Colpisce il tono anche aspro della riflessione etico-politica che è posta al centro della Libertà comunista. L’affondo portato contro i tentativi di annacquare la specificità e l’autonomia (anche filosofica) del marxismo è radicale. Il bersaglio, che viene centrato su molteplici aspetti, è l’eclettismo contemporaneo cioè la disinvoltura concettuale mostrata da teorici che cercano di gettare un ponte tra liberalismo e socialismo precipitando così in un acritico tentativo di “conciliazione”. Prendere un po’ di questo filone di pensiero e recuperare un po’ di quell’altra corrente per tentare una loro fusione estrinseca, che in Italia è il ritrovato sintetico proposto dalle correnti di Croce, Calogero, potrebbe minare l’autonomia culturale di un progetto di pensiero comunista[1]. Ciò che sfugge all’eclettismo contemporaneo è la congiunzione necessaria tra critica dell’economia (particolare) e istanza etica (universale). Solo questo intreccio degli eterogenei renderebbe possibile una soluzione coerente e su questa carenza di mediazione poggia la contestazione del sincretismo di chi si dichiara “liberale nell’etica e nella politica, socialista nell’economia” (p. 41). Una tale attitudine conciliatoria postula il divorzio tra valori e interessi, tra idee e bisogni. Nel quadro di una polemica molto accesa, anche nel testo del 1946 della Volpe non negava la rilevanza dei profili liberali dello Stato moderno, ne coglieva però la ripresa e quindi la riformulazione, entro un universo concettuale nuovo come quello di Marx che li trasvalutava mutandone l’assetto problematico-critico. Entro questo arco tematico rimodulato il rapporto tra socialismo e liberalismo appariva a della Volpe “non come uno sviluppo graduale” ma come uno sviluppo che si accompagnava a una “frattura storica” (p. 15). Indicativo è il sottotitolo dell’opera: saggio di una critica della ragion pura pratica. Il disegno di della Volpe è quello di sfidare Kant, assunto come momento di confluenza di liberalismo e cristianesimo sul piano della persona-valore, con le suggestioni “dell’umanismo aristotelico di Marx” (p. 31) che pone la società come mediazione tra il genere (il valore, l’etica, la cultura) e l’individuo (il particolare, il bisogno). Il confronto veniva impostato su basi sia gnoseologiche che etico-sostanziali. La debolezza cognitiva che accomunava liberalismo e cristianesimo era rinvenuta da della Volpe nella fondazione atomistica della società. Gli aspetti di metodo, la curva gnoseologica che contrasta ogni nozione di autocoscienza come trascendimento del ragionamento critico-discorsivo, sono appena accennati. Le prime utilizzazioni delle categorie di Marx furono tentate da della Volpe nel campo dell’etica con una critica serrata al culto della persona a priori, del soggetto pre-sociale e dell’individuo quale dato preistorico. L’individuo come valore originario o persona investita di valore mostra il fondamento giusnaturalistico (laico e religioso) dell’ordine politico e sociale moderno che si configura come “una estrema laicizzazione della caritas” (p. 12). Contro il “purismo morale”, proprio di ogni morale dell’intenzione d’ascendenza religiosa o nella sua versione secolarizzata di impronta laico-illuminista, della Volpe insisteva sulla rivalutazione dell’interesse, della trama relazionale mondana senza indulgenza alcuna verso gli appetiti dell’edonismo individualista, anch’esso astratto e metastorico. Nella Libertà comunista era scolpita la critica della fondazione contrattuale della società come escogitazione che, postulando individui contraenti già definiti nelle loro prerogative prima ancora della storica configurazione del sistema sociale, è capace di precisare solo libertà (politiche e giuridiche) dall’ordine sociale e statuale. In tal modo, ogni libertà concreta sfumava in un orizzonte che assumeva “il principio cristiano-teologico” del primato della persona che cercava protezioni dalla società. La libertà come eguaglianza nella vita reale, e riferita ai differenziali di potere nella soddisfazione dei bisogni concreti, non veniva problematizzata e rimaneva sullo sfondo solo “l’eguaglianza di fronte al potere” o eguaglianza politica dell’homo politicus (p. 12). Per questo l’istanza dellavolpiana era quella di proiettarsi oltre la civiltà cristiano-borghese con il suo culto della persona originaria e astratta che ignora i rapporti di dipendenza scaturiti dalla convivenza nella società civile. Neanche Rousseau, in questa fase, era recuperabile perché la sua produzione teorica evidenziava “il dissidio delle due anime di Rousseau, la repubblicana o romana o civile e la cristiana-umanitaria” (p. 20) senza trovare uno sbocco ricostruttivo. Sulla base della nozione di persona-valore presociale, che assimilava natura e valore, era possibile edificare solo “un aggregato di monadi, non certo una società o comunità degna del nome”. In polemica contro le pure “laicizzazioni della charitas”, egli abbozzava una critica radicale delle dottrine etiche per rimarcare “la impotenza di ogni apriorismo o spiritualismo”[2]. Solo sulla base di Marx era pensabile, oltre la sola “democrazia libertaria”, una eguaglianza sociale perché “l’eguaglianza è essenzialmente rapporto, sinonimo di co-esistenza” (p. 21). Quello che il pensiero liberale trascende, nella sua esaltazione del libero e astratto attore, è il ruolo non voluto, non libero della divisione del lavoro che pone limiti, e vede il prevalere della “casualità o irrazionalità delle condizioni di vita” (p. 57). Solo una critica dell’ordine non razionale scaturito dalla cieca divisione del lavoro rende possibile la contestazione dell’homo oeconomicus con la sua inclinazione acquisitivo-possessiva e la prospettazione di una comunità reale. Il fondamento concettuale della filosofia etico-politica dellavolpiana è già ben delineato e troverà sviluppi nell’inquadramento posteriore che verrà configurandosi come una prosecuzione della scoperta critica della rivalutazione dell’interesse in un’etica legata al sensibile, alla corporeità, alla finitezza. Sul piano teorico il suo principale libro politico (Rousseau e Marx) ebbe una grande risonanza nella cultura degli anni sessanta, non solo in Italia, ed esercitò una attenzione sui temi cruciali della filosofia politica, ancora oggi scandagliati da Rawls o da certe declinazioni della democrazia deliberativa[3]. Alcune problematiche politiche, al centro del saggio, si rivelano storicamente datate. Sul piano etico o gnoseologico invece rimane un nucleo teorico fecondo[4]. Galvano della Volpe non concedeva molto alla vulgata marxista. Malgrado il tono antidogmatico (se la prendeva anche con il Marx della Questione ebraica incapace di cogliere gli aspetti positivi dell’emancipazione politica), l’approdo della sua teoria politica non supera limiti e incertezze. Non solo per la comparsa di formule come quelle che rimarcano “la straordinaria democraticità del regime sovietico”, ma anche per la presenza di uno spinoso problema teorico, quello della sovranità, che minaccia tutto il programma dellavolpiano di una renovatio socialista del costituzionalismo liberale[5]. Dietro la proposta cruciale di una democrazia diretta “antirappresentativa”, c’era il rigetto della nozione di società civile. La sovranità, per della Volpe, dovrebbe avere come fondamento “la proletaria massa organica dei lavoratori” e non più la atomistica sfera della società civile. In vista di “una democrazia nuova, proletaria” occorreva, a suo dire, ingaggiare una diversa nozione di sovranità, “non più ridotta a una sovranità popolare-nazionale (interclassista) borghese, ma realizzata in una sovranità popolare-proletaria”. Da una parte, egli polemizzava contro il fondamento classista del liberalismo di Locke e Kant, incapace di tracciare un garantismo universalistico effettivo e non più di copertura al ceppo proprietario. Dall’altra egli stesso, sul piano dei diritti politici, disegnava una sfera pubblica con diritti differenziati a seconda della condizione sociale[6]. Centrale in della Volpe era l’opposizione qualitativa tra liberalismo e democrazia, tra comunità e sovranità statuale, tra libertas major e libertas minor, in un’ottica che però prevedeva il recupero pieno del garantismo, del principio di legalità, sia pure nelle ambiguità visibili nel rapporto politico-rappresentativo. Rimarcata la distinzione tra liberalismo (problema dell’ordine politico e dell’impalcatura garantistica del potere costruito sulla base di una figura come quella del contratto che presuppone già il soggetto proprietario) e socialismo (problema dell’ordine sociale o coesistenza di soggetti eguali), della Volpe accanto alla “frattura storica” non negava che “il socialismo è da considerare, come non è dubbio, uno sviluppo del liberalismo”[7]. Il suo problema era quello di delineare “una sovranità popolare-proletaria (operaia)” e di assicurare le condizioni istituzionali e le formule giuridiche di un “centralismo democratico operaio”. Il garantismo liberale, che egli intendeva recuperare e trasvalutare nel nuovo ordinamento, non apparteneva all’ambito della rappresentanza individualistica (competizione secondo il principio di maggioranza) ma a quello delle garanzie individuali concernenti la persona nel suo rapporto con l’autorità. Le libertà recuperate erano più quelle della persona che non quelle politiche del cittadino. I termini dell’affresco erano una democrazia operaia e un individuo-persona protetto nella sua sfera soggettiva inviolabile con i limiti del potere che caratterizzano lo Stato di diritto. Il medium che mancava, oltre all’istanza della libertà come non-impedimento, era quello della rappresentanza. Eppure proprio il giovane Marx scoperto da della Volpe impostava in termini più pregnanti la questione della sovranità e coglieva il nesso tra atomismo della società civile e strutture politiche rappresentative. La positività dell’empirico era fatta valere nella Critica contro la veduta speculativa legata ad astoriche essenze. Il rimando alla fenomenologia storica, agli oggetti o istituti specifici, conduceva Marx, con il “suo metodo di deflazione delle sintesi generiche hegeliane”, verso l’istanza di “una sociologia dello Stato al posto della metafisica dello Stato”[8]. Tener fermo l’atomismo e la funzionalità degli istituti rappresentativi significa, in una calibrata strategia di negazione e costruzione, che il conflitto nella società civile, per imporre momenti di socializzazione e di oltrepassamento delle strutture proprietarie, necessita di rappresentazioni politiche diverse e che quindi non è sufficiente un autogoverno con il corollario della salvaguardia della dignità individuale. Il profilo politico-pluralistico del garantismo restava in della Volpe sullo sfondo, ma non rigettato, perché la sovranità della classe implicava soluzioni diverse da quelle imposte dal principio di maggioranza. Il punto scoperto relativo alla sussistenza e al ruolo delle forme politiche entro la prospettiva di una democrazia radicale ed egualitaria veniva risolto con una sintesi storica tra Locke e Rousseau, cioè tra le tecniche liberali della libertà civile e la eguaglianza della democrazia sostanziale. Secondo della Volpe non occorreva in alcun modo “ipostatizzare eventi storici” come la dittatura del proletariato perché in occidente la questione del potere si poneva nei termini di una conquista del “consenso della maggioranza”[9]. Le accuse di formalismo rivolte a della Volpe intendevano colpire la sua lettura in Marx di una presenza, pur nei limiti di una enfatizzazione della prospettiva della rivoluzione sociale, dell’istanza di un recupero “della sovrastruttura giuridica borghese”, del diritto eguale e del “garantismo giuridico, costituzionale, di ogni persona-cittadino”[10]. Finché esiste uno Stato politico, con la separazione tra governanti e governati, pare imprescindibile il recupero dello “spirito lockeano e kantiano” come dottrina dei limiti del potere anche in una fase della società comunista. Nell’apertura così trasparente a istanze liberali, con il richiamo a Locke e al principio di legalità come insurrogabile, con il rimando inequivoco alla separazione dei poteri, colpiranno persino Bobbio che negli anni successivi si sorprese per certi riconoscimenti che andavano persino oltre le aspettative degli interlocutori liberali più esigenti[11]. Lo sforzo era di calibrare l’asse Rousseau-Marx (libertas major) con l’asse Locke-Kant (libertas minor, non nel senso di inferiore ma di sganciata dalla condivisione comunitaria delle differenze, dei bisogni). In tale orizzonte centrale diventava la nozione di società e con essa la funzione del lavoro come meccanismo di integrazione subordinato alle incertezze del mercato e agli imperativi della divisione del lavoro. Con la mediazione del lavoro, scriveva della Volpe, “ogni uomo realizza le sue personali capacità, i suoi meriti, e si fa insomma persona e libero”. Nella sua ottica, merito e lavoro segnavano un “binomio assiologico” che evocava il diritto al lavoro garantito da parametri costituzionali esigibili. Entro una democrazia del merito, e perciò antilivellatrice, poteva essere fatta valere una fondamentale istanza metapolitica che (il linguaggio non è dissimile da quello odierno di M. Nussbaum) esigeva “il diritto di qualunque essere umano al riconoscimento delle sue personali capacità e possibilità”. Questo progetto, in grado di mediare capacità e differenze, merito e bisogno, lavoro e diritto, postulava il recupero della “capitale categoria etico-politica aristotelica” della giustizia distributiva, in grado di aderire alle diversità di condizione (non giustizia commutativa o dello scambio tra soggetti astrattamente parificati), cioè dell’eguaglianza come riconoscimento delle differenze quali situazioni di svantaggio da compensare con coperture giuridiche specifiche che tutelino il bisogno particolare oltre la forma astratta del diritto eguale[12]. Tutto questo quadro di eguaglianza nella differenza riconosciuta nel suo tratto empirico era nondimeno attrezzato per non colpire il merito, la diversità. Il corollario generale del progetto di un’eguaglianza moderna prevedeva per della Volpe il rigetto del diritto, a un certo momento dello sviluppo sociale, antieconomico di proprietà. Scorporare i diritti della persona come valore storico positivo dall’incrostazione proprietaria che conferisce differenti poteri al possesso era il punto cardine della questione delle garanzie giuridiche. Trasferire il disegno del dominio di classe anche nell’architettura costituzionale comportava, in caso di confinamento del garantismo nel solo ambito civilistico e non esteso anche in quello giuspubblicistico, l’esclusione del conflitto politico come legittimo momento organizzativo delle preferenze individuali e collettive entro la forma statuale oltre-borghese. Il tassello mancante in della Volpe era quello di rendere compatibile l’istanza della socializzazione, della libertà comunista con il principio di maggioranza, con l’assetto pluralistico delle espressioni politiche della società civile. Il passaggio dalla società civile atomistica alla società omogenea avveniva senza mediazioni ed eterogenei soggetti del pluralismo. La polarità capitale-lavoro era riconoscibile entro la società civile moderna che prevedeva un conflitto tra classi mediato da diritti politici atomisticamente azionabili (suffragio universale). Il passaggio dal conteggio numerico delle espressioni di voto alla supremazia di una classe restava problematico. Anche per della Volpe la critica marxiana allo Stato costituzionale o “Stato dell’astrazione politica” conduce a una democrazia come “elemento reale” che svela “per quale impulso originario, coerente, profondo, il pensiero e la prassi del comunismo sviluppino la democrazia moderna” [13]. Nel piano di della Volpe, rimaneva un solo polo del contrasto sociale, e sfumavano le forme politiche dell’articolazione degli interessi e dei valori politici. Egli rimarcava il significato di “quel tipico istituto egualitario (o democratico-sociale) ch’è il suffragio universale”[14]. La questione è importante perché proprio il filosofo imolese aveva persino punzecchiato Marx per una traccia di venatura romantica presente nella sua istanza utopica di un passaggio quasi mistico dal regno della necessità al regno della libertà. Nel mondo della necessità, che non immagina agevoli e immediati ingressi del regno della libertà che si proietta oltre la divisione sociale del lavoro, la rappresentanza continua ad essere la chiave istituzionale del rapporto politico[15]. La teoria politica di della Volpe non seguiva dunque un itinerario sempre coerente nel tentativo di abbozzare una sintesi storica di Rousseau e Locke, di democraticismo e liberalismo perché, se ben delineata era la transizione a una “democrazia sociale post-borghese” incardinata sulla libertas major come dominante rispetto ai diritti civili di proprietà, trascesa era in essa la questione della rappresentanza e dei protagonisti di una politica organizzata e aperta a soggetti plurali[16]. In della Volpe era esplicito il distacco dalle formule leniniste sulla politica e la dittatura perché al di là dei meriti storici, “è evidente che una concezione siffatta della democrazia non può essere un criterio teorico-pratico sufficiente a chi combatta oggi per la democrazia e il socialismo in paesi capitalistici forti”[17]. Nel quadro delle istituzioni liberali è possibile scavalcare la società borghese contrapponendo il criterio dei diritti del lavoro, e del merito personale, a quelli reclamati dalla proprietà. Uno degli assunti più rilevanti di Rousseau e Marx era che le forme, il complesso delle norme tecniche non sono elementi irrilevanti o ideologie ma istituti positivi nel funzionamento della nuova organizzazione della società. Su tali aspetti teorici già nell’opera del 1946 della Volpe aveva segnato un punto di chiarimento fondamentale: la messa a punto problematico-critica della ipotesi della estinzione dello Stato attorno alla quale erano fiorite inclinazioni romantiche prive di supporto analitico. A un teorico antiromantico, estraneo a scorciatoie metafisiche, non pareva sostenibile la dottrina di una immediata scomposizione dell’ordine politico. Che dai testi classici, questa era la sua asserzione perentoria, “si possa trarre la conclusione che Marx inclinasse all’abolizione dello Stato in genere, pare dubbio” (p. 81). Un autore come Marx che ragiona in termini di ipotesi e di descrizione puntuale dei rapporti non può lasciarsi andare a prefigurazioni di società lontane sulle quali non è possibile disporre di dati, sperimentazioni empiriche. La questione delle trasformazioni dello Stato in una società nuova è una “questione che Marx lasciò in sostanza senza risposta” (p. 81). Per della Volpe non era la centralità della tematica dell’estinzione dell’ordinamento coercitivo a ostacolare una scienza positiva della politica. Per il riconoscimento pieno della positività della tecnica, delle forme, e per la sua “critica radicale della teologia” Marx è estraneo a immediate o romantiche unità ricompositive, e persegue sempre parziali obiettivi di “unità mediata”. Questo è quanto impone il profilo temporale dei rapporti-istituti, il contenuto positivo del particolare-sociale, il significato delle regole che funzionano nella cornice della temporalità. Il comunismo si presenta perciò come una “ipotesi” non come una mitica, definitiva e extratemporale risoluzione delle contraddizioni. Con spirito critico e senza reticenze della Volpe non esitava a mostrare le ambiguità di talune civetterie marxiane che non gli sembravano molto compatibili con una libertà comunista intesa in senso finito, storico. Estranea alla rigorosa logica marxiana attenta al particolare, alla temporalità gli pareva l’idea di un salto dal regno della necessità al regno della libertà. La contrapposizione tra finito e idea, necessità e fine, bisogno e libertà era concepibile per lui solo in un precipitato “di tipo romantico, astratto, mitico” che trascende la positività della tecnica, e confusamente si proietta in un “oltre” la produzione, la società. Ciò, allo sguardo di della Volpe, rivelava comunque la presenza in Marx di una incertezza teorica o tono “economistico-avveniristico dovuto all’epoca” che rinviava a “una nozione di salto o rottura” tale da non reggere a una prova filosofica rigorosa (p. 102). Il “vago” concetto di salto rinviava a una eredità romantica da correggere, cioè a quella visione mitica che “risente dell’ottimismo scientistico (illuministico), se non anche dell’ottimismo dialettico del monista panteista Hegel” (ivi). Secondo della Volpe è pensabile solo una liberazione contingente e scandita dal tempo, dal fenomenico, e in tale modo associata al particolare mondo del finito, all’esistenza storica. Non gli pareva compatibile con lo statuto epistemologico di Marx l’apertura a una incondizionata, mitica dimensione intemporale, sovrasensibile, assoluta, in una sorta di ricaduta nella riedizione della rappresentazione immediata dell’homo noumenon. In questo profilo di una libertà concreta o sociale o comunista, diversa da quella delineata secondo “l’ideologia cristiano-liberale”, prezioso pareva il recupero di istanze di Hume e anche del Kant che suggerisce la connessione-mediazione tra gli eterogenei positivi come l’universalizzazione dell’azione e lo scopo o il particolare irriducibile. Per mediare tra autonomia-libertà ed eteronomia-socialità, tra dovere e interesse, la definizione offerta da della Volpe era quella di “una libertà storica, finita, non miticamente numerica o infinita, astratta, irreale o illibertà” (p. 138). Emendare anche Marx dai presupposti aprioristici, dal ricorso ad asserzioni inesplicabili o a indebite assolutizzazioni che la contraddizione non consente, per ricondurlo ogni volta sul terreno analitico, quello della logica aristotelica dell’intelletto che è sempre ancorato al particolare-temporale, era il proposito critico di della Volpe. L’impatto politico delle sue categorie non fu lineare e la loro accoglienza nella sinistra non fu agevole.
NOTE [1] Questo profilo all’insegna dell’autonomia non basta ai suoi critici che denunciano in lui un pensiero non sufficientemente comunista con angolature tipiche dei “democratici di sinistra” (N. Badaloni, Percorsi di filosofia in B. Maiorca, Filosofi italiani contemporanei, Bari, 1984, p. 98). [2] Sulla “radicale ispirazione anticristiana” del pensiero di della Volpe insiste Prestipino, I valori etico-politici in Galvano della Volpe, in “Critica marxista”, 1979, n. 3, p. 34. Da questa curvatura laicista derivano molte diffidenze da parte del Pci, sensibile al dialogo con i cattolici (G. Fornero e F. Restaino, Storia della filosofia, Torino, 1998, v. 9). La critica gnoseologica al misticismo (come dottrina della conoscenza che postula una unità originaria) non è affatto una critica antireligiosa dalle valenze politiche. Anche per della Volpe, per il tramite di Rousseau, il socialismo ha una “eredità cristiana” (Cfr. Zolo, La teoria comunista dell’estinzione dello Stato, Bari, 1974, p. 49). Sul confronto del marxismo con il pensiero religioso cfr. A. Masullo, La filosofia cattolica nell’Italia democratica, in “Critica marxista”, 1976, nn. 5-6. Il marxismo nel più generale percorso della filosofia italiana è analizzato in A. Bausola, a cura di, La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Roma-Bari, 1985. [3] Per questa apertura democratico-deliberativa non sembra persuasiva la riconduzione della concezione del politico sviluppata dalla scuola dellavolpiana (cioè da della Volpe e Cerroni) entro un quadro “strettamente classista della lotta politica e delle sue finalità” e neppure esaustiva pare la lettura del dellavolpismo come riduzione “dell’agire politico allo schema schmittiano di amico-nemico” (F. Papa, Fondazione e crisi dell’idea di Stato di diritto, in “Il Centauro”, 1983, n. 8, p. 105). Sulla dottrina marxista dello Stato, in un’ottica dellavolpiana che subordina il potere al consenso della maggioranza, cfr. N. Merker, Metodo e storia nella teoria marxista dello Stato, in “Critica marxista”, 1976, n. 2. [4] Cfr. A. Postigliola, Rousseau e il marxismo italiano degli anni sessanta, in “Critica marxista”, 1971, n. 4. Sulla presenza di Rousseau nel marxismo italiano cfr. V. Mura, Il Contratto sociale: i frutti (avvelenati) dell’eredità di Rousseau, in G. M. Chiodi e R. Gatti, a cura di, La filosofia politica di Rousseau, Milano, 2012. Una informata ricostruzione delle posizioni del marxismo italiano nelle teorie dello Stato e soprattutto nella ricezione di Schmitt si trova in I. Staff, Staatsdenken im Italien des 20. jharhunderts, Berlin, 1991. [5] Del tutto inadeguata, per tracciare il percorso di una transizione ad altra organizzazione della società, è per Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit. p. 233) l’elaborazione di della Volpe che, nel recupero della legalità socialista, svela “l’infecondità analitica ovvero il suo formalismo” e mostra “un orizzonte politico fondamentalmente terzointernazionalista” che attinge “dall’ideologia stalinista dello Stato” (p. 237). La contestazione, ai limiti del paradosso quando parla di vicinanza del dellavolpismo a una staliniana dottrina della legalità, non intende recuperare con maggiore coerenza le forme, lo Stato di diritto in una prospettiva socialista ma rilanciare un’istanza di democrazia diretta, di pratiche di massa di riappropriazione della politica nel quadro di una destrutturazione del momento istituzionale. In realtà proprio “il marxismo della scuola dellavolpiana non si presenta come uno sviluppo lineare della tradizione marxista-leninista” e si caratterizza per l’assunzione del nesso democrazia-socialismo, il recupero del garantismo costituzionale, una sensibilità per filoni radical-democratici, il rifiuto di ogni “giusnichilismo e volontarismo”, per la ripresa di un’etica personalistica (Zolo, La teoria comunista, cit., p. 265). Anche dentro la cultura comunista che più lo accusa di “estremismo” si afferma che a della Volpe va riconosciuto “il merito di aver collocato, in modo più preciso, il marxismo nel grande alveo della concezione democratica, insistendo sulla precisa distinzione tra democrazia e liberalismo di cui non si era tenuto debitamente conto negli anni Cinquanta” (L. Gruppi, Sullo storicismo marxista, in “Critica marxista” 1971, n. 4, p. 15). [6] La teoria di della Volpe può sorreggere sia una “soluzione riformistica”, o “correzione del sistema” secondo compatibilità analitiche, sia letture, tipiche dei movimenti radicali ed estremisti, di esclusione “senza mediazione alcuna” di capitalismo e comunismo visti come “alternative globali” (Prestipino, La scuola di della Volpe, cit., p. 55). Questo rilievo trascura la centralità nell’indagine dellavolpiana del nesso problematico e complesso tra antecedente e conseguente, che esclude in linea teorica qualsiasi idea di una immediata rottura di sistema. A una lettura filologica attenta essa appare come la più matura definizione teorica di un modello di democrazia capace di contenere istanze garantistiche e impulsi di trasformazione, motivi egualitari-sociali e momenti di libertà civile. Le critiche, che la sua connessione tra Rousseau e Marx ha scatenato, sono ispirate non alla preoccupazione per le forme e garanzie bensì al timore di un ripudio della nozione di dittatura del proletariato, che deriverebbe dall’innesto della dottrina del materialismo storico con il contributo del ginevrino (N. Poulantzas, Potere politico e classi sociali, Roma, 1971). Nelle tendenze marxiste più collegate alla formula della dittatura del proletariato, e al rifiuto di ogni sensibilità verso le manifestazioni di garantismo, è forte la contestazione delle categorie di della Volpe. Secondo Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 213) la teoria di della Volpe non afferra le contraddizioni sociali peculiari della transizione e, non comprendendo “i compiti specifici della dittatura del proletariato” nella sua sintesi politica di coercizione ed egemonia, approda in una fuorviante “richiesta di reintegrazione dei principi dello Stato di diritto nello Stato di transizione”. [7] G. della Volpe, Opere, vol. 4, cit., p. 23. Il tema della politica come anticipazione, attraverso il gioco delle sovrastrutture politiche e giuridiche, di dinamiche strutturali viene rigettato in un’ottica di completo dissolvimento del politico-statuale nel sociale (Vacca, Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 44). La prospettiva di una politica come organizzazione specifica e complessa viene contestata in vista di una destrutturazione dell’impianto istituzionale-rappresentativo. Con la “rivoluzione popolare diretta dalla classe operaia” si prepara l’opera di distruzione della macchina statale separata che richiede la dittatura del proletariato (con “l’appropriazione sociale delle funzioni politiche”) quale “cerniera indispensabile” per conferire stabilità all’alleanza tra le classi antagoniste (p. 203). Il dominio di classe non accorda rilevanza alle mediazioni istituzionali che vengono riassorbite nelle pratiche di massa. [8] G. della Volpe, Opere, vol. IV, cit., p. 403. [9] G. della Volpe, Opere, vol. III, cit., p. 232. [10] G. della Volpe, ivi, p. 268. Per una critica delle esperienze di “autoritarismo socialista”, che subordina l’individuo allo Stato, la norma al comando imprevedibile, esalta i doveri e le finalità sociali e “riduce fortemente lo spazio per la realizzazione dei diritti dell’individuo” cfr. invece U. Cerroni, Il pensiero giuridico sovietico, Roma, 1969, p. 154. Il garantismo, ossia il rifiuto della commistione tra diritto e politica, il rigetto della considerazione del reato come pericolosità sociale misurata dal potere secondo un metro politico e al di fuori di una tipologia legale, il divieto del ricorso al canone dell’analogia per la considerazione di elementi del favor rei e della presunzione di innocenza, la configurazione del pubblico ministero come parte processuale, postula la necessità della mediazione giuridica, la persistente divisione degli interessi individuali da quelli dell’amministrazione. [11] Bobbio (Questioni di democrazia, in “Sisifo” settembre 1989) rievoca la sua lontana disputa con della Volpe e rammenta che nel 1957 il filosofo marxista ebbe un ripensamento che lo indusse al recupero dei princìpi del liberalismo, dello Stato di diritto in quanto “bisognava risalire non soltanto a Rousseau ma addirittura a Locke”. Cfr. anche N. Bobbio, Galvano della Volpe, in La mia Italia, pp. 254-268. Sulla disputa tra Bobbio e della Volpe in merito al contrasto logico tra liberalismo-democrazia o tra Kant e Rousseau cfr. C. Violi, Rousseau e le origini della democrazia moderna, “Critica marxista”, 1966, n. 4; V. Pazé, a cura di, L’opera di Norberto Bobbio, Milano, 2005; Su Bobbio, della Volpe e la via italiana al socialismo cfr. R. Bellamy, Modern Italian Social Theory, Cambridge, 1987, pp.. 141 sgg. [12] Questo è il tema della differenza che ricorre centrale in J. Rawls, o nella teoria delle “sanzioni positive” che prevede remunerazioni, premi messa a punto da N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977, p. 107. [13] G. della Volpe, Opere, vol. V, cit., p. 228. Sul nesso ricavato dalla scuola dellavolpiana tra il Marx giovane (e della Comune), teorico della “vera democrazia”, e comunismo, nell’ambito del collegamento con Rousseau cfr. A. Chrysis, True Democracy’ as a Prelude to Communism, New York, 2018, p. 14 sgg. [14] G. della Volpe, Opere, vol. III, cit., p. 279. [15] Critico verso le istanze di legalità socialista formulate da della Volpe (con il suo “inevitabile esito neogarantistico” e il “suo formalismo non certo vuoto” approda alla “surrettizia e macroscopica ipostatizzazione dello Stato di diritto”) si mostra Vacca (Scienza Stato e critica di classe, cit., p. 195; p. 212), che parla di una società di transizione come ultima fase della società di mercato e come ingresso in un tempo nuovo dove la classe esercita un ruolo centrale rispetto al partito, alle istituzioni. Le aperture allo Stato di diritto, alla legalità sono guardate come cedimenti a sensibilità liberali. La legalità socialista appare “angustamente ancorata alla sfera della distribuzione” (ivi, p. 195) e poco adatta a tracciare i tratti di una società di transizione sprovvista di forme che postula una “iperbolica dilatazione della democrazia” con la promozione di “una partecipazione politica inusitata” con la quale “i produttori si appropriano per la prima volta su scala sociale delle leggi di funzionamento della politica” (ivi, p. 200). [16] Sulla prospettiva analitica di della Volpe cfr. B. Accarino, Galvano della Volpe, Bari, 1977. Per le scuole marxiste degli anni Settanta, della Volpe si era spinto troppo in là nel recupero della nozione di Stato di diritto, nell’invocazione del principio di legalità anche nella fase di costruzione del socialismo che esigerebbe invece dittatura del proletariato e de-democratizzazione. Sulle metafore politiche improntate a un “provvidenzialismo orizzontalista” della scuola di Bari che enfatizza la partecipazione delle masse, la razionalità concreta che riassorbe la forma con suggestioni anti-istituzionali, per “agganciarsi alla generale rivolta orizzontalista in corso” cfr. O. Romano, L’ambigua potenza del marxismo all’alba del neo-orizzontalismo, in Vacca, a cura di, La crisi del soggetto, Roma, 2015, p. 453. [17] G. della Volpe, Opere, vol. VI, cit., p. 278. “Della Volpe è stato il primo intellettuale marxista ad affrontare in Italia il problema di una transizione democratica” per il socialismo (M. Fedeli de Cecco, Rousseau e il marxismo italiano nel dopoguerra, Bologna, 1982, p. 80). Non mancano semplificazioni nella riflessione italiana che, dopo aver archiviato la nozione di dittatura del proletariato confida in una “transizione semiautomatica” (ivi, p. 82). E però il tentativo rimane rilevante. L’ultimo della Volpe (Opere, vol. VI, cit., p. 352) si cimenta sulle tematiche marxiane dei Grundrisse e pone al centro della analisi delle società avanzate la questione della automazione, della contraddizione tra tecnica e tempo da porre al riparo dalle paure metafisiche sulla “società amministrata”.
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