Le recenti elaborazioni normative in materia di autonomia differenziata (bozze Gelmini e Calderoli di disegno di legge quadro, art. 134 sui LEP nel disegno di legge di bilancio 2023), al di là della forte criticità dell’obiettivo, evidenziano una involuzione preoccupante verso l’accentramento del potere normativo primario nell’Esecutivo, ovvero il Governo nazionale (e quelli regionali), con il corrispondente esautoramento delle Camere. Non su questioni secondarie, ma sull’attuazione della Costituzione, per quanto attiene al riparto di competenze tra Stato e Regioni, e alla definizione dei diritti civili e sociali garantiti dalla Carta a tutti i cittadini italiani.
Si accelera, così, una tendenza già in atto, chiara agli addetti ma non all’opinione pubblica. Già oggi oltre il novanta per cento delle norme di legge pubblicate in Gazzetta Ufficiale sono scritte materialmente dai Gabinetti ministeriali e/o dall’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio. Queste norme passano in Parlamento grazie alla fedeltà dei parlamentari di maggioranza ai capipartito che li hanno scelti e che guidano il Governo, attraverso la gestione partitica dei gruppi parlamentari e il collegamento assicurato dal Ministro dei rapporti col Parlamento. Questo sistema di produzione delle leggi, proprio della seconda Repubblica quale che fosse il colore politico della maggioranza di Governo, è stato reso più efficiente dalle ultime “riforme” del sistema elettorale, coi parlamentari praticamente nominati dalle segreterie di partito. Questa tendenza ad accentrare il potere legislativo in capo al potere esecutivo si collega da tempo, e oggi con più forza, alla linea di riforma costituzionale in senso presidenzialista, che postula l’elezione diretta del Capo dello Stato e l’affidamento al medesimo del Governo del Paese, prescindendo dall’orientamento e dalla composizione del Parlamento. Secondo un modello di massima già presente nelle Regioni e nei Comuni.
Tornando all’autonomia differenziata, nelle bozze di legge quadro elaborate al riguardo dalla Gelmini e poi da Calderoli si è previsto che le Intese tra Stato e Regioni per l’assegnazione a queste ultime, ai sensi dell’art.116, III comma, della Costituzione, della competenza legislativa e/o amministrativa sulle materie dell’istruzione e dell’ambiente, nonché su tutte le altre materie a competenza concorrente, in tutto o in parte, sono definite attraverso una procedura che prevede un parere della Commissione parlamentare per gli affari regionali seguito dalla “mera approvazione” in Parlamento della legge che recepisce l’intesa sottoscritta dai due Presidenti, senza poterla discutere nel merito. Inoltre, una volta approvata la legge quadro entrerebbero in vigore le intese già sottoscritte con Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che prevedono un massiccio spostamento di competenze su quasi tutte le materie in questione a queste tre Regioni. In realtà, il III comma dell’art. 116 prevede la possibile attribuzione di forme e condizioni particolari di autonomia, sulla base delle Intese. Le bozze di legge quadro, invece, prevedono una revisione generale del riparto di competenze stabilito dall’art. 117, II e III comma, modificandolo sostanzialmente con una “legge” avente un valore di ratifica delle intese già stipulate. Che possono essere solo rifiutate in blocco, al prezzo di una duplice crisi istituzionale, con le Regioni e con il Governo, ma non possono essere esaminate ed eventualmente emendate, chiedendo la riapertura della trattativa al riguardo, come sarebbe se le Intese fossero considerate il punto di partenza (“sulla base”) e non di arrivo dell’esame parlamentare. Questa forzatura del testo costituzionale, contenuta nelle bozze, non solo distorcerebbe il riparto di competenze tra Stato e Regioni ma comprometterebbe anche l’equilibrio dei rapporti tra Governo e Parlamento. Con l’approvazione di una legge quadro di questo genere il Parlamento abdicherebbe al suo ruolo di massima espressione della sovranità popolare sia in rapporto al Governo, sia in rapporto alle Regioni, per la ratifica a scatola chiusa di un accordo tra un Presidente del Consiglio e un Presidente di Regione, produttivo di norme generali, per giunta modificative di rapporti disciplinati da norme costituzionali. Essendo la nostra una democrazia parlamentare, è il Parlamento il primo attore e il primo autore, attraverso il potere legislativo, dell’ordinamento giuridico ed istituzionale, anche per quanto riguarda i rapporti e le competenze disciplinate dal Titolo V della Carta, approvati anch’essi dal Parlamento con una apposita – e malaugurata – legge di revisione costituzionale. In questa vicenda, invece, sono il Governo e i Presidenti delle Regioni gli attori e gli autori di un nuovo ordinamento istituzionale, rispettando solo formalmente (e forse neppure) il dettato della Carta.
In particolare, la ulteriore svolta (a destra) nel rapporto tra Parlamento e Governo si realizzerebbe perché fino a oggi le norme di legge prodotte dal Governo sono comunque passate per l’esame (spesso solo formale) e l’approvazione (forzata) del Parlamento, ma legge per legge, norma per norma. Con questa nuova prassi il Parlamento andrebbe a ratificare in blocco, con un atto avente valore formale di legge, un insieme di norme di valenza costituzionale prodotto da una fonte negoziale come l’Intesa in questione, ovvero un accordo paritario tra Governo e Regione. Come se fosse un trattato internazionale (art. 80 Cost.), o una legge comunitaria annuale, di recepimento delle normative europee. Ma nel primo caso l’accordo è con uno Stato straniero, estraneo al nostro ordinamento, e nel secondo opera la limitazione di sovranità prevista all’art. 11 Cost.. Qui siamo nell’ambito della sovranità e dell’ordinamento nazionali, e un accordo tra due organi di livelli istituzionali interni all’ordinamento – uno nazionale e uno regionale – produrrebbe norme primarie attinenti all’ordinamento medesimo, praticamente imposte al Parlamento, massimo titolare del potere legislativo.
Questo colpo al ruolo costituzionale del Parlamento si aggiungerebbe a un altro, inferto dalla norma (art. 144) del disegno di legge di bilancio, che affida la determinazione dei livelli essenziali di prestazione (LEP), assegnati alla legislazione nazionale dall’art. 117, II comma, lettera m), a uno o a più decreti del Presidente del Consiglio sulla base delle proposte elaborate da una apposita cabina di regia interministeriale. In pratica, la “legislazione nazionale” si riduce a questa norma che delega al Governo la regolazione dell’intera partita, come presupposto necessario all’attuazione dell’autonomia differenziata. La determinazione dei LEP, da garantire per tutti i diritti civili e sociali spettanti ai cittadini, è una partita complessa perché riguarda la maggioranza delle funzioni pubbliche, e delicata perché investe direttamente la fruizione di diritti assicurati dalla Costituzione. E già la legge delega sul federalismo fiscale n. 42 del 2009, ampiamente inattuata, stabilì un rapporto diretto tra la definizione dei LEP e la determinazione di fabbisogni e costi standard da riconoscere alle amministrazioni locali per assicurare l’effettiva erogazione delle prestazioni. La materia, dunque, è assai ampia, articolata e differenziata al suo interno, e verrebbe regolata attraverso un lavoro di ricognizione, raccordo e infine di scelta tra opzioni diverse, compiuto in sede tecnica tra ministeri e commissioni, con la regia del ministro per le Regioni e sotto la vigilanza del Ministero dell’Economia, che continua ad imporre in qualunque norma si elabori la formula “nel rispetto degli stanziamenti di bilancio a legislazione vigente”, ovvero senza aumenti di spesa, in evidente contraddizione col conclamato obiettivo del “pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali”.
Il punto è che, per molte funzioni e servizi, l’individuazione delle prestazioni da garantire è una questione implicante valutazioni di ordine politico generale o specifico. Di conseguenza, anche la determinazione dei fabbisogni e dei relativi costi implica valutazioni qualitative dei risultati da raggiungere, tenendo conto delle esperienze fatte al riguardo. Se il compito della pubblica istruzione è formare risorse umane per l’apparato produttivo piuttosto che personalità mature e cittadini responsabili, è di certo una questione dirimente per l’individuazione delle prestazioni da assicurare ai discenti. Più nello specifico, vi sarebbe da decidere in quali termini il sostegno ai discenti con difficoltà di inserimento di origine fisica, psichica o sociale debba articolarsi in prestazioni da assicurare. Per la Sanità le questioni sono altrettanto delicate e forse più complesse perché v’è il precedente dei livelli essenziali di assistenza (LEA) previsti fin dalla legge 502 del 1992, e sui quali si è realizzata una vasta mole di esperienze. Quali sono, poi, le prestazioni e i relativi livelli da assicurare per la “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”? E così via, per tutte le altre materie a legislazione concorrente, dalla sicurezza del lavoro al governo del territorio.
Per ciascuna di queste materie si pongono questioni di rilevanza politica che non possono essere delegate a sedi amministrative, ai legisti dei Gabinetti, ai burocrati degli apparati (i ruoli tecnici sono praticamente spariti dalla scena delle amministrazioni), ai contabili della Ragioneria generale, ma dovrebbero essere affidate al Parlamento almeno per l’individuazione delle linee politiche e dei criteri generali da seguire. Invece si procederà per decreto. Le prospettive sono assai grigie, o nere del tutto. È probabile che questa specie di delega alla regolamentazione governativa finisca nel nulla, così come avvenne per la delega sul federalismo fiscale. L’altra possibilità è che si arrivi a un assemblaggio pasticciato che escluda una parte delle funzioni con motivazioni di varia natura, e per un’altra parte produca previsioni solo formali, praticamente fittizie, secondo la collaudata prassi ministeriale in materia di definizioni e valutazioni qualitative di prestazioni, fabbisogni, impatti dell’attività amministrativa. Naturalmente senza prevedere costi aggiuntivi, in ossequio alle prescrizioni del Ministero dell’Economia (e di Bruxelles). Il che è un imbroglio, perché è impensabile aumentare la spesa per alzare i livelli di alcune prestazioni nelle zone svantaggiate compensandola con riduzioni di spesa che abbassino fino al limite fissato i livelli superiori già assicurati altrove. Ed è altrettanto impensabile coprire maggiori spese dell’ordine delle decine di miliardi con procedure di razionalizzazione come la spending review, già fallite in passato. La via d’uscita per il Governo, nel caso voglia assolvere agli impegni assunti con la Lega e le Regioni del Nord, potrebbe essere quella di mantenere i dpcm generici sulle quantità di risorse umane, materiali e finanziarie necessarie a garantire i LEP (fittizi) ivi previsti, rinviando la partita delle risorse aggiuntive alla legge di Bilancio per l’anno successivo. Così da poter affermare che i LEP sono individuati, le risorse saranno stanziate, e che perciò la legge quadro sull’autonomia potrà essere approvata ed entrare in vigore insieme alle intese già stipulate, seguite dall’apertura delle trattative con le altre Regioni. In tale evenienza, gli apparati amministrativi che espletano le funzioni in questione subirebbero una disarticolazione plurima, tra i segmenti trasferiti davvero, quelli trasferiti sulla carta, quelli il cui trasferimento restasse incerto, quelli non trasferiti affatto. A titolo d’esempio, per il Ministero della Pubblica istruzione, gli Uffici territoriali del Veneto potrebbero transitare con le relative risorse alla dipendenza politica e amministrativa della Regione, a una certa data; gli Uffici della Lombardia, alla stessa data, potrebbero essere ancora in attesa del trasferimento delle risorse; quelli dell’Emilia Romagna restare in capo al Ministero, e così via. Una volta arrivati a questo punto, davvero “Ormai solo un Dio ci può salvare” (Martin Heidegger). Prima di arrivarci.
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In merito all’autonomia differenziata, segnaliamo l’iniziativa “L’unità della Repubblica contro l’autonomia differenziata“, promossa per mercoledì 21 dicembre alle ore 17:00, a Roma in Largo Argentina, dalle realtà sociali e sindacali del percorso “Non per noi ma per tutte e tutti” e dai Comitati per il ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti.
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