Interventi

Articolo pubblicato sull'”Huffington Post” il 05.02.2021.

Le dimissioni di Zingaretti arrivate all’improvviso, pur nella loro modalità eccentrica (via Facebook!), colgono nelle loro motivazioni un punto vero ossia che nel Pd si pensi più alle poltrone che ad altro. Ciò, però, non è una cosa di oggi.

Quando nacque il secondo governo Conte, tutta la dinamica che ne portò la formazione potrebbe essere letta secondo questa lotta evoluzionistica per la conservazione della specie eletta in parlamento che, da marginalizzata quale era diventata per via dei popcorn di Renzi, poteva riottenere uffici, poltrone ministeriali, nomine di sottogoverno, consulenze e tutto il necessario per vivere e sopravvivere.

All’epoca, però, Zingaretti era contrario a un governo coi grillini per ragioni che è inutile ricordare, ma dovette sottostare a varie pressioni tra cui proprio quella dei gruppi parlamentari. Per questa ragione, in quel passaggio nell’estate del 2019 avrebbe dovuto, coerentemente col profilo che si era impegnato a dare pochi mesi prima al partito, dimettersi da segretario. Sarebbe stata una decisione logica e che avrebbe messo ciascuno di fronte alle proprie responsabilità.

Invece, Zingaretti non solo non si dimise ma trasformò una decisione da lui subita in una sua scelta, rivendicandone paternità e meriti. Preferì cioè mutare il proprio pensiero pur di non perdere la segreteria, mettendo in pratica una sorta di gattopardismo minore.

Con l’aiuto di Goffredo Bettini, esperto in linee politiche tutt’altro che vincenti, trasformò una situazione contingente in qualcosa di necessario, scomodando la storia e il pensiero per fornire improbabili categorie e strategie a una mossa politica dettata solo da convenienze. Il vuoto ideologico-politico-culturale dell’alleanza con il M5s venne rivestito con presunti abiti pregiati e ricami raffinati, ma in realtà sotto il vestito non c’era niente.

Quando venne eletto segretario del Pd, il presidente della regione Lazio si era adoperato a mettere in campo un profilo più di sinistra che svincolasse il partito dal renzismo e lo contrapponesse al populismo sia interno che esterno. Questa linea messa in campo alle Europee del 2019 aveva portato un risultato lusinghiero dopo il fallimento del 2018. Il Pd in un anno aveva guadagnato quattro punti percentuali.

La linea vincente, si sa, non si cambia e invece allora la ghiotta opportunità di riconquistare uffici appena persi e poter disporre di prebende varie prevalse sulla logica politica. L’operazione venne spiegata come il tentativo di costruire un muro per arginare l’ondata sovranista di Salvini. In realtà, però, questa era solo una giustificazione narrativa. I motivi reali, infatti, erano altri e più bassi. Peraltro, se davvero fossero stati realmente questi i motivi, avrebbero sofferto comunque di una miopia politica ovvero quella di ridurre tutta la politica a ruoli elettivi e di governo dimenticandosi invece che essa muove da una realtà sociale ed economica.

La segreteria di Zingaretti è stata comunque molto tortuosa per altre ragioni come il fatto di non poter controllare i gruppi parlamentari (nominati da Renzi), di non essere lui stesso un parlamentare e di avere dentro il partito personaggi palesemente agli ordini di Renzi, cioè del miglior sabotatore del Pd. Ciò, senza dubbio, assieme alla pandemia ha influito sulla sua direzione.

Nel rapporto tra Zingaretti e il partito si riscontra una forma tipica della politica attuale cioè lo strapotere degli eletti negli uffici pubblici a scapito dell’organizzazione e dei corpi intermedi del partito. Oggi nei partiti non conta la base e neanche i dirigenti nazionali: contano solo gli eletti (le poltrone!), cioè chi dispone di risorse economiche e simboliche, indispensabili per aumentare consenso e mantenere la propria posizione. Anche per questo la politica è totalmente sgonfiata da ogni visione di lungo periodo.

Con ogni probabilità le dimissioni di Zingaretti non sono un’uscita di scena. Quel che è certo è che esse sono giunte fuori tempo massimo e nella politica è essenziale saper tenere il tempo.

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