energia delle stelle”, è l’eterna promessa della big science. Nelle stelle nuclei di atomi di idrogeno si fondono tra di loro per produrre elio, liberando al contempo una grande quantità di energia. Affinché questo avvenga sono necessarie elevatissime temperature, comunque non facilmente raggiungibili sulla terra. Per rendere l’impresa leggermente meno improba di quanto non accada in natura, invece di due atomi di deuterio (isotopo stabile dell’idrogeno) nei reattori a fusione si fanno fondere deuterio e trizio, quest’ultimo isotopo radioattivo con tempo di dimezzamento pari a 12,3 anni. Nella reazione si producono neutroni veloci che non essendo confinabili in un campo magnetico come invece avviene per il plasma reagente, tendono ad interagire pesantemente con i materiali del reattore, che fungono anche da schermatura. Senza entrare ulteriormente in dettagli, le complicazioni tecnologiche appena accennate fanno si che dai primi studi sulle reazioni delle stelle degli anni ‘30-40 ad oggi lo sviluppo della fusione nucleare per scopi pacifici è l’eterna tecnologia pronta tra cinquant’anni (diversamente è andata per gli scopi militari: la prima bomba all’idrogeno fu sperimentata nel 1952). Nulla lascia pensare che tra trenta anni, al 2050, non si parli ancora della fusione come tecnologia pronta tra cinquant’anni. E in questo senso è da sottolineare come giustamente tale tecnologia non sia affatto presente nell’orizzonte della Comunità europea come tecnologia abilitante per la transizione energetica. La comparsa della fusione nucleare quale opzione della transizione è da contestare per almeno due motivi. Il primo perché rilancia (forse tradendo un pensiero recondito) il mito di un possibile utilizzo di un nucleare pulito, che vede la fusione per il dopo-domani, ma forse per domani potrebbe fare capolino anche un nucleare a fissione “sicuro”, il così detto nucleare di quarta generazione (anch’esso da tempo in una incubazione infruttuosa). Il secondo motivo risiede, e anche questo poco stupisce, nel porre in secondo piano il rilevante ruolo sostanziale che le rinnovabili dovrebbero e potrebbero avere verso un cambio di paradigma nella produzione e nel consumo dell’energia. Le tecnologie rinnovabili consentono, infatti, lo sviluppo di sistemi sulla base delle comunità e dei loro bisogni. Non essendo possibile una espansione infinita delle disponibilità produttive da rinnovabile delle singole comunità energetiche, una conversione del sistema in senso orizzontale e comunitario consentirebbe una autoregolazione dei consumi, con un incentivo di fatto verso azioni e comportamenti a minor consumo energetico. Chiaramente dovrebbe cambiare il ruolo delle società energetiche, che diventerebbero enti di servizio e supporto e non enti erogatori quali ora sono. Al contrario lo schema di fondo e mai esplicitato dell’attuale riconversione verso le rinnovabili tende a lasciare il più possibile inalterato l’attuale sistema fortemente centralizzato, inchiodando gli utenti al ruolo di clienti per lo più passivi, consumatori pronti a incrementare i propri consumi in funzione delle spinte del mercato. In barba alle tante dichiarazioni verso un mercato di produttori-consumatori di cui più o meno spesso si sente parlare. E forse non è un caso che Eni partecipi come finanziatore a progetti di fusione nucleare, dichiarati magicamente come progetti di sviluppo di energie rinnovabili. Che il ministro sia stato folgorato sulla via di Damasco dalla visione dell’Ente nazionale idrocarburi?

Una giusta transizione?

Per terminare vale la pena di fissare l’attenzione su quella che viene chiamata la giusta transizione e sul ruolo che i territori dovrebbero avere nel definirne i percorsi, a partire da quelli che maggiormente hanno subito e subiscono la servitù fossile a servizio del paese. Nelle dichiarazioni programmatiche del ministro si parla di rafforzamento della consultazione pubblica per la velocizzazione degli iter autorizzativi. Questo, come dichiarato, per assicurare l’informazione, il confronto (anche dialettico) e la composizione degli interessi. A parte la contraddizione di un confronto che viene imbastito ai fini della “velocizzazione degli iter autorizzativi” (si dà quindi per scontato l’esito finale del confronto), sembra che questo possa valere solo per le nuove installazioni rinnovabili, visto che il paese è pesantemente percorso da conflitti irrisolti con i territori, specie in relazione alle politiche energetiche fossili in essere e in via di definizione. Si pensi al gasdotto Tap e alle lotte pugliesi, o al conflitto in via di divenire per il gasdotto che dovrebbe attraversare la Sardegna, da alimentare con navi metaniere e con buona pace della possibilità quasi perfetta che l’isola rappresenta per la transizione energetica e lo sviluppo delle energie rinnovabili. Ma si pensi anche ai territori che in tutta Italia hanno dovuto subire la servitù del carbone in via di dismissione dal 2025. Le centrali termiche alimentate a carbone (ma non solo loro) hanno rappresentato lo scambio inquinamento contro lavoro e i territori ne sono usciti fortemente compromessi. L’occasione offerta dalla transizione ecologica, i fondi Next Generation EU, il Just Transition Fund e a cascata il PNRR potrebbero rappresentare una occasione unica per il risanamento e la ricostruzione di quei territori frequentemente inariditi, compreso un tessuto economico spesso quasi completamente ruotante attorno all’impresa fossile. Sono questi territori che dovrebbero fungere da ponte verso un futuro fossil-free, favorendone la riconversione verso le nuove tecnologie e i nuovi vettori energetici, in connessione con le specificità degli stessi territori. Ma non avviene così. In barba a qualunque affermazione di necessità del confronto, per questi territori si prospetta la costruzione di nuove, tecnicamente non necessarie centrali a gas. Senza dibattito pubblico, senza consenso e senza neanche più la contropartita del lavoro, che crolla miseramente a meno del 10% di quello precedentemente richiesto col carbone. Un esempio paradigmatico (ma non unico) di quanto avviene è rappresentato da Civitavecchia, dove la fuoriuscita dal carbone potrebbe fornire l’occasione per avviare finalmente la bonifica dei siti, iniziando un percorso di accompagnamento della città e del comprensorio verso una economia non più alimentata dai fossili. Si potrebbe avviare la costruzione di un’isola energetica asservita ai fabbisogni locali, con fotovoltaico ed eolico off-shore dedicati, produzione di idrogeno verde e utilizzo dell’energia nel sistema portuale, con la città e il comprensorio che diventano un grande laboratorio della transizione e con l’intera economia che si converte nella nuova direzione. Ma di tutto questo nell’audizione non si è parlato, e la “giusta transizione”, per la quale in Europa è istituito il fondo a suo nome, è rimasta del tutto assente, neanche visibile sullo sfondo, con buona pace dei territori e delle comunità che su questi vivono e del loro futuro economico e sociale.

Appendice: glossario e note tecniche

Gas climalteranti. Si definiscono gas climalteranti i gas derivanti dall’azione dell’uomo e in grado di intervenire, alterandolo, sul clima globale planetario. Il termine comprende differenti gas tra cui gli ossidi di azoto, gli alofluorocarburi, l’ozono, il metano e il diossido di carbonio (CO2), prodotto dalla combustione dei fossili. A quest’ultimo gas ci si riferisce nelle valutazioni delle concentrazione degli stessi in atmosfera.

PNIEC. Il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) è un documento di impianto prospettico presentato alla fine del 2019 dal Ministero dello sviluppo economico insieme al Ministero dell’ambiente e al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti in attuazione del Regolamento Ue 2018/1999. Fa parte del pacchetto di provvedimenti comunitari adottati per assicurare il rispetto degli obiettivi 2030 in materia di riduzione delle emissioni climalteranti. Al tempo della stesura del piano gli obiettivi europei consistevano nel 40% di riduzione rispetto al 1990, successivamente innalzati al 55%. Il PNIEC del 2019 assume come obiettivo di riduzione il 38% rispetto al 1990.

Gas naturale. Il gas naturale consiste in una miscela di gas fossili composta prevalentemente da metano, con minime quantità di etano, propano e butano. Sono anche presenti contaminanti minori, quali ad esempio acido solfidrico. È da sottolineare che lo stesso gas naturale, pur emettendo nella combustione una minore quantità di CO2 per unità di energia prodotta, ha caratteristiche fortemente climalteranti, pari a 30 volte quello della stessa CO2. Nelle considerazioni sui presunti vantaggi ambientali del metano vengono omesse le perdite del gas in atmosfera, che avvengono lungo l’intera filiera di estrazione e distributiva.

Capacity Market. La condizione di prezzo marginale zero tendenzialmente raggiunta dalle fonti rinnovabili disincentiva l’investimento in fonti termoelettriche. Per contrastare tale situazione, nel capacity market italiano viene disposto il pagamento della capacità produttiva messa a disposizione per il sistema, in alternativa al pagamento della corrente elettrica realmente erogata (ci sono meccanismi anche di recupero in particolari condizioni, ma la sostanza non cambia). Nei fatti si garantisce un guadagno all’azienda fornitrice indipendentemente dal fatto che la corrente venga realmente venduta. Terna (che è il gestore della rete elettrica) determina la necessità di potenza stimata per le annualità di riferimento e sulla base di tali necessità mette all’asta la disponibilità di potenza elettrica da parte degli operatori, con un prezzo pari a 75.000 €/MW in caso di nuova potenza e 33.000 €/MW in caso di impianti di generazione preesistente. I contratti sono di 3 anni per risorse esistenti e di 15 anni per risorse nuove. Teoricamente la partecipazione all’asta è aperta a tutti gli operatori, anche da rinnovabile, ma le modalità concrete di realizzazione (rampa di raggiungimento in potenza, periodo minimo di erogazione, periodo di permanenza fuori servizio, rapporto potenza min/max) sono tali da vedere le fonti rinnovabili e le tecnologie ad esse correlate di fatto marginali. Al contrario è un meccanismo economico perfetto per incentivare la costruzione di nuove centrali turbogas, specie quelli più veloci a ciclo aperto (senza recupero di energia dai fumi emessi – OCGT), che possono provvedere immediatamente ai picchi di richiesta elettrica. Le due aste fino ad oggi svolte relative all’erogazione per gli anni 2022 e 2023 hanno visto l’aggiudicazione di 36,5 GW complessivi per il 2022 e di 39 per il 2023. Nelle due aste sono state assegnate capacità proveniente da nuove centrali pari a 1,8 e 4.0 GW per i due anni in asta.

Energia e potenza. In fisica il termine energia definisce l’attitudine di un sistema a compiere un determinato lavoro. L’intensità con cui l’energia può essere prodotta in una unità di tempo definisce la potenza, la cui unità di misura è il Watt (W) con i suoi multipli chilowatt (1kW=103Watt), megawatt (1MW=106W), gigawatt (1GW=109W), terawatt (1TW=1012W) ecc. Poichè è la potenza a caratterizzare il funzionamento di un determinato impianto, l’energia da questo espressa in un determinato tempo è definita integrando la potenza nel tempo. L’unità di misura è il wattora (Wh, corrispondente ad una potenza di 1 W espressa per 1 ora), con i suoi multipli e sottomultipli. Un impianto di produzione di energia elettrica è caratterizzato da una potenza massima esprimibile, detta anche capacità. Il termine “fabbisogno energetico” definisce la quantità di energia necessaria a soddisfare determinate necessità energetiche. Il fabbisogno energetico deve necessariamente essere soddisfatto da una equivalente produzione di energia. Se il fabbisogno si esplica ad esempio in un anno, tale fabbisogno può essere coperto da una centrale elettrica capace di una adeguata potenza operativa e in grado di operare per un tempo pari a quello necessario alla richiesta. Tuttavia difficilmente la centrale sarà in grado di operare sulle 8.760 ore convenzionalmente contenute in un anno (per interruzioni, manutenzioni, ecc), conseguentemente la stessa quantità di energia potrà essere coperta in un tempo minore solo se la centrale sarà in grado di esprimere una corrispondente potenza maggiore. Il rapporto tra l’energia effettivamente producibile in un anno da una installazione e l’energia massima teoricamente producibile a piena potenza definisce il fattore di capacità dell’installazione.

Picchi di domanda e stabilizzazione della rete elettrica. In un sistema fortemente alimentato da fonti rinnovabili discontinue (tipicamente fotovoltaico ed eolico) possono verificarsi condizioni di picchi di domanda in condizioni di scarsa produzione elettrica momentanea. La risoluzione positiva di tale condizione può avvenire attraverso diversi dispositivi, e modalità. Il rafforzamento delle interconnessioni di rete che permettano una corretta movimentazione dell’energia tra il nord e il sud della penisola e viceversa, il corretto ripristino dei pompaggi idroelettrici esistenti, per i quali l’Italia è stato paese all’avanguardia e oggi ampiamente sottoutilizzati, unitamente a nuovi pompaggi idroelettrici, anche marini, lungo l’intera penisola, fanno parte di una soluzione corretta di implementazione di fonti rinnovabili programmabili che bene rispondono allo scopo. Infine, programmi di abbattimento dei consumi dei grandi consumatori in risposta alla domanda di rete (demand response), accumuli fisici e chimici in batterie e in prospettiva l’idrogeno verde sono risposte tecniche sostenibili alla problematica della non programmabilità.

Sussidi ambientalmente dannosi (SAD). Sono definiti sussidi ambientalmente dannosi le misure incentivanti, dirette e indirette, che intervengono su beni o lavorazioni per ridurre il costo di utilizzo di fonti fossili o di sfruttamento delle risorse naturali. Per esempio, sconti su tasse per una serie di utilizzi di fonti fossili, canoni bassi per l’estrazione di materie prime, finanziamenti ad autostrade ecc., compresi i fondi per la ricerca su carbone, gas e petrolio. Si tratta di complessivamente 35,7 miliardi di euro, di cui oltre 21,8 miliardi sotto forma diretta e circa 13,8 miliardi in forma indiretta secondo Legambiente.

Idrogeno. L’idrogeno è l’elemento più leggero presente in natura. In forma molecolare e in condizioni normali è un gas, di formula chimica H2. La combustione di 1 kg di idrogeno produce 33.4 kWh contro i 13,9 kWh del metano. L’idrogeno si può ottenere da acqua mediante elettrolisi, processo in grado di provocare la separazione della molecola nei suoi costituenti. Se l’energia elettrica primaria è da fonte rinnovabile avremo l’idrogeno verde. Nel caso di ottenimento da idrocarburi, o da elettrolisi dell’acqua alimentata da fonte fossile, l’idrogeno ottenuto è definito idrogeno grigio, ma se durante la produzione si intercetta la CO2 che si produce durante il processo evitando che questa vada in atmosfera il gas prodotto viene definito idrogeno blu. È abbastanza intuitivo che la produzione di idrogeno blu possa interessare l’industria fossile, in quanto permetterebbe la sopravvivenza economica dei giacimenti, pur rimanendo irrisolta la questione della gestione della CO2 separata, per la quale si pensa ad una reimmissione ad alta pressione nei pozzi petroliferi vuoti, utilizzando una tecnologia chiamata Carbon Capture and Storage (CCS).

Fissione nucleare. La fissione nucleare è la reazione che avviene quando un nucleo pesante viene diviso in nuclei più leggeri, con emissione di energia. Affinché avvenga una reazione di questo tipo, l’atomo originario deve essere di un materiale adatto alla fissione; tra tali isotopi si colloca, ad esempio, l’uranio-235, ma non solo. Tuttavia gli atomi risultanti dalla fissione nucleare sono radioattivi, con necessità di gestione delle scorie per migliaia di anni e pericoli per l’ambiente. Gli incidenti di Chernobyl e di Fukushima hanno fornito una rappresentazione tragicamente efficace della pericolosità delle tecnologie di fusione nucleare, quando per motivi diversi si verifica un mancato controllo della reazione nucleare.

Fusione nucleare. La fusione nucleare funziona esattamente all’opposto rispetto alla fissione nucleare. Il processo avviene in natura e più precisamente nelle stelle: due nuclei leggeri si fondono e ne formano uno più grande ma di massa minore rispetto alla somma dei primi due. Anche in questo caso, il surplus viene sprigionato sotto forma di energia. A differenza che nella fissione, in linea teorica dalla fusione nucleare non sono prodotte scorie radioattive. Nei fatti la fusione nucleare rappresenta una linea di ricerca che alimenta una comunità tecnico-scientifica rilevante, anche per le ricadute tecnologiche ad essa correlata. L’intero campo dei superconduttori, ad esempio, è fortemente alimentato dai progetti di fusione nucleare, e rappresenta una delle tecnologie di eccellenza italiane nel reattore ITER.

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