Democrazia, Politica, Temi, Interventi

L’astensionismo elettorale proietta la sua ombra, sempre più cupa e minacciosa, sulle democrazie occidentali. Sulla nostra in modo particolare. Del tema si parla tanto, ma in maniera molto concentrata, praticamente solo all’indomani delle elezioni. Se ne parla anche male, visto che il fenomeno è complesso e sfaccettato, ma spesso lo si banalizza ricorrendo all’immagine stereotipata e di comodo del “partito degli astenuti”. Dire che gli astenuti siano un partito significa attribuire loro le caratteristiche solitamente assegnate ai partiti. Quindi, quantomeno, un’organizzazione e una gerarchia interna, degli interessi e degli orientamenti ideali comuni, la capacità di formulare proposte politiche coerenti. Come argomentiamo con Dario Tuorto in un nostro recente volume, intitolato appunto “Il partito che non c’è. L’astensionismo in Italia e in Europa” (il Mulino), gli astensionisti non hanno nulla di tutto ciò. Sono un popolo informe, la cui composizione è alquanto mutevole di elezione in elezione. C’è chi si astiene a un’elezione, ma non a quella dopo. Chi vota alle politiche e snobba le europee. Chi vorrebbe votare, ma questa volta non può; così come c’è chi potrebbe votare, ma almeno stavolta per qualche ragione non vuole. Ci sono gli elettori distanti dalla politica, che la disprezzano e non ne capiscono tanto il senso, e ci sono quelli iper-politicizzati, che non votano perché delusi dall’offerta politica che gli si para di fronte. Qualcuno fa perfino finta di votare, ma poi lascia la scheda bianca. Altri la annullano, impugnando la matita come fosse uno stiletto.

Facciamo finta che la percentuale di astenuti che il Ministero dell’Interno comunica a urne chiuse sia un lago. Ebbene, l’ampiezza di questo lago cambia se si considerano le ultime elezioni politiche (36% di astenuti), le Europee del 2024 (52%) o i referendum dell’8 e 9 giugno 2025 (sul 70%). Alcuni elettori li ritroveremo in tutti e tre i bacini, molti altri no. Coloro che scelgono di non votare alimentano forse l’affluente più importante di questi laghi. Ci sono però anche coloro che non possono votare o devono superare enormi ostacoli per farlo. Gli studenti e i lavoratori fuorisede, per esempio, non possono votare alle politiche (se non nel loro distante seggio di residenza), ma hanno potuto farlo alle europee del 2024 e ai referendum dell’8 e 9 giugno. Gli italiani iscritti all’AIRE, circa il 15% del corpo elettorale, hanno il diritto di votare per posta alle politiche, ma se vogliono farlo alle amministrative devono prendere il treno o l’aereo e tornare nel comune in cui sono iscritti nelle liste elettorali. In un paese che è allo stesso tempo sempre più mobile e più anziano, il non voto per impedimento o da imputare a un ostacolo più o meno insormontabile deve essere considerato un affluente con una portata in continua crescita.

Ciò non esclude che, effettivamente, in molti si astengano perché disprezzano, odiano o semplicemente sono indifferenti nei confronti della politica. In altri termini, l’astensionismo ha un evidente e forte intreccio con quella che solitamente viene chiamata “antipolitica”. Anche in questo caso, però, prevale una lettura banalizzante del fenomeno: “la gente è arrabbiata con la politica e i politici e quindi non va a votare”. Questo è certamente vero, ma riguarda solo quella parte di antipolitica che, in un volume del 2022 uscito per il Mulino, ho chiamato “antipolitica dal basso”. L’antipolitica, cioè, che riguarda i cittadini. Accanto a questa c’è però anche un’ “antipolitica dall’alto” che è quella espressa dai politici di professione. La situazione è apparentemente paradossale, ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che veniamo da almeno 35 anni di denigrazione della politica di professione da parte dei professionisti della politica e della demonizzazione dei partiti da parte dei capi dei partiti. Gli esempi, da Bossi a Berlusconi, da Renzi a Grillo, si sprecano. Anche Giorgia Meloni, per dar forza alla sua proposta di premierato, chiese retoricamente agli elettori se in politica volevano decidere loro o delegare i partiti a farlo. Col piccolo particolare che in quel momento lei era a capo del principale partito italiano (e sua sorella ne era la responsabile organizzativa). Questi messaggi dalla chiara natura antipolitica e antipartitica che arrivano dall’alto, e che perseguono diverse finalità politiche, a lungo andare instillano un sentimento di sfiducia e di disaffezione nei confronti del sistema politico e del circuito della rappresentanza politica. Tra le altre conseguenze ci sono il successo dei partiti di protesta e, appunto, l’aumento dell’astensione.

Questi due fenomeni vanno a braccetto in molte democrazie occidentali. Da questo punto di vista, i paesi simili al nostro si assomigliano tutti. Gli assetti istituzionali e le regole del gioco politico contano nello spiegare la tenuta o la caduta della partecipazione, ma fino a un certo punto. La stessa caratteristica – per esempio un sistema elettorale proporzionale anziché maggioritario – può favorire l’astensione in un paese e sfavorirla in un altro. L’astensionismo, come detto, è un fenomeno molto complesso e le variabili in gioco sono tantissime e variamente combinate tra loro. Gli studiosi si sono a lungo interrogati su quali condizioni di contesto facilitino o scoraggino il voto. Alla fine, dopo lungo peregrinare, sono giunti alla conclusione che soltanto una manciata di fattori hanno un effetto apprezzabile e non ambiguo sulla partecipazione. Il primo tra questi è, banalmente, stabilire che il voto è obbligatorio per legge. Laddove sono previste sanzioni per chi non vota, per quanto blande e di fatto inapplicate esse siano, si vota di più. Il secondo riguarda la percezione della doverosità del voto. Se in un paese è diffusa l’idea che votare sia un dovere, che il voto sia un diritto scritto nella Costituzione col sangue dei nostri avi e patrioti, che a votare comunque ci si va, allora la partecipazione non potrà mai scendere sotto una certa soglia. Il terzo fattore principale che spiega alte o basse percentuali di voto è la natura competitiva o non competitiva della singola elezione. Si veda il caso delle ultime elezioni politiche in Germania, molto partecipate, dove la competizione è stata serrata e l’esito incerto fino all’ultimo. Non è invece forse un caso che nel nostro paese il più alto livello di astenuti si è registrato alle politiche del 2022, quando la vittoria del centro-destra, e in particolare di Fratelli d’Italia, era stata ampiamente annunciata.

La caduta della forma più semplice ed essenziale della partecipazione politica ha poi implicazioni negative anche sulle altre modalità di partecipare, dal basso, alla vita democratica di una comunità. Se il voto diventa sempre più raro, anche le altre forme, più impegnative e “costose” in termini di tempo e di risorse impiegate, seguiranno la stessa sorte. Ciò è vero soprattutto per le altre forme di partecipazione politica “tradizionali”, come l’iscrizione e la militanza in un partito o darsi da fare in campagna elettorale. Ci sono però anche molti altri modi di partecipare alla politica, che gli studiosi chiamano “non convenzionali”. Si tratta, cioè, di attività più rumorose e visibili che violano le norme sociali e, a volte, anche quelle giuridiche. Davanti alla crescente percezione dell’inutilità del voto, alcuni elettori possono semplicemente smettere di interessarsi alla vita politica in tutte le sue forme. Altri, invece, possono scegliere di impegnarsi in attività politiche che non passano dal circuito elettorale. Mi vengono in mente – ma è un esempio tra i mille che si potrebbero fare – i gruppi organizzati che nelle città interessate dall’overtourism manifestano la loro contrarietà a questo fenomeno con scritte sui muri o col danneggiamento dei dispositivi di self check-in degli appartamenti turistici. A loro modo, anche questi gesti incorporano un significato politico.

In termini di lotta politica, non si può dire che sia facile individuare chi guadagna sempre dall’aumento dell’astensionismo e, al contrario, chi ci rimette in ogni circostanza. Si può però dire che, di solito, l’astensionismo colpisce di più le forze politiche che hanno sostenuto il governo uscente. Governare, infatti, delude immancabilmente una quota di propri sostenitori. I più tiepidi di questi possono allora scegliere di cambiare partito (molto spesso un partito vicino a quello precedentemente votato, vedi i flussi elettorali tra i partiti di centro-destra) o rifugiarsi nell’astensione. Il record di astenuti registrato alle politiche del 2022 è per esempio in buona misura il frutto di una smobilitazione dell’elettorato del Movimento 5 Stelle. Nel 2018, questi elettori avevano scelto in buona misura il partito ora guidato da Conte come espressione della loro protesta nei confronti della politica, come ultima spiaggia prima dell’astensione. Venuta meno questa ultima spiaggia, si sono tuffati anche loro nel lago dell’astensione. L’astensionismo asimmetrico colpisce anche i candidati al ballottaggio nelle elezioni locali, spesso in maniera non del tutto prevedibile. Senza il sostegno delle liste e dei loro candidati in grado di attivare reti personalistiche e con differenti capacità attrattive dei candidati sindaco, al secondo turno l’astensionismo può cambiare le carte in tavola, anche quando si pensava che la partita fosse ormai chiusa. E poi, come abbiamo visto di recente, l’astensionismo può essere usato come una clava per boicottare un referendum e regolare per questa via i conti con gli avversari politici.

A questo proposito, è opportuno spendere qualche parola sul probabile impatto di medio-lungo periodo degli espliciti e pressanti inviti all’astensione rivolti agli elettori da importanti attori politici e istituzionali, Presidente del Consiglio e Presidente del Senato primi tra tutti. La premessa da fare è che il livello di partecipazione in una specifica elezione dipende da molti fattori. Uno dei più importanti di questi, però, come appena notato, è il senso della doverosità del voto. Molti di noi si sono costruiti questo atteggiamento nel corso del tempo, specie nelle esperienze politiche giovanili. Questo senso di doverosità del voto ha dovuto resistere a molti attacchi, si pensi a quel che per molti ha significato la stagione di Tangentopoli. Se la gente continua a votare è soprattutto perché si pensa che si debba, che sia giusto farlo, al di là delle convenienze momentanee. Del resto, razionalmente, è davvero difficile ritenere che il proprio voto sia veramente quello che decide la competizione. Sostenere che votare o non votare è uno strumento della lotta politica come un altro è un ulteriore, duro colpo al senso di doverosità del voto. Si pensi a chi è stato chiamato alle urne per la prima volta ai recenti referendum. Che messaggio ha ricevuto? Che è un comportamento politico praticabile e accettabile andare a salutare gli scrutatori al seggio senza ritirare le schede. In che modo questo messaggio forgerà la sua convinzione che votare si debba, al di là di ogni altra considerazione? Gli studi condotti a livello internazionale convergono su poche cose, quando si tratta di astensionismo, ma su una sono pressoché d’accordo: le prime tre esperienze di voto hanno il potere di condizionare il comportamento partecipativo/astensionista degli anni a venire. Se si guarda ai tassi di astensionismo delle ultime politiche, europee e, ora, dei referendum possiamo concludere che alle nuove generazioni che si affacciano alla vita politica non abbiamo offerto un grande spettacolo partecipativo. Questi elettori saranno chiamati a votare ancora a molte elezioni e la ricerca ci dice che le loro scelte dipenderanno, almeno in parte, da questa loro non entusiasmante “prima volta”.

In conclusione, cosa bisognerebbe fare per invertire, o quantomeno rallentare, la corsa a precipizio dell’astensionismo? Per provare a rispondere, bisogna fare un passo indietro e tornare alla metafora del lago e degli affluenti. Per prima cosa dovremmo capire quali siano i rivoli che riempiono il bacino dell’astensione e che portata ha ognuno di essi. Aspetto tutt’altro che facile da stimare, vista la natura segreta del voto. Poi bisognerebbe prendere delle contromisure specifiche per ogni tipo di affluente. Voglio dire che, lasciando da parte tutte le altre complicazioni, come chi vota scheda bianca o nulla, è almeno necessario distinguere chi non vuole votare da chi non può votare. Su chi non può votare i margini di manovra sono certamente più ampi. Si tratterebbe di mettere in discussione, come si fa in altri paesi e si è iniziato a fare anche in Italia col voto ai fuorisede, il modello tradizionale del voto. Quel modello che prevede, cioè, di votare di persona, in presenza, il giorno delle elezioni e nel seggio elettorale legato alla residenza. Quindi voto postale, voto presidiato anticipato, voto per delega, voto elettronico ecc. potrebbero essere strumenti utili a ridurre, almeno in parte, la portata dell’affluente di chi non vota perché deve affrontare un qualche ostacolo. A tal proposito, è da precisare che mettere in pratica questi correttivi è più facile a dirsi che a farsi, stanti i vincoli costituzionali (e le difficoltà organizzative) sulle modalità di espressione del voto. A ogni modo, ci si potrebbe almeno provare. Più difficile è invece portare alle urne chi non vuole votare. Qui non ci sono facilitazioni che tengano e l’operazione è più di natura politica e culturale che pratica. Bisognerebbe cambiare la considerazione che la politica ha nella società. Compito arduo, appunto.

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