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Lavoro e politica. Un grande futuro alle nostre spalle?

Tratto da "Quale Stato» - Rivista trimestrale della Funzione pubblica Cgil - n. 3-4, 2007
Pubblicato il 27 Novembre 2009
Materiali, Officine Tronti, Scritti
“Per motivi opposti, rappresentanza politica del lavoro non si è più data. Ma siccome questa linfa vitale continua a scorrere nelle vene della società capitalistica, essa si è indirizzata come un fiume in piena là dove ha uno sbocco, cioè nella rappresentanza sindacale”.
Mario Tronti, Il ‘caso Cgil’,
in «Quale Stato», 2, 2002, pp. 29-36

In una conversazione con Sandro Morelli e Mario Santostasi, Mario Tronti auspica “una sinistra che non possa essere facilmente liquidata, per la forza della proposta con cui viene identificata”.

Partiamo dal tuo commento al 23 marzo 2002 non tanto per porti qualche domanda postuma, ma soprattutto per far data, tentare una periodizzazione. Rileggendo il tuo testo, sembra di capire che tu considerassi quell’episodio come una clamorosa ‘surroga’, da parte del sindacato – o, meglio, della Cgil –, della rappresentanza del valore e degli interessi del lavoro, della sua stessa natura conflittuale, dinanzi al vuoto di identità, di iniziativa, di protagonismo della sinistra politica. Noi, tra molti, vi vedemmo anche di più: anche un momento di incontro e di potenziale, nuova aggregazione di culture (culture del lavoro e valori e obiettivi dei movimenti, diritti sociali e diritti civili e di cittadinanza, ecc.), di esperienze, di generazioni che, in effetti, non si fermò lì, ma dette anche altre grandi prove di sé: non solo una specie di lungimirante intuizione del tema cruciale della precarizzazione (non era quello già anche uno dei moventi profondi e generali di quella sollevazione di massa contro la manomissione dell’Art. 18?), ma, più concretamente, soprattutto la mobilitazione di dimensioni inedite per la pace, e poi elementi di critica diffusa del neoliberismo già presenti nelle esperienze dei Forum sociali e in esperimenti di campagne orientate a obiettivi specifici, ma di valore generale. Insomma, per farla grossa, un processo, embrionale, tumultuoso, eterogeneo ma promettente di formazione di una nuova soggettività fra il sociale e il politico, un far ressa di nuove (o rinnovate) potenze sociali critiche alle soglie delle culture politiche e della rappresentanza politica della sinistra, per invaderle, trasformarle in radice. Col senno di poi, aggiorneresti il tuo giudizio? Si trattò, forse, di una ‘grande illusione’ destinata a esaurirsi in ragione delle sue stesse basi precarie, o tu individui più generali ragioni e responsabilità, e magari un lavorio soggettivo diretto ad ostruire le vie già tanto difficili di un rinnovamento così radicale?
È una buona mossa ripartire da quell’evento che, davvero, incise con forza sulla realtà. Quello, sì, fu un punto d’incrocio, virtuoso di tante cose. Accade sempre che questi eventi, provocati da circostanze anche occasionali, poi ci dicano qualcosa di più e ci interroghino ben oltre le circostanze che li hanno prodotti e la contingenza nella quale si sono svolti.
Lì la contingenza qual era? Era un momento di grande difficoltà delle forze di sinistra perché c’era stata, l’anno prima, una dura sconfitta elettorale e, nel corso dell’anno che seguì, una mancata risposta politica da parte delle forze sconfitte. Maturò e si espresse, così, anche una critica dal basso verso i gruppi dirigenti, mentre giganteggiava a suo modo la figura del leader della destra, che intorno a sé concentrava comunque molta ostilità. Poi, c’era la corposa realtà della vita concreta di grandi masse sociali, soprattutto di lavoratrici e di lavoratori che cominciavano a sentire sulla pelle i danni provocati dall’attacco a storiche conquiste sociali, e a temere il peggio per il futuro.
Insomma in quelle settimane e, in modo straordinario, in occasione di quell’evento, si verificò – e non ricordo, dopo di allora, qualcosa di simile – un incontro vero fra il lavoro e la politica. Poi è anche vero che attorno al lavoro, si aggregarono, altre soggettività sociali e di movimento, vi fu la felice fusione tra il movimento organizzato, in realtà la Cgil, con altre esperienze e culture, movimenti, in molti casi esterni non solo al sindacato, ma anche alla politica. Ricordo anche io quella grande presenza giovanile, nella marea di popolo che scese in piazza. Ecco, fu proprio una grande manifestazione di popolo.
Il sindacato (la Cgil) fu l’unica grande organizzazione storica che si trovò, in quel momento, a percepire, quasi da sola, quella spinta, a doverla, quasi obbligatoriamente, rappresentare. Io non credo che sia stata ‘una grande illusione’; è stato un movimento molto reale; l’unica grande illusione fu forse quella di aver trovato in quella circostanza un leader politico. Ma lì si manifestò una spinta reale, che poneva grandi questioni. Il sindacato si caricò di quella spinta, di quella domanda di massa. Lo fece, dovette farlo, perché latitava una capacità direttamente politica di assumere su di sé quella domanda e di rappresentarla. Ancora oggi è questo, semmai, un punto grande di non superata polemica nei confronti dei partiti della sinistra di allora, di quei gruppi dirigenti. Lì si manifestò, infatti, un punto di divaricazione che avrebbe prodotto, poi, tutti i suoi effetti: la spinta popolare andava da una parte e la risposta politica cominciava ad andare da un’altra parte. Ricordo che, a un anno dalla sconfitta elettorale, proprio in quell’anno, nel 2002, presero il via le grandi manovre attorno alla possibile ‘unità dei riformisti’. Si aprì, insomma, quel percorso che avrebbe poi portato alla nascita del Partito democratico. Secondo me, invece, quello era il punto in cui poteva veramente partire in grande, con una base di massa, quella che oggi si dice,spero provvisoriamente, una ‘cosa o un casa rossa’. Se la risposta politica avesse accolto quella domanda, si sarebbe data l’occasione di dare il via all’impresa della ricomposizione di una grande sinistra in Italia.
Ecco perché dico che non si trattò di una grande illusione ma, piuttosto, di un’opportunità mancata. E mancata proprio perché c’è stata un’assenza di risposta politica. Il passaggio possibile, dunque politicamente necessario, era dalla mobilitazione sociale e sindacale a un progetto politico che raccogliesse le potenzialità implicite in quell’evento e le declinasse in termini politici. Quell’aggregazione, insomma, era la prefigurazione di una soggettività politica, proprio per i caratteri che si erano presentati in quella grande mobilitazione popolare: il lavoro al centro, ma anche la capacità del lavoro di aggregare intorno a sé altri soggetti spinti al conflitto dalle questioni critiche attualmente in campo, il rapporto, appunto, tra diritti sociali e diritti civili; l’attivizzazione di una dimensione popolare, la irresistibile espansività di una forza sociale che chiedeva una forma politica.
Il fatto che, a partire da quel bivio cruciale, la risposta politica abbia preso una strada del tutto diversa da quella invocata da quella domanda, da quella spinta, è esattamente – per me – la radice delle difficoltà e delle divisioni nelle quali ci troviamo oggi. Sempre, alla radice di una crisi, c’è una opportunità emersa e non colta.
Non è un giudizio leggero: ci sono responsabilità per tutti. E immaginiamo che si possano opporre obiezioni da più parti della sinistra, dentro e fuori questa rivista. Se ve ne saranno, come speriamo, riprenderemo l’analisi di questi cinque anni che descrivi così cruciali. Ritorniamo alla vicenda che stiamo vivendo. Se ripercorriamo gli anni seguiti a quel nodo, non possiamo dire che i segni dei tempi ci consegnino con chiarezza la conferma di quello che siamo venuti dicendo. Infatti, per interpretare i mutamenti intervenuti non possiamo semplicisticamente ricorrere alla registrazione di un seguito di sconfitte: in fondo, Berlusconi (il berlusconismo è altra storia!), seppur per un’incollatura, è stato battuto da uno schieramento vasto di centro-sinistra che, finalmente, ha portato al governo anche l’insieme delle sinistre, e sulla base di un programma condiviso. Eppure subito sono sorte tensioni anche aspre, all’interno dello schieramento politico vincente e anche nel suo rapporto con quell’insieme di forze della società che, pure, hanno contribuito grandemente al suo successo. Al primo duro confronto su un terreno cruciale per l’unificazione del mondo del lavoro (il rapporto fra le generazioni a proposito del sistema previdenziale, la riconquista del vasto mondo della precarietà verso l’obiettivo del suo seppur graduale superamento, ecc.), il compromesso sociale raggiunto il 23 luglio scorso con il governo ha inasprito la tensione fra l’ala radicale e lo schieramento moderato dell’Unione, ha messo in tensione il sindacato con le sinistre politiche, prodotto tensioni e divisioni nella stessa Cgil e nel suo rapporto con quell’area vasta di movimenti con cui si era più volte cimentata per la realizzazione di un incontro fecondo e stabile. Ma, nello stesso tempo, non si può non registrare il fatto che quell’accordo ha certamente ricevuto un larghissimo e partecipato consenso da parte delle lavoratrici e dei lavoratori, e l’ha ricevuto attraverso la pratica democratica e non scontata del referendum di ottobre sul protocollo del 23 luglio. Come interpretare l’insieme di questi fatti? Siamo forse – è una possibile interpretazione, non l’unica – alla dissoluzione culturale, politica e programmatica del ‘crogiuolo del 23 marzo’ e a un ripiegamento, a una ridislocazione di una parte grande di quell’area sociale su un versante se non moderato, realisticamente rassegnato – come ha scritto qualcuno –, secondo la comprensibile logica per la quale, non potendo avere di più e meglio, tanto vale tenersi il più possibile quello che si ha, riducendo il danno al minimo?
Ripartiamo dall’ultima considerazione: quando si mancano le occasioni e si deludono speranze e sentimenti forti, comincia una deriva che nessuno più riesce a controllare. Direi che questa è una regolarità, più che della politica, della storia: quando si presenta un fatto che può cambiare il corso delle cose, se qualcuno riesce a impiantare sul percorso appena aperto una forza reale, in grado di avviare l’attuazione di quel progetto di cambiamento, allora comincia un processo positivo di crescita, di mutamento dei rapporti di forza. Quando questo non avviene, quando quel passaggio non viene colto e coltivato politicamente, allora comincia proprio una fase di continua decadenza, di continuo logoramento. E penso purtroppo che oggi siamo al logoramento anche materiale di quell’aggregazione di massa. Certamente, oggi non saremmo in grado di produrre di nuovo un evento di quel genere.
Temo che si siano innescati processi molto più profondi di quanto noi stessi non riusciamo a capire. In quella grande massa di popolo s’è insediato un processo di scomposizione: è rimasta una forte avanguardia, ancora politicamente mobilitata, decisa a porre obiettivi di grande trasformazione e anche motivata a riprendere un percorso. Di quella parte di popolo abbiamo visto qui a Roma, il 20 ottobre scorso [1], una mobilitazione certamente larga ma – mi pare – senza più quella capacità straordinaria di aggregazione che c’era stata negli anni di cui stiamo parlando.
La cosa che più mi preoccupa è la constatazione del fatto che una parte di quel popolo ha via via intrapreso, a partire da lì (e, certo, non solo da lì, un evento come quello ha una forte potenza simbolica, ma poi i processi sono molto più complessi), una sorta di percorso ‘antipolitico’, segnato da una sfiducia generalizzata.
Questo è un fenomeno molto tipico, che si realizza non tanto in ragione delle sconfitte subite, quanto perché non ci sono state più vittorie sul campo. La metterei così: non pesano tanto le sconfitte, ma la mancata vittoria, la sensazione di non riuscire più a battere l’avversario, anche l’avversario di classe, non solo quello politico. Lì si innesta un elemento di sfiducia verso la politica, come uno strumento, un’arma non più in grado di produrre queste vittorie. Penso che queste cose, queste distinzioni cruciali, le persone (e soprattutto le persone di quel popolo di cui abbiamo detto, cariche di aspettative, di speranze e anche di esperienze) le sentono e le valutano molto più e molto meglio di quanto noi non riteniamo: può esserci, insomma, una vittoria elettorale contingente pur dentro una tendenza lunga che esprime una sconfitta culturale e politica. E questo il nostro popolo – se posso dire così – lo capisce e lo sa.
Ora, a me pare – non vorrei essere banalmente frainteso, ma non intendo neppure eludere il nodo – che, soprattutto se ci sforziamo di guardare alle cose dal punto di vista di quelle persone, nelle ultime elezioni politiche e nella vicenda che ne è seguita si è verificato esattamente il fenomeno del quale ho appena detto: l’azione del governo Prodi, insomma, è stato avvertita come la sconfitta politica di quella aggregazione di massa che si era realizzata in quegli anni.
Si è potuto verificare nel concreto, intendo dire, che quella domanda non era arrivata a farsi governo, perché al governo era andato magari un progetto politico come quello del Partito democratico (o dell’‘unità dei riformisti’, se si preferisce), che poco o nulla aveva a che fare, appunto, con le motivazioni profonde dell’evento di massa dal quale siamo partiti nel nostro ragionamento. È capitato altre volte di scambiare delle vittorie elettorali con delle vittorie politiche, un fenomeno che diventa tanto più frequente quando lo sguardo della politica si fa superficiale.
Quello di cui dovremmo preoccuparci, invece, è come contrastare quella grande sfiducia, quella grande critica alla politica che viene ormai non soltanto dai nuovi e tradizionali ceti intermedi, ma che ha coinvolto anche il mondo del lavoro. D’altra parte, segni anticipatori del problema non sono mancati: da anni vediamo che il voto operaio del Nord sempre meno massicciamente si orienta a sinistra. Sempre più spesso, anzi, si dirige verso un popolarismo leghista, o verso quel fenomeno nuovo che è l’astensionismo, non antipolitico, ma politico.
E se le testimonianze che ho raccolto sono attendibili, mi pare di poter dire che anche nel corso della consultazione sindacale che ha preceduto il referendum dello scorso ottobre, in molte assemblee si è espressa fortemente una tensione schiettamente ‘antipolitica’, specie nei settori operai. Ne ricavo che quella divaricazione di cui ho detto poco fa, continua ad agire e, forse, ad accentuarsi. Un processo che ha assunto una sua certa autonomia, dunque, e che – almeno fino a questo momento – non si riesce a contrastare. Quella unità di popolo, di lavoro e nuove forme di soggettività conflittuali, si è dissolta.
Come tentare oggi una risposta politica, un’iniziativa efficace in grado di contrastare e invertire questo processo? Oggi le condizioni perché un tentativo del genere possa avviarsi con successo, sono certamente meno forti di qualche anno fa. Ho già detto dell’attenzione che – secondo me – va riservata alle forti avanguardie che sono ancora in campo e abbiamo visto fortemente presenti e combattive in occasione della manifestazione dello scorso 20 ottobre. Bisognerà certamente ripartire da questa forza senza però dimenticare che si tratta di una forte avanguardia che non ha più dietro di sé, intorno a sé, quella base di massa. Ma su questo punto, immagino, torneremo tra poco. Qui, per concludere il ragionamento sollecitato dalla vostra domanda, mi interessa soprattutto sottolineare le radici e i caratteri profondi della deriva che ha prodotto e sta ancora producendo questa sorta di smottamento politico nel senso comune anche di tante lavoratrici e di tanti lavoratori. Un problema che investe direttamente, mi pare, anche il sindacato, che ho l’impressione subisca un po’ passivamente, piuttosto che contrastare, questa disillusione di massa, contenendo la sua azione in quel quadro di governo di cui parlavamo, piuttosto che spingere per forzarne i limiti.
E non aggiro la vostra obiezione. Devo dire che – e qui si potrebbe aprire un discorso più generale – non riesco proprio a condividere l’enfasi meramente quantitativa con la quale è divenuto d’uso corrente esaltare i ‘numeri’ di fenomeni pur importanti di ‘partecipazione democratica’: 3 milioni e mezzo di partecipanti alle primarie per la leadership del Partito democratico, 5 milioni di votanti al referendum sindacale di ottobre, e infine i mirabolanti 8 (o dieci?) milioni di sostenitori accorsi ai gazebo del ‘nuovo’ partito berlusconiano (ci tornerò dopo, se vorrete).
Anche il sindacato – i cui numeri, almeno, sono certificati – rischia di farsi prendere un po’ troppo da questa enfatizzazione. Che non mi convince – mi spiego – perché queste forme di democrazia ‘quantitativa’, in realtà non spostano niente dal punto di vista dei rapporti reali, non dimostrano niente, neanche una verificabile volontà politica di effettiva partecipazione. Io vedo, infatti, che c’è molta passività, la risposta a un’agenda dettata dai grandi mezzi di comunicazione di massa, che ha molti numeri ma quasi nessun elemento di soggettività forte, autonoma. Sicché io non vedo lì, in quel genere di fenomeni di partecipazione, l’elemento che può invertire questo percorso di deriva, anzi, vi vedo l’espressione di una inconsapevole sua legittimazione di massa. In queste forme di ‘consultazione democratica’ sono stati espunti tutti i motivi di critica, di contestazione, e resta in campo la forza dello stato delle cose esistenti, entro i cui confini non resta che aggirarsi.
Questo è un grande tema politico che, però, deriva proprio da qualche cosa che è avvenuto nel profondo della società, anche nella società del lavoro. Bisognerebbe andare analiticamente a interrogare questo humus che è nato lì, che si è coltivato lì. Ci vorrebbe quasi una ricerca empirica che faccia affiorare questa cosa, anche perché, una volta espressa, ci si può cominciare a ragionare su, per vedere quali possono essere i rimedi.
Intanto, più in superficie, la transizione italiana continua a produrre le sue metamorfosi: la più rilevante, in qualche misura storica, è la dissoluzione del maggior partito della sinistra in un soggetto politico – come è stato detto – «a vocazione maggioritaria», che abbandona cioè il suo riferimento primario al mondo del lavoro e declina una sua configurazione che con qualche arcaismo potremmo definire ‘interclassista’ (lavoro, impresa, consumatori), unificata però non più dalla «Rerum novarum» di Leone XIII quanto piuttosto da versioni più o meno temperate dell’egemonia liberista. Ma rimandiamo ad altro momento l’analisi delle turbolenze di questi giorni (anche perché non avrebbe molto senso discutere – sul piano strettamente politico-partitico – delle tendenze e dei possibili esiti di una situazione in così rapida e confusa evoluzione). Invece ci concediamo la licenza di una analisi sommaria per tentare di provocarti su un tema che ti è caro. Proviamo a ipotizzare che con singolare simmetria (ed escludiamo pure il sospetto di un banale consociativismo) i due protagonisti di queste settimane di contatti fra Partito democratico e Partito del popolo, o delle libertà, o come si chiamerà, convergano nel progettare (e non solo attraverso una nuova legge elettorale) un nuovo sistema politico che con la motivazione (del resto molto popolare) di semplificare il caos partitico abbia la funzione effettiva di consolidare in forme politiche la deriva di cui ci hai detto, liberando qualsiasi ipotesi di governo non certo dai conati di rinascita di un centro moderato quanto dalla incidenza delle forze più radicali e dalle loro basi sociali, perseguendo cioè in buona sostanza l’obiettivo finora mancato: il disciplinamento non solo del mondo del lavoro e del vitale universo associativo e di movimento che si è affacciato sulla scena in questi anni, ma della stessa forza critica del sindacato, della sua autonomia, della capacità aggregativa che, seppure in forma di surroga, ha messo in campo in altre occasioni. Potrebbe essere questo – persino al di là di più consapevoli strategie o intenzioni attuali – il modo col quale finirà col realizzarsi la riconquista di un primato della politica inteso non certamente come principio democratico regolatore dell’economia finanziarizzata e del privatismo mercantile (che fu l’obbiettivo dichiarato del sommovimento democratico negli anni precedenti), ma come governo forte di una società che non si pacifica?
Ho capito la provocazione. Francamente, però, non riesco ad assegnare questa lucidità strategica al ceto politico che sta conducendo questa operazione. Se così fosse, sarei quasi più contento di avere a che fare con qualcuno che ci sta pensando seriamente. Posso sbagliare (perché magari qualcuno a questa cosa ci sta pensando), ma mi pare proprio che si tratti piuttosto di una sorta di risposta passiva agli eventi.
Naturalmente, poi, una tale risposta non può essere definita del tutto passiva perché, nel momento in cui si organizza, interviene su processi reali e li accelera. L’effetto, infatti, che si vede in queste ore è l’accelerazione del processo, è una sistemazione di quella deriva che dicevamo prima, una sistemazione quasi definitiva. Credo che noi stiamo andando finalmente alla conclusione di questa lunga transizione: è la fine della cosiddetta ‘seconda Repubblica’. Era nata con i referendum sul maggioritario, e nel momento in cui si torna al proporzionale, si chiude; poi le soluzioni politiche sono da mettere sotto osservazione, perché chiariscono molto la situazione. Dico una cosa che, a prima vista, potrebbe sorprendervi: secondo me, gli scenari politici che si prospettano sono abbastanza interessanti, perché potrebbero contribuire a chiarire finalmente una situazione troppo confusa, che, poi, potremo forse interpretare in modo più chiaro.
Che cosa sta per avvenire (a quanto pare)? Si profilano due schieramenti: da un lato quello dominato dal partito populista evocato da Berlusconi, dall’altro quello incardinato sul Partito democratico, un partito liberale di massa. Queste saranno – sembra – le due risposte.
Certo, dietro questa semplificazione del sistema politico-partitico, si sta dislocando una più accentuata confusione sociale. Infatti, se ripensiamo a quella massa articolata e sterminata del 23 marzo 2002 e consideriamo la sua scomposizione-ricomposizione politica, capiamo subito che, senza ombra di dubbio, quell’insieme ci si presenterà ancora più distribuito e disperso in entrambi gli schieramenti in via di aggregazione.
Non a caso, da una parte, parlando di un Partito del popolo, si allude al Partito popolare, privo, però, di personalità portatrici di idee strategiche: dietro, insomma, non c’è Sturzo, ma l’istinto, l’intuizione tattica e spregiudicata del solito Berlusconi. Così come dietro al Partito democratico non c’è il bagaglio di idee di un Keynes dei nostri giorni, capace di proporre una diversa e originale impostazione del rapporto tra economia e politica. Abbiamo, ormai, ceti politici che, piuttosto, si adattano alla politica, senza conferirle dimensioni strategiche nei confronti dell’”altro” dalla politica, l’economico, il finanziario, il tecnologico, lo stesso sociale. Tuttavia, certamente, si impongono passaggi che possono essere decisivi. E questo lo è, secondo me.
Come avete proposto anche voi, penso anche io che siamo dinanzi al tentativo di ripristinare un primato della politica nel governo della modernizzazione: questa ambizione io la vedo, nell’idea di governo che il Partito democratico sembra voler sostenere. E penso anche che il tentativo di tornare a una sorta di primato della politica potrebbe aprire scenari meno oscuri di quelli che abbiamo fin qui conosciuti. Intanto, si tornerebbe – sembra – a riaccreditare un po’ la cosiddetta ‘forma partito’, in controtendenza rispetto ad alcuni dei fattori della deriva di massa verso l’antipolitica di cui abbiamo parlato prima. Fra questi fattori, credo non sia stata marginale la sostituzione della ‘forma partito’ con la ‘forma coalizione’ (se posso dire così). La ‘forma coalizione’ è veramente produttrice di antipolitica: le aggregazioni improbabili, incomprensibili anche a livello di massa, litigiose al proprio interno, che abbiamo sperimentato in questi anni, penso proprio che abbiano concorso al diffondersi di una sfiducia estesa e profonda nei confronti del ‘teatrino della politica’ che ne è stato generato. Avete capito bene quello che penso: un processo di riaggregazione fondato su partiti che dovessero trovare di nuovo nel Parlamento il luogo deputato alla costituzione di maggioranze di governo, potrebbe essere – secondo me – un fattore di potenziale risanamento della malattia politica di cui ha fondamentalmente sofferto la cosiddetta seconda Repubblica.
… una specie di convalescenza dopo la malattia…
Sì convalescenza è forse la parola giusta, perché, se penso che questa potrebbe essere una condizione necessaria per riconquistare, forse, un terreno politico più chiaro e credibile, per fronteggiare un po’ il degrado del senso comune che è dilagato in questi anni, tuttavia non penso affatto che si tratterebbe di una condizione sufficiente a definire le basi di una svolta culturale e politica: le eventuali due ‘forme partito’ dominanti concorrerebbero, di fatto, ad assecondare – seppure in campi fra loro in competizione, e in forme e con intensità diverse – l’attuale processo di forte stabilizzazione capitalistica.
Insomma, mi sto chiedendo, innanzi tutto, quali possano essere le strade lungo le quali riuscire a rinobilitare la politica, perché sono convinto che questa questione sia più importante delle riforme elettorali o costituzionali. Se, infatti, non si riabilitasse l’agire politico, le riforme non servirebbero proprio a niente, perché non avrebbero mai una legittimazione popolare. La dimensione oggi delegittimata è proprio quella politica. Su un terreno politico delegittimato, si potrebbero solo innestare riforme istituzionali difensive o del tutto strumentali, perché aderenti a quella delegittimazione.
Come sappiamo bene, non tutte le istanze, le domande che provengono dai vari settori sociali sono in sé giuste. Ci sono anche domande sbagliate, cui le forze politiche devono contrapporsi. Ma, appunto, ci vogliono allora forze politiche che abbiano salde radici sociali e culturali e quella capacità di lettura delle cose che è stata propria delle grandi forze politiche.
Ecco, al di là delle considerazioni contingenti sul processo politico in atto (e persino prima delle considerazioni di merito e di schieramento), il nostro problema, il problema del paese, della sua democrazia è, innanzi tutto, questo: come darsi forze politiche consistenti e in grado, comunque, di governarlo nella democrazia. Questo problema non è stato affatto risolto in questi ultimi anni. Anzi…
Se non interpretiamo male il tuo pensiero, il dissodamento dei ‘territori della politica’ non comporterebbe affatto, di per sé, che venisse subito abitato da un soggetto rappresentativo del lavoro e delle sue alleanze sociali. Dunque, poiché non è pensabile acconciarsi né alla permanenza di questa prospettiva e neppure a una specie di teoria dei due tempi – prima la riabilitazione della politica poi la ricomparsa della rappresentanza del lavoro – quali potrebbero essere, oggi e qui, le ‘condizioni sufficienti’ che, con quelle necessarie, potrebbero avviare la svolta politica e culturale che, pur mancata, frustrata, non si può certamente dirsi rinunciata? In altri termini, vedi, in giro, la formazione delle condizioni attuali di una prospettiva diversa? Insomma, per parlar chiaro, questo faticoso, incerto processo di confluenza di sinistre politiche, sociali (e sindacali, per la loro parte e nella loro autonomia) in una soggettività politica unitaria e plurale della sinistra (come si usa ripetere di questi tempi), quali spazi reali ed efficaci può offrire alla ricostruzione di una rappresentanza politica del lavoro? Da quali valori, da quali contenuti, da quale capacità autonoma di rappresentanza ricominciare nella ‘nuova fase’ politica’ dando per scontato progetti di marginalizzazione delle sinistre sia nella politica che nella società? E per andare dove, questa volta? È un interrogativo che stringe da presso anche il sindacato, diremmo soprattutto la Cgil che dalla semplificazione in senso moderato della nomenclatura dei partiti non può non sentire minacciato quello spazio di autonomia programmatica e politica che è stata la lunga e combattuta impresa della sua storia in questo cinquantennio A quali condizioni è pensabile che questo spazio sia ricavabile da un progetto di unità sindacale che non si limitasse a ritornare al ‘mestiere del sindacato’, dinanzi all’invadenza di un quadro politico largamente egemonizzato dalle potenze sociali e culturali del capitalismo neoliberista?
Ho capito. Volete concludere proprio con la madre di tutte le domande. Non mi sottraggo. Recentemente, ho in effetti sottolineato [2] l’esigenza di reimpiantare nella società e, contemporaneamente, nella cultura del paese, una vera e propria lotta per l’egemonia.
Mi spiego meglio: dicevo poco fa che l’evento del 23 marzo 2002 avrebbe potuto segnare l’avvio di una storia nuova mentre, invece, è continuata poi una vecchia storia. Quell’evento, infatti, si collocava dentro un cambio di egemonia a favore delle classi dominanti che si era già dato con la galoppata neoliberista partita negli anni Ottanta e sviluppatasi nei Novanta. L’interesse che riservammo e stiamo ancora riservando a quell’evento, nasce dunque dalla constatazione che, nel 2002, si manifestarono l’esistenza e il protagonismo forti di una grande e variegata massa, ricca di presenze nuove e giovanili, non disponibile ad assecondare l’avvenuto cambio di egemonia.
La lotta per l’egemonia deve avere un cuore, un centro vitale. E io penso che ancora oggi questo centro non può che consistere nel riportare il valore del lavoro al primo punto dell’agenda politica. Il cambio di egemonia che prese il via negli anni Ottanta era andato, infatti, esattamente nel senso opposto: la competizione di mercato e, dunque, la centralità dell’impresa come principio regolatore assoluto e, di conseguenza, il lavoro come fattore subordinato.
Naturalmente non si trattò di un’invenzione, ma della materialità di un processo che ha avuto successo perché derivava anche da grandi mutamenti sociali: le profonde modificazioni del lavoro, la fine della centralità operaia e tutto quello che avvenne nella struttura economico-finanziaria globale.
Si sta finalmente tornando a discutere sul valore e la configurazione del lavoro oggi. Aris Accornero, già nel 1986, aveva parlato del lavoro ‘dopo la classe’ [3]. Effettivamente, è la stessa figura antropologica del lavoratore che non si ritrova più pienamente dentro una struttura di classe, che era in parte oggettiva, ma molto più soggettiva, nel senso che era fatta di coscienza di classe: pensiamo soltanto a che cosa possono aver voluto dire la cosiddetta atomizzazione, e le enormi trasformazioni del postfordismo ancora, per tanta parte, poco esplorate.
Ho partecipato, recentemente, a molte interessanti discussioni: sull’ultimo libro di Sergio Bologna [4], e poi sui lavoratori della conoscenza, e su tutta la grande questione del precariato, soprattutto intellettuale. Di volta in volta, la mia convinzione si accresce e si fa più salda: riportare questa questione del lavoro al centro dell’agenda politica è uno dei principali impegni che dobbiamo assumerci. Se vuoi produrre una politica che non sia di mero adattamento a ciò che c’è; se hai in mente una trasformazione in grande dell’attuale società capitalistica, devi mettere il lavoro al centro dell’attenzione e dell’attività politica.
Naturalmente voi avete ragione: questa operazione non la compiranno certo le grandi aggregazioni politiche che pare stiano strutturandosi. Bisognerà, dunque, trovare una nuova aggregazione politica che sia in grado di assumere e di praticare questa esigenza.
Ma questo che cosa significa, oggi? Voglio essere chiaro: io non penso più il lavoro come lo pensavo negli anni Sessanta, cioè come un punto di vista parziale da cui però è possibile cogliere e interpretare le contraddizioni fondamentali della complessità sociale. Contraddizioni e complessità che oggi, peraltro, non possono più essere lette a livello nazionale, ma vanno interpretate a livello mondiale.
Quando guardo il mondo, mi rendo conto che il punto di vista operaio, il punto di vista del lavoro non basta più a gettare luce sulla totalità del mondo. Naturalmente sto solo e sommariamente accennando a un passaggio che però è fondamentale perché è strategico, ed è anche teorico in quanto rimette in questione le categorie marxiane, la figura di Marx: il mondo non è più leggibile dal punto di vista del lavoro, ma lo stesso capitale mondiale non è più leggibile dal punto di vista del solo lavoro. Servono altre categorie, non che sostituiscano, ma che aggiungano qualche cosa d’altro, cioè le politiche di potenza, la finanziarizzazione che, nella sua forma contemporanea, fuoriesce già dal quadro noto.
Quello che io vedo in grande, poi, è un ritorno di politica-mondo a livello di grandi potenze globali, di fronte a cui quello che era il vecchio Stato-nazione che noi avevamo in mente in Europa, tipo la Spagna contro l’Inghilterra, sono quisquilie. Se si pensa che si ha a che fare con un continente come la Cina, come l’India, con il risveglio dell’America Latina, con quello che può venire dall’Africa, insomma ti rendi conti che sei in una fase di mutamento strutturale del terreno storico-politico.
Questo macigno, che tu stai illustrando, sulle spalle di chi può essere messo?
Non vedo in giro qualcuno che neanche lo tenti, perché dovrebbe farlo una grande forza politica, e intendo una grande forza politica di dimensioni europee. L’impresa che meritava di essere tentata era quella di una grande sinistra che poteva nascere su quella base ma subito dopo doveva essere declinata in termini europei. Non puoi fare molto dal punto di vista della piccola Italia. Solo un’Europa politica può mettersi in questa grande trasformazione del mondo e avere la capacità di mediare tra Atlantico e Pacifico, tra Occidente e Oriente, oltre che tra Nord e Sud del mondo. Solo a quel livello puoi sperare di prendere parola su quei processi; al di sotto non ce la fa nessuno.
Ma non voglio darvi l’impressione di scantonare. Resto fermo al problema che mi avete posto: come rispondere a un’emergenza che si verifica, appunto, sul campo di una lotta per l’egemonia; come tentare di giocarsi la partita sul terreno del senso comune, anche del senso comune intellettuale.
Credo che questa riaggregazione, che è in corso, non più per poli, ma per partiti, lasci uno spazio che è necessario coprire. È un’impresa che va affrontata molto realisticamente e molto lucidamente, nel senso che nessuna aggregazione oggi, alternativa o antagonistica ai livelli di sistema dominante, è in grado di essere maggioritaria. Devi saperlo prima di cominciare la cosa, altrimenti confondi i desideri con la realtà.
Bisogna mettere in campo, secondo me, una minoranza che abbia però nella sua coscienza soggettiva quasi l’odio per il minoritarismo, cioè una minoranza non minoritaria, una minoranza a vocazione maggioritaria dal punto di vista del discorso, del progetto, della formulazione delle domande con relative risposte. Intendo dire che devi elaborare un discorso che è più forte di tutti gli altri discorsi che mettono in campo le grandi forze politiche, un discorso, per dir così, ‘a vocazione egemonica’ e tale che non possa essere facilmente contestato, come può essere facilmente assorbita l’azione quotidiana che puoi produrre a livello di movimenti che si scontrano con grandi realtà ostili. Una minoranza autorevole, insomma. Un possibile partito rosso io lo penso così: una sinistra che non possa essere facilmente liquidata, in forza della potenza di analisi che è capace di esprimere e far camminare nel discorso pubblico, per la forza della proposta con cui viene identificata. Ho paura, invece, di una ‘cosa’ che si ponga in una dimensione difensiva, inconsapevolmente residuale, con l’idea di essere qualcosa di superiore, mentre poi, di fatto, difende un piccolo spazio.
È un progetto che, naturalmente, ha anche bisogno di una forza, di un consenso, che però non è impossibile conquistarsi, purché abbia anche l’ambizione, e la capacità, di incidere su più piani, compreso quello, per esempio, della rappresentanza sindacale.
Ho visto che negli scenari di questa fase di trasformazioni che si intuiscono nelle vostre domande, si ripresenta il progetto di un’unità sindacale che potrebbe rischiare di concorrere ai progetti politici di stabilizzazione moderata di cui abbiamo detto. Secondo me bisognerebbe acquisire e assumere l’unità sindacale come un bene in sé, ad una condizione: che abbia un forte spazio di autonomia. Un sindacato unito deve avere come referente non un’altra forza politica, ma la sua propria base sociale. Il caso italiano ha depositato un’eredità da coltivare: un soggetto che, proprio in quanto autonomo dai partiti e dal governo, riesce ad avere una essenziale insostituibile funzione propriamente politica. Soprattutto se il sistema istituzionale si ristruttura su due grandi partiti, un sindacato unito forte, con milioni e milioni di iscritti, può essere un soggetto politico con un gioco molto libero e anche molto efficace a difesa degli interessi e dei diritti dei lavoratori.
Né credo che un soggetto unitario a sinistra debba temere questa evoluzione, perché esso può avere indirettamente una sponda nella rappresentanza sindacale del mondo del lavoro, almeno a livello di condizioni materiali, purché abbia poi la capacità di tradurre in politica quel versante, quell’orizzonte, muovendosi su più piani, su più terreni.
So bene che, al momento, siamo alle parole, ai discorsi. Bisognerà presto fare i conti con la realtà delle risorse culturali e politiche che abbiamo a disposizione, costruire la casa con i mattoni che abbiamo. Allora, se non possiamo dire con l’Enciclica: con la speranza siamo stati salvati, diciamo piuttosto: con la speranza ci dobbiamo salvare.
Note
* Mario Tronti,, docente di filosofia politica; presidente del Centro di di Studi e iniziative per la riforma dello Stato. Il testo è accessibile anche sul sito della Funzione pubblica Cgil www.fpcgil.it), nella pagina di «Quale Stato» – ‘Ultimo numero’.
1) Mario Tronti, Il ‘caso Cgil’, «Quale Stato», 2, 2002, pp. 29-36.
2) La manifestazione si svolse sulla base di un appello – pubblicato il 3 agosto su «il manifesto», «Carta» e «Liberazione» – promosso dai tre direttori dei priodici e da una ventina di importanti personalità della sinistra sociale e politica, articolato in sette punti, dichiarato ‘non contro il governo’, e rivolto a «[…] chiunque si riconosca nell’urgenza di partecipare, per ricostruire un protagonismo della sinistra e ridare fiducia alla parte finora più sacrificata del paese.» Delle forze politiche della sini stra cosiddetta ‘radicale’ non aderì Sinistra democratica. Successivamente, i leader di Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si incontrarono e convocarono per l’8 e il 9 dicembre una assemblea nazionale della sinistra e degli ecologisti (i cosiddetti ‘Stati generali’ della sinistra), con l’obiettivo di promuovere il percorso costitutivo di una federazione unitaria delle sinistre, a partire dalla federazione dei gruppi parlamentari e dalla predisposizione di una consultazione popolare sui programmi.
3) Per la più recente riflessione di Mario Tronti sul tema, si veda , relazione al seminario “Per un laboratorio di cultura politica a sinistra”.
4) Aris Accornero, Nino Magna, Il lavoro dopo la classe, Il Mulino, 1986.
5) Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, DeriveApprodi, 2007 presentato a Roma nell’iniziativa Crs Nuove forme di lavoro, welfare e ceti medi.

Note

[1] La manifestazione si svolse sulla base di un appello – pubblicato il 3 agosto su «il manifesto», «Carta» e «Liberazione» – promosso dai tre direttori dei priodici e da una ventina di importanti personalità della sinistra sociale e politica, articolato in sette punti, dichiarato ‘non contro il governo’, e rivolto a «[…] chiunque si riconosca nell’urgenza di partecipare, per ricostruire un protagonismo della sinistra e ridare fiducia alla parte finora più sacrificata del paese.» Delle forze politiche della sini stra cosiddetta ‘radicale’ non aderì Sinistra democratica. Successivamente, i leader di Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi si incontrarono e convocarono per l’8 e il 9 dicembre una assemblea nazionale della sinistra e degli ecologisti (i cosiddetti ‘Stati generali’ della sinistra), con l’obiettivo di promuovere il percorso costitutivo di una federazione unitaria delle sinistre, a partire dalla federazione dei gruppi parlamentari e dalla predisposizione di una consultazione popolare sui programmi.
[2] Per la più recente riflessione di Mario Tronti sul tema, si veda , relazione al seminario “Per un laboratorio di cultura politica a sinistra”.
[3] Aris Accornero, Nino Magna, Il lavoro dopo la classe, Il Mulino, 1986.
[4] Sergio Bologna, Ceti medi senza futuro? Scritti, appunti sul lavoro e altro, DeriveApprodi, 2007 presentato a Roma nell’iniziativa Crs Nuove forme di lavoro, welfare e ceti medi.

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