Michele Azzola è responsabile del Dipartimento per le politiche industriali della CGIL.
Vertenze sempre più dure in assenza di una politica industriale
La crisi industriale italiana non è più soltanto una questione economica o produttiva: sta diventando una vera e propria emergenza sociale e democratica. Il progressivo indebolimento del sistema manifatturiero, certificato dal calo della produzione industriale e dall’aumento massiccio degli ammortizzatori sociali, si traduce oggi in un’escalation delle vertenze, sempre più radicali e difficili da governare. Quando il lavoro viene messo a rischio e le istituzioni restano sorde, i lavoratori finiscono per dover alzare il livello della protesta per ottenere attenzione.
Non si tratta di episodi isolati o di una radicalizzazione ideologica del conflitto, ma del prodotto di un vuoto politico: la scelta di non dotare il Paese di una strategia industriale pubblica capace di governare le grandi trasformazioni in atto. È in questo contesto che maturano le tensioni sociali che attraversano oggi molti territori.
Il Sulcis e la disperazione che sale sulle ciminiere
La crisi del Sulcis rappresenta uno dei simboli più drammatici di questa fase. La vertenza Euroallumina è ferma da anni, sospesa tra promesse mancate, rinvii e annunci mai tradotti in scelte operative. In un territorio già segnato da una profonda fragilità sociale, l’assenza di un progetto industriale credibile ha portato i lavoratori a gesti estremi: salire sul tetto della ciminiera non è una scelta spettacolare, ma l’ultima risorsa di chi non vede alternative.
Qui emerge con chiarezza un nodo cruciale: quando lo Stato arretra e non esercita il proprio ruolo di indirizzo e garanzia, la protesta si trasforma in disperazione. E la disperazione, se non trova risposte, rischia di diventare una frattura sociale permanente.
Ex Ilva: tra Taranto e Genova una crisi nazionale
La crisi dell’ex Ilva non riguarda solo Taranto, ma l’intero Paese. Le manifestazioni di Genova e Taranto mostrano come la vertenza abbia assunto una dimensione nazionale, coinvolgendo lavoratori, comunità locali e intere filiere industriali. Dopo anni di commissariamenti, piani industriali incompleti e continue incertezze, resta irrisolto il nodo fondamentale: come coniugare diritto al lavoro, tutela della salute e transizione ambientale.
L’assenza di una decisione politica chiara ha prodotto un conflitto permanente, in cui i lavoratori vengono messi di fronte a un ricatto inaccettabile tra occupazione e ambiente. Anche in questo caso, l’inasprimento delle forme di protesta è il segnale di una vertenza lasciata incancrenire.
Altre crisi aperte: un Paese in affanno
Il Sulcis e l’ex Ilva non sono casi isolati. Dall’automotive, colpito da ristrutturazioni, delocalizzazioni e riduzione dei volumi produttivi, alle aziende della chimica di base, fino alle crisi nel settore elettrodomestici e nella logistica, il quadro è quello di una frammentazione crescente delle vertenze. Molte di queste crisi hanno un tratto comune: l’assenza di un intervento pubblico strutturato e l’affidamento quasi totale alle decisioni delle imprese.
Il risultato è un aumento significativo degli ammortizzatori sociali, utilizzati non come strumento temporaneo di accompagnamento, ma come gestione ordinaria del declino industriale. Una scelta che non risolve i problemi, ma li rinvia, scaricandone il costo su lavoratori e territori.
Le transizioni senza governo industriale: il rischio di un ritardo strutturale
La transizione ambientale e quella digitale rappresentano una sfida epocale per il sistema manifatturiero italiano. Ma in assenza di politiche industriali pubbliche, queste trasformazioni rischiano di diventare un fattore di ulteriore indebolimento, anziché un’opportunità di rilancio. Senza una strategia nazionale, il Paese rischia di restare ai margini dello sviluppo delle nuove tecnologie necessarie all’abbattimento delle emissioni, importando innovazione invece di produrla, perdendo competenze, valore aggiunto e occupazione qualificata.
Guardare all’industria con un occhio rivolto al passato è un errore strategico che l’Italia non può permettersi. Difendere l’esistente senza accompagnarlo alla trasformazione significa condannarlo al declino. Le grandi economie europee stanno investendo nella costruzione di nuove filiere industriali legate alla transizione ecologica e digitale, mentre in Italia continua a mancare una visione complessiva.
La transizione non è solo una questione di riconversione degli impianti, ma di creazione di nuove produzioni e di nuovi settori industriali: mobilità elettrica e sostenibile, batterie e sistemi di accumulo, pompe di calore, tecnologie per l’efficienza energetica degli edifici, energie rinnovabili, idrogeno verde, economia circolare, digitalizzazione dei processi produttivi. Sono queste le filiere su cui si giocherà la competitività industriale dei prossimi decenni.
Senza un intervento pubblico forte, capace di orientare investimenti, ricerca, formazione e politiche industriali, l’Italia rischia di restare un Paese manifatturiero a bassa intensità tecnologica, dipendente da forniture estere e incapace di governare la trasformazione.
Energia: senza pragmatismo non c’è politica industriale
A questa assenza di visione si somma una grave mancanza di pragmatismo nell’azione di Governo sul tema dell’energia, oggi uno dei principali fattori di crisi della manifattura italiana. L’Italia sconta un costo dell’energia strutturalmente più alto rispetto ai principali Paesi europei, un elemento che mette fuori mercato intere filiere produttive.
Di fronte a questa emergenza reale e immediata, la risposta del Governo continua a essere rinviata a un futuro indefinito, affidata alla prospettiva del nuovo nucleare. Le tecnologie evocate – reattori modulari di nuova generazione e fusione nucleare – non sono oggi mature dal punto di vista industriale e richiederanno decenni prima di diventare operative. Utilizzarle come risposta alla crisi attuale significa sostituire un problema concreto con una promessa lontana.
Nel frattempo, è necessario intervenire subito con strumenti disponibili: disaccoppiare il prezzo dell’energia elettrica da quello del gas, accelerare lo sviluppo delle energie rinnovabili, ridurre gli oneri di sistema – che rappresentano circa il 20% della bolletta – trasferendone una parte sulla fiscalità generale. Sono scelte possibili e necessarie per sostenere la competitività industriale e l’occupazione.
Proteste sempre più dure e rischio democratico
Quando le vertenze diventano sempre più dure, non è per radicalizzazione ideologica, ma per mancanza di ascolto. Blocchi, occupazioni e gesti estremi sono il segnale di canali di mediazione svuotati. Se per ottenere l’attenzione delle istituzioni diventa necessario violare regole o esporsi fisicamente al pericolo, la tenuta sociale e democratica del Paese si indebolisce.
Il lavoro, che la Costituzione pone a fondamento della Repubblica, rischia di diventare una variabile sacrificabile. È una deriva che alimenta sfiducia, rabbia e senso di abbandono, soprattutto nei territori più fragili.
Conclusione: una scelta politica non più rinviabile
Dal punto di vista della CGIL, la questione non è solo economica, ma profondamente democratica. Senza una strategia industriale pubblica, le crisi continueranno a moltiplicarsi, le vertenze diventeranno sempre più dure e il rischio di una frattura sociale e democratica diventerà concreto.
Serve una scelta politica chiara che rimetta al centro il lavoro, l’intervento pubblico e il ruolo delle parti sociali. Non bastano annunci o soluzioni tampone: è necessaria una vera stagione di politiche industriali, capace di governare le transizioni, di ridurre il costo dell’energia e di garantire nuova occupazione di qualità.
È il momento di scegliere: o il Paese si dota di una visione industriale e sociale all’altezza delle sfide, oppure continuerà a scivolare verso la deindustrializzazione, la precarietà e l’erosione della propria democrazia. La CGIL continuerà a stare dalla parte del lavoro, della coesione sociale e della Costituzione, chiamando lavoratori e lavoratrici alla mobilitazione per cambiare il futuro industriale dell’Italia.
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