L’appuntamento è al solito posto e alla solita ora, gli stessi in cui quasi tutti i sabati dall’ottobre del 2023 a oggi una fitta rete di Palestinesi in Italia e di associazioni solidali con la causa palestinese si è data appuntamento per cortei partecipati tutte le volte da migliaia di persone. Stavolta però al posto di quelle realtà ci sono i tre partiti dell’opposizione (gli altri due che non si capisce se e quando sono opposizione si erano dati appuntamento a un teatro il giorno prima a Milano con parole d’ordine sottoscrivibili anche dai partiti di governo). E i partecipanti non sono migliaia ma molti di più, mentre il percorso è molto più breve: da Piazza Vittorio a Piazza San Giovanni in Laterano. Per i non romani: meno di un chilometro in linea retta e pianeggiante.
Un percorso breve scelto per far apparire più imponente il corteo? Per disturbare meno una città già sovraccarica di manifestazioni sportive, turismo insostenibile e lavori per i turisti? Difficile capirlo, ma quando la testa era già nella piazza di arrivo, la coda aveva appena lasciato la piazza di partenza. Un corteo visto dai soli abitanti e commercianti di via Emanuele Filiberto. Gli organizzatori hanno urlato dal palco la presenza di “oltre 300.000 manifestanti”. Probabilmente siamo tra i 50.000 e i 100.000. Comunque numeri importanti in una manifestazione alquanto fuori dal consueto.
Il corteo appare come formato da due enormi corpi. Il primo composto da attivisti e simpatizzanti dei partiti promotori, pieno di bandiere di partito – moltissime quelle del Movimento 5 Stelle e di AVS, abbastanza e più arretrate quelle del PD e dei Giovani Dem – e con qualche bandiera palestinese e della pace. Uno spezzone molto silenzioso, zero canti, pochi slogan, tra i quali, significativamente, “basta armi a Israele” e “basta armi italiane”.
Il secondo troncone, forse un po’ più numeroso del primo e aperto da un lunghissimo bandierone palestinese circondato da bandiere di Rifondazione Comunista, è un lungo e indistinto fiume di persone con altre bandiere palestinesi, cartelli ironici sul ritardo con cui la sinistra istituzionale ha indetto la manifestazione, striscioni di tante realtà locali. È uno spezzone rumoroso con molti slogan e canti. Palestina Libera – Free Palestine risuona più di tutti. Ma molti sono contro il Governo, contro la UE, contro il riarmo, contro la guerra. Sembra uno spezzone di pacifisti sciolti, senza organizzazioni, senza centri sociali, senza sindacati di base o studenti medi e universitari organizzati, senza corpi intermedi in genere. Forse sono animatori di queste realtà, ma sono venuti senza sigle. Spesso sono reduci di altri movimenti pacifisti contro altre guerre, da Iraq 1990 a Iraq 2003, qualcuno forse perfino Vietnam. Sembrano infatti veramente pochi i giovanissimi che invece erano la gran parte dei cortei ProPal dei tanti sabati precedenti a questo. E questo è problematico. Così come mancano del tutto, e questo è ancora più problematico, i palestinesi italiani o che in Italia vivono da anni e anni e che hanno riempito le manifestazioni precedenti insieme agli studenti.
La fitta rete di realtà sociali, socio-politiche e studentesche che per quasi due anni e quasi ogni sabato hanno protestato animato con manifestazioni e iniziative contro lo sterminio di Gaza, chiamandolo da subito genocidio, è percorsa da divisioni fortissime. Divisioni che in parte ricalcano quelle interne al fronte di resistenza palestinese, in parte quelle storiche delle sinistre extraparlamentari italiane. Divisioni che si sovrappongono e si intersecano.
Questo fronte molto ricco e attivo avrebbe potuto costituire un terzo spezzone del corteo, magari molto critico con i partiti che lo hanno indetto, coi loro ritardi, con le compatibilità ricercate in maniera estenuante davanti a una situazione intollerabile. Ma le divisioni non gli hanno permesso di fare massa critica e di rivendicare la continuità di una mobilitazione durata 21 mesi mentre il PD restava in colpevole silenzio. Si è preferita l’assenza da una manifestazione istituzionale che chiede sanzioni e lo stop di armi a Israele e il riconoscimento dello Stato di Palestina.
L’immaturità litigiosa e politicante di questa sinistra critica, radicale e molto attiva sul territorio è un primo dato di riflessione.
Il secondo riguarda i partiti. I quali portano l’enorme responsabilità di essere spesso vettori di passivizzazione, ma quando trovano il coraggio di affrontare tematiche forti mostrano di avere ancora una buona capacità di mobilitazione, diretta e indiretta. Diretta nel senso che riescono a convocare in piazza un buon numero dei loro militanti ed elettori in piazza, indiretta – e più interessante – nel senso che riescono a mobilitare moltissime persone (il secondo troncone) non legate alle loro sigle. Persone arrivate senza pullman organizzati, spontaneamente, sentendo la manifestazione come una pratica di cittadinanza democratica. Come se avessero finalmente percepito uno sdoganamento della questione palestinese, o una ufficialità della manifestazione, un suo carattere pubblicamente politico. Segno che c’è una gran parte d’Italia pronta a mobilitarsi per cause giuste, come si è visto anche nei due giorni successivi di referendum. In tre giorni decine di milioni di persone hanno detto che vogliono un mondo diverso, un’Italia diversa, un lavoro diverso, una vita diversa.
Gli interventi dal palco di Piazza San Giovanni sono stati molto chiari e privi di ambiguità. Significativa la presenza di Palestinesi attivi (almeno sul palco qualcuno ce n’era) come Rula Jebreal, Yusef Salman, Abubaker Abed e Abu Saif, e quella di un israeliano diciottenne renitente alla leva. Le loro parole non fanno sconti a nessuno, né alla storica politica coloniale e suprematista israeliana, né alle complicità delle democrazie occidentali.
Durissimi i presidenti dell’ARCI e delle ACLI, che ricordano come la manifestazione indetta dal centrosinistra sia stata possibile anche grazie alle mobilitazioni dei mesi precedenti, e soprattutto che deve rilanciare mobilitazioni successive a partire da quella del 21 giugno a Roma contro guerre e riarmo. Più scontati gli interventi dei segretari di partito (a parte forse una sincera commozione di Bonelli) che comunque tengono il punto. Schlein al contrario degli altri non pronuncia mai la parola genocidio, ma è ferma sul riconoscimento della Palestina e sulle sanzioni a Israele. Conte è forse il più netto e rivendica che il suo partito/movimento non ha avuto reticenze fin da primo momento.
Chi scrive ha trovato un piccolo capolavoro umano e politico l’intervento di Gad Lerner. Dalla piazza qualcuno lo contesta, gli dice vai a casa ma lui risponde che a casa non ci è andato mai e continua a parlare. Shoah e Nakba non devono essere contrapposte e reciprocamente negate, dice, devono essere il trauma comune che riaffratella. Non abbiamo altro destino possibile che vivere insieme, continua, chi non vuole questo in Israele è un pericolo per Israele. Poi si rivolge alle comunità ebraiche italiane incapaci di senso critico e di tolleranza del pluralismo di opinioni.
La manifestazione del 7 giugno, il referendum senza quorum ma comunque partecipato e politicamente significativo, la precedente manifestazione dei 5 stelle per la pace sembrano disegnare, o almeno abbozzare, un centrosinistra (forse questo nome non descrive più la cosa) molto diverso dal passato: pacifista, non acriticamente atlantista ma multilateralista, più alla ricerca dell’elettore disperso che dell’elettore mediano, attento più alle diseguaglianze che ai mercati finanziari.
Nei periodi più bui occorre saper vedere ogni piccola fiaccola di brace e soffiarci sopra.
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