La European Political Community proposta nel maggio scorso da Macron nella sua qualità di presidente di turno dell’UE e varata il 6 ottobre a Praga si presenta otticamente come una estensione (diluita) dell’Unione agli altri paesi europei (ad eccezione di alcuni mini-stati e di Russia e Biolorussia); la riunione inaugurale nel castello di Praga si è svolta in margine a una sessione informale del Consiglio europeo. I 27 capi di governo comunitari, con i presidenti von der Leyen e Michel, sono stati affiancati dai colleghi dei paesi ancora in attesa di diventare membri (balcanici e paesi del c.d. vicinato, tutti ex-sovietici) o che non desiderano far parte dell’Unione, come Norvegia, Svizzera e Regno Unito.
I paesi del primo gruppo, candidati o aspiranti tali, hanno espresso la loro decisa contrarietà a fare della EPC l’embrione di una Unione di seconda classe, con requisiti di ingresso ridotti al minimo; non sono interessati a un contentino per gli esclusi. Del resto non ha le caratteristiche di una organizzazione ma piuttosto quelle di un foro di discussione informale al più alto livello, un po’ come il Commonwealth. Discussione sulle grandi sfide del momento: energia, inflazione, guerra, migrazioni, cambiamento climatico. La priorità di Macron è il coinvolgimento del secondo gruppo: la Norvegia esportatrice di metano, la Turchia con il suo ruolo nelle auspicate trattative russo-ucraine, e soprattutto la Gran Bretagna post-Brexit. La presenza, non scontata, di Liz Truss è stata considerata uno degli aspetti più positivi della riunione a 44.
Se fosse destinata a diventare una organizzazione si porrebbe il problema della duplicazione con il Consiglio d’Europa, che ha praticamente la stessa membership (dato che la Russia non ne fa più parte). Diverso è il caso dell’OSCE, la cui principale ragion d’essere (e oggi causa di paralisi) è il rapporto con la Russia e, secondariamente, con i suoi satelliti centro-asiatici, anch’essi non facenti parte dei 44.
Nel futuro prevedibile la funzione della Comunità Politica Europea sarà dunque solo di offrire un appuntamento semestrale per un incontro e photo opportunity ai leaders europei e per colloqui bilaterali a latere, collegato e analogo al periodico Consiglio europeo informale. Con la significativa differenza che quest’ultimo prelude sempre a un vertice formale in cui si negoziano conclusioni, da elaborare ulteriormente in Consiglio (a livello sia di Ministri che di Rappresentanti permanenti), con lo scopo di arrivare a misure concrete.
Non sarà cioè un ripescaggio dell’idea dei cerchi concentrici, ipotizzata dopo la fine della guerra fredda per offrire un’alternativa pragmatica alla full membership per paesi ancora impegnati nella transizione alla democrazia e all’economia di mercato. Idea respinta dai destinatari perché lesiva del loro amor proprio (e interesse pecuniario). Eppure la formula dell’Europa a due velocità o a orbite concentriche avrebbe teoricamente senso in questa fase che vede paesi (o partiti) tentati dall’esempio della Brexit o del sovranismo alla Orban. Ma essendo politicamente impossibile pregare i membri euroscettici di accomodarsi in anticamera, l’unico modo sarebbe non quello di creare un cerchio esterno, bensì un nucleo più integrato all’interno secondo la logica delle “cooperazioni rafforzate” previste dai Trattati: impegni più ambiziosi entro un gruppo ristretto, con l’opzione per gli altri di raggiungerlo in un secondo momento.
Il problema di questo scenario è che paesi presumibilmente candidati a entrare dall’inizio nel nucleo più avanzato rischiano una deriva verso posizioni politiche euroscettiche. Fra questi anche qualcuno dei sei fondatori. Ricordiamo che due dei sei – Francia e Paesi Bassi – votarono contro il progetto di Costituzione del 2004; recenti elezioni in Italia (e così pure in Svezia) hanno portato al governo forze affini al Fidesz di Orban e al RN di Marine le Pen. Quest’ultima ha perso due elezioni ma potrebbe riprovarci, con migliori prospettive nel caso di un forte logorio della formazione centrista di Macron. La rapida crescita di Fratelli d’Italia ci impone di non escludere a priori l’ipotesi di spostamenti dell’elettorato in Germania e Spagna rispettivamente verso AfD e Vox.
Dobbiamo concludere che progetti di radicale ristrutturazione dell’architettura europea non sono attuabili. L’Europa comunitaria continuerà la sua navigazione difficoltosa con le strutture attuali, appesantita da problemi di corruzione, sovranismo, democrazia “illiberale”, deficit eccessivi in vari paesi membri; e combattuta fra la necessità di non prolungare l’attesa dei paesi desiderosi di entrare e la preoccupazione di non prendere a bordo troppa zavorra con il rischio di fermare la spinta verso l’integrazione, o addirittura arenarsi in logiche di cooperazione inter-governativa.
La Comunità Politica Europea, oltre a offrire uno spazio di discussione sulle grandi sfide comuni che trascendono i confini dell’UE, avrà una valenza simbolica, contribuendo a costruire la consapevolezza di una identità europea (senza Russia e USA). E potrà acquisire una rilevanza più concreta se l’America, sotto un presidente trumpiano (forse lo stesso Donald Trump) tornerà a mettere in dubbio la solidarietà trans-atlantica e la necessità di combattere il riscaldamento del pianeta.
Torna insomma di attualità la nozione di Pan-Europa, proprio nel cinquantenario della morte del suo ideatore, Richard Coudenhove-Kalergi, precursore di tutte le iniziative europeistiche. Il 2022, che alcuni ricordano soprattutto in quanto centenario della marcia su Roma, andrebbe piuttosto ricordato come il centenario dell’appello lanciato dal giovane intellettuale austriaco per una Pan-Europa. Seguì nel 1923 il suo libro dallo stesso titolo e nel 1924 la creazione dell’Unione Pan-Europea, cui aderirono illustri personalità fra cui Albert Einstein, Thomas Mann, Konrad Adenauer.
L’Ode alla Gioia di Beethoven fu adottata come inno dell’Unione Europea nel 1985, accogliendo una proposta presentata trent’anni prima da Richard Coudenhove-Kalergi.
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