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Non è forse senza motivo se Freud, per illustrare l’idea che nella mente coesistono diversi tempi storici, ricorre a una fantasia di contenuto urbano, facendo “l’ipotesi […] che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco”. Se così fosse, scrive, “sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci fu lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa” e “lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita”1. Certo, l’assurdità di questi e altri esempi dello stesso genere gli serve per dire che soltanto nella mente può accadere che “insieme alla più recente fase di sviluppo continuino a sussistere tutte le fasi precedenti” – ma l’efficacia dell’artificio espositivo sta nel fatto che la Roma realmente presente ai nostri sensi, se non raggiunge il risultato, non manca però di andarci assai vicino. In un libro di diversi anni fa, la città è vista appunto come una “macchina del tempo”: un “meccanismo meraviglioso, che consente di immergersi in epoche lontane senza abbandonare la propria città del 2011”2. Esperienza, questa, che del resto era molto cara a Freud, il quale, subito prima della suddetta ipotesi fantastica, indugia volentieri nella descrizione di un’immaginaria ma fattibilissima visita archeologica dell’Urbe.

Ritrovo adesso questo giro di pensieri nel bel libro che Nicolò Savarese ha intitolato allo Spazio pubblico3, e il modo in cui vi è presente mi suggerisce la possibilità di portarlo qualche passo avanti. Che è un modo di esprimergli il mio apprezzamento diverso da una recensione, ma non per questo meno convinto e impegnato.

Mi propongo dunque di lavorare intorno alla “struttura stratigrafica” che Savarese riscontra nell’evoluzione delle realtà insediative – e che subito, però, sul modello di queste ultime, interpreta come un principio di portata affatto generale, leggibile nell’evoluzione dell’intera realtà economica e sociale. Nel modo più compiuto, l’insight trova posto nel capitolo finale del libro, dove è enunciato come segue: “è possibile constatare come ogni determinato assetto socio-economico, insediativo e ideologico, stabilizzatosi per un periodo sufficientemente lungo di tempo, permanga nelle sue manifestazioni essenziali in alcuni strati della società, anche dopo che un altro assetto si sia instaurato in ragione della sua maggiore efficacia ed efficienza produttiva, del maggiore consenso e rappresentatività sociale” (p. 183). Appunto un andamento per sovrapposizioni, piuttosto che per sostituzioni in blocco, che comporta ampi fenomeni di permanenza dell’antico anche quando il quadro complessivo venga a essere segnato da fatti e da rapporti nuovi. D’altra parte, aggiunge Savarese, siamo in presenza di una situazione culturale complessa, perché il fenomeno – ripetiamolo, l’ampia ricorrenza di “processi evolutivi per aggiunta di strati incrementali rispetto agli strati antecedenti” – è ancora in attesa di elaborazioni teoriche formali, al di là di una pur cospicua evidenza empirica e di alcuni sviluppi in campo biologico e neurologico.

Per parte mia, in termini disciplinari, posso aggiungere ben poco alla constatazione di questo stato dell’arte. Piuttosto, proverò a intensificare il tema della stratificazione, e soprattutto a vedere se non sia possibile interpretarlo anche in chiave normativa, oltre che descrittiva.

Un primo passo in questa direzione può essere compiuto a partire dal punto della “maggiore efficacia ed efficienza produttiva” in ragione della quale il nuovo subentra al vecchio. In realtà, non è sempre bene che le soluzioni più efficienti soppiantino quelle che lo sono meno: lo è sempre fino a quando si tratti di problemi definiti in modo univoco all’interno di contesti stabili; non sempre quando si sia in presenza di problemi e di contesti mobili, i cui termini fondamentali possano cambiare in modo imprevedibile. Se il caso è di questo genere, può darsi che soluzioni che al tempo T0appaiono arretrate, meno efficienti, siano destinate a tornar buone al tempo T1, a fronte di mutamenti più o meno drammatici del quadro di riferimento e/o del modo di intendere gli obiettivi da raggiungere. Meglio allora che non spariscano del tutto – certo, con perdite sul piano dell’efficienza, ma con vantaggi rilevanti, potenzialmente decisivi, in termini di capacità adattive. Il risultato è la formazione di un trade off che non conviene cercare di sopprimere, degno di essere tenuto vivo, e quasi coltivato, un po’ come la tensione tra i principi yin e yang della filosofia cinese – a maggior ragione perché, prima o poi, qualsiasi sistema metabolico complesso (categoria che gli insediamenti umani rappresentano in modo eccellente) vivrà un’inevitabile tragedy of change, ovvero la contraddizione di dover cambiare fisionomia, identità, carattere, restando tuttavia se stesso.

Le cose appena dette, compreso il riferimento alla tensione yin-yang, sono prese di peso da un densissimo contributo di Mario Giampietro e Kozo Mayumi4, i quali arricchiscono ancora il quadro interpretativo con l’osservazione che è proprio per via degli aumenti di efficienza intervenuti al tempo T0, in quanto forieri di processi espansivi, che un sistema metabolico giunge sulla soglia di una tragedy of change al tempo T1. Sicché tanto più rapidamente, se assolutizzato, lo yang dell’efficienza produttiva genererà problemi che, da solo, non consentirà di affrontare con qualche speranza di successo.

Nel contributo di Giampietro e Mayumi, tutto ciò rinvia in particolare al tema della ‘sostenibilità’5 – termine, devo dire, che a me sembra compromesso dall’immancabile associazione al porro unum dello “sviluppo”, il cui dominio semantico (ammesso che le intenzioni siano oneste) è restituito molto meglio dalla nozione di planetary boundaries, tra l’altro direttamente riferibile alla chiave interpretativa della tragedy of change. Ma questo, adesso, è meno importante del fatto che le questioni ambientali, comunque, vengono in questione, esemplificate, in particolare, sul caso della produzione agricola. Il progresso tecnologico ha privilegiato le rese per ettaro di un numero molto limitato di colture. Ma tecniche che presto, alla stregua di questo obiettivo, sono risultate obsolete, e in massima parte, infatti, sono state abbandonate, “possono mostrare alti livelli di performance in presenza di un diverso insieme di obiettivi e boundary conditions”, come quello che in effetti, da un certo punto in poi, si è imposto all’attenzione – quando, senza invito, sono entrate in scena questioni di salvaguardia dei suoli, difesa dei paesaggi e dei tessuti rurali, disponibilità di acqua e di energia, protezione della biodiversità, varietà delle diete, ecc.

Un altro esempio – tanto più significativo per la diretta pertinenza alle forme dell’agire sociale, piuttosto che ai suoi contenuti materiali, esterni – può essere tratto da un autore del calibro di Kenneth Arrow6. “L’importanza dei rapporti personali e in special modo familiari, benché in declino, non è affatto banale nelle economie più avanzate: essa si basa su relazioni non di mercato che creano garanzie di un comportamento che altrimenti sarebbe affetto da eccessiva incertezza”. Difficile essere più chiari; perciò mi limito ad aggiungere che sono proprio le relazioni di mercato, con la loro esuberanza, a far sì che l’evoluzione dei bisogni e delle attività, a un certo punto, incontri ambiti materiali nei quali i problemi legati all’incertezza assumono un’intensità che esse si rivelano incapaci di gestire – alla quale risultano più appropriate le relazioni personali, che per fortuna, nel frattempo, non sono scomparse, ma soltanto “declinate”7.

Dunque, più che “residui”, “riserve di possibilità”. Se non sono fuori strada, il tema della stratificazione può trascorrere dalla mera constatazione di “sopravvivenze” a qualcosa di più – all’affermazione di un’idea regolativa, che nel dato fattuale di ciò che sopravvive riconosce un elemento di razionalità, e per conseguenza prescrive di interrogarsi circa il modo nel quale organizzare la coesistenza del nuovo e dell’antecedente, al fine di massimizzare la ricchezza e la vitalità del quadro complessivo.

A ragionare in questo modo, il discorso si avvicina molto al tema della requisite variety – che d’altra parte mi sembra importante sottrarre a un’interpretazione puramente sistemica. In effetti, non si tratta soltanto di quanto una struttura organizzata – insediativa, o di qualsiasi altro genere – sia attrezzata a fronteggiare cambiamenti drammatici, che costringono a ripensare i problemi da affrontare. Si tratta, anche, della ricchezza delle esperienze che ognuno degli attori sociali può vivere – in ogni momento, senza aspettare il tempo T1, per così dire – grazie alla molteplicità delle situazioni, dei contesti, dei tipi di rapporto di cui può essere partecipe. Idealmente, a guardare le cose dal lato positivo, ognuna delle forme di vita che un individuo può sperimentare contempla il darsi di un valore, peculiarmente diverso da quelli contemplati da ognuna delle altre e proprio per questo non “scambiabile”, non sostituibile – ma anche, per lo stesso motivo, specifico, parziale8. Sicché la stessa pluralità delle forme di vita disponibili finisce per assumere il senso proprio di un valore – o meglio di un ideale antropologico, come riflesso della disposizione generica, positivamente de-specializzata, costantemente insatura, nella quale è racchiuso il problematico punto d’onore della soggettività umana.

Un ultimo tentativo di messa a fuoco. Negli anni più recenti, a causa del Covid, abbiamo assistito a uno smisurato aumento degli incontri a distanza, mediati dallo schermo di un computer. Ma proprio la loro possibilità ha portato a evidenza il fatto che tante cose, invece, è necessario o comunque meglio dirsele in presenza, sicché è anche accaduto che con tanta più forza sia emerso il proprium – il pregio, il “bello” – della parola detta vis à visnel tempo e nello spazio reali. O ancora, per restare sul terreno del digitale: quanti più programmi riusciamo a scrivere per i nostri computer, con tanta più forza emergono le ragioni proprie di ciò per cui non riusciamo a scrivere programmi, che non riusciamo a ridurre all’esecuzione di istruzioni univoche, perché invero non è possibile. Sicché, se fossimo più intelligenti, ogni sviluppo del digitale sarebbe al tempo stesso uno sviluppo del non-digitale, del non digitalizzabile.

L’argomento, mi sembra, è di portata generalissima, stando proprio nel cuore di qualsiasi “filosofia della relazione” degna di questo nome. Per suggerirne il senso, propongo il seguente esperimento mentale (o anche reale, si capisce). Prendiamo un foglio colorato di rosso: lo guardiamo, ci fa una certa impressione. Se adesso gli avviciniamo un foglio colorato di blu, o di verde, accadono due cose: non soltanto abbiamo un colore in più, il blu, ma il colore che c’era già, il rosso, non è più quello di prima, non ci fa più la stessa impressione, e in certo modo, si può dire, è diventato più “se stesso” di quanto era prima. La relazione – la “differenza” – lo ha cambiato e, sempre per modo di dire, lo ha cambiato “in bene”. Se si vuole un esempio meno rarefatto, si pensi a quello che accade con l’apprendimento di una nuova lingua, che in effetti non manca di modificare (di arricchire) il rapporto con la lingua madre, portando a coglierne aspetti ai quali, prima, non si faceva caso, e in tal modo a rendersi conto dei suoi tratti distintivi, del suo “carattere”.

Insomma, esistono motivi per i quali la comparsa del nuovo può valorizzare il consueto. Ma il caso delle interazioni a distanza mediate dagli schermi dei computer mostra anche che perlopiù, di default, le cose non vanno in questo modo, perché quello che di fatto si è verificato somiglia piuttosto, in larga misura, a una sorta di rapida assuefazione al nuovo: la stessa “economicità” delle interazioni comunicative da remoto vi iscrive una tendenza a dilagare, esattamente come previsto dal Paradosso di Jevons, spesso con un drammatico effetto di saturazione di tempi e spazi che fino a ieri erano liberi, privati9. Nei primissimi tempi del Covid circolò una bella poesia di Mariangela Gualtieri che iniziava così: “Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti / ch’era troppo furioso / il nostro fare. Stare dentro le cose. / Tutti fuori di noi. / Agitare ogni ora – farla fruttare”. A cinque anni di distanza, dobbiamo constatare che il combinato disposto del Covid e del digitale ci ha infitti tanto più a fondo nel fare furioso che dice Gualtieri, non più rallentato dai tempi, dai ritardi, dai pesi e dagli attriti che lo spostamento dei corpi non riesce a evitare.

Per dire che niente è facile. Making the most delle possibilità emerse e continuamente emergenti dal corso della storia non è cosa che venga da se stessa10. E qui, infine, bisogna dire a chiare lettere che il principio di efficienza – quando sia lasciato operare come criterio di selezione dei problemi da affrontare, piuttosto che messo in opera per affrontarne alcuni – è fatto apposta per ridurre, piuttosto che aumentare, la varietà delle situazioni di cui si è partecipi. Nei fenomeni insediativi, a me pare, considerazioni del genere trovano un terreno di verifica per molti versi privilegiato, forse più probante di qualsiasi altro. La stessa questione dell’equilibro che conviene stabilire tra interazioni da remoto e nello spazio fisico è chiaramente ricca di implicazioni urbane; per non parlare, naturalmente, dei diversi modi di spostamento che nello spazio urbano si possono intrecciare. E dunque uso ancora questi casi per concludere. Leggerli come una faccenda di forme di vita, che appunto si accavallano, mi sembra possa aiutare a coglierne tutta la pregnanza; come pure aiuta a farlo l’approccio semiotico di Savarese, che proprio ai movimenti dei corpi nello spazio fisico riconosce peculiari capacità di significazione, non separabili dall’esperienza urbana e dalla sua ricchezza. Così, infine, se niente è facile, questo insieme di nozioni – stratificazione, varietà delle forme e dei contenuti dell’agire sociale, valore semiotico dei comportamenti – delinea un “programma di ricerca” che comunque mi sembra ricco di potenzialità, non senza effetti sulla stessa intuizione del divenire che alberga nelle nostre menti.

Note

1 S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1971, p. 205.

2 E. Granata e C. Pacchi, La macchina del tempo. Leggere la città europea contemporanea, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2011, p. 17.

3 N. Savarese, Lo spazio pubblico. Dai primi insediamenti umani alle città del futuro, Gruppo Albatros Il Filo, 2023.

4 M. Giampietro and K. Mayumi, The Jevons Paradox: The Evolution of Complex Adaptive Systems and the Challenge for Scientific Analysis, in J. M. Polimeni, K. Mayumi, M. Giampietro and B. Alcott, The Jevons Paradox and the Myth of Resource Efficiency Improvements, Earthscan UK and USA, 2008, p. 121 e ss.

5 Le pagine citate s’intitolano appunto The yin–yang tension between efficiency and adaptability: Implications for sustainability.

6 La distinzione tra le forme e i contenuti materiali dell’agire sociale discende direttamente dal pensiero di Marx. In essa, a me pare, va ravvisato uno dei contributi più originali e fecondi di tutta la sua opera, cosa che qui segnalo anche perché credo il quadro interpretativo riassunto dalla figura contenuta a p. 185 del libro di Savarese potrebbe servirsene con vantaggio.

7 La citazione è tratta da K. J. Arrow, Incertezza e l’economia del benessere dell’assistenza medica, in Id., Equilibrio, incertezza, scelta sociale, il Mulino, 1987, p. 207. Gli ambiti materiali nei quali i problemi di incertezza si configurano in modo da chiamare in causa le relazioni familiari coincidono con parti importanti delle attività di cura e di quelle educative; più genericamente, le relazioni personali hanno un raggio d’azione abbastanza esteso da costituire un profilo rilevante di moltissime attività di servizio.

8 Con riferimento alla distinzione di cui alla nota 1, la nozione di “forma di vita” si trova all’incrocio tra i due ordini di determinazioni, materiali e formali.

9 Il Paradosso di Jevons fu formulato a metà del XIX secolo con riguardo alla macchina a vapore e al consumo di carbone, ma in effetti riguarda gli effetti di qualsiasi innovazione che consenta di impiegare in modo più efficiente (in quantità minori per unità di prodotto) una generica risorsa X. Così facendo, il progresso tecnologico rende convenienti – o proprio possibili – impieghi della risorsa in questione che prima erano esclusi o proprio inconcepibili, e però fa sì sì che il suo consumo totale tenda ad aumentare: per unità di prodotto se ne consuma di meno, ma ne complesso se ne consuma di più, e soprattutto, se ne consuma di più nel complesso proprio perché per unità di prodotto se ne consuma meno. Il libro di M. Giampietro e K. Mayumi citato a nota 4 contiene una ricchissima illustrazione di tutto questo giro di problemi.

10 L’espressione make the most rinvia a una bella metafora proposta da Ronald Dworkin, che riformulo con parole mie. Qualcuno trova un testo incompiuto – i primi capitoli di un romanzo – e si propone di aggiungervi altre pagine, che portino avanti la storia già narrata. Nel farlo, gode di tutta la liberà che può desiderare: può restare fedele alla linea di svolgimento già tracciata, ma può anche immaginare svolte, colpi di scena; può far morire personaggi già presenti e farne comparire altri; può anche immaginare mutamenti drammatici dell’intero contesto nel quale si muovono gli attori. L’unica cosa che non può fare è prescindere dalle vicende già raccontate. E da questo “vincolo”, però, può anche ricavare un criterio di bontà delle nuove pagine che si appresta a scrivere, nelle quali – se è un bravo autore – si proporrà di “far rendere al meglio” (questo significa make the most)l’intera trama narrativa contenuta in quelle che ha trovato.

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