Interventi

Articolo pubblicato su “Strisciarossa” il 17.03.2021

Il problema del Pd lo ha esplicitato con chiarezza lo stesso Letta. Non si tratta di una questione riconducibile solo a un segretario ma di un nodo più corposo chiamato partito. Di segretari al Nazareno ne sono passati tanti. In appena 13 anni ben otto personalità hanno ricoperto la carica monocratica. Degli ex segretari solo Franceschini (che ha fatto il cerimoniere di tutte le maggioranze e quindi si è barcamenato tra il vecchio e il nuovo equilibrio traendo sempre un vantaggio da ogni cambio della guardia) ha continuato ad esercitare un ruolo centrale. Gli altri, se non si ritrovano nella condizione dei fuoriusciti, sono del tutto ai margini.

Cimitero di segretari

Questo cimitero di segretari che si ostina a definirsi partito cambia sempre il leader perché il governo è la sua meta fondativa ed è destinato a dileguarsi chi è da ostacolo alla conquista. La preoccupazione del vincere ha però annichilito ogni altra funzione che pure caratterizza un partito. Il guaio per il Pd è che il mito del successo ad ogni costo si è tramutato in una sistematica battuta d’arresto. In questo microesercito di segretari nessuno si è mai conquistato i galloni con una affermazione autentica alle urne. Bersani è andato più vicino di tutti all’impresa ma la sua “non vittoria” rimane come l’evento traumatico che ha incrinato il fragile partito.

Trafitto dal fuoco grillino, dalle “inchieste” del Fatto a due giorni dal voto, Bersani è anche il primo sostenitore di quell’incontro strategico con i grillini che, in una sorta di sindrome di Stoccolma, ha perseguito sino all’estremo e ha svuotato di senso la segreteria di Zingaretti che ha incassato una sconfitta su nodi strategici non semplicemente tattici. Il rischio della dissoluzione di un partito dalla costituzione ambigua, e incapace di resistere con una apprezzabile autonomia al mito di Conte l’innovatore e artefice di un grande riformismo redistributore, ha indotto i resti del Pd alla prova di sopravvivenza con il ritorno in servizio permanente di Letta.

L’abilità tattica, propria di una professionalità politica superiore a quella di Zingaretti e Bettini, sembra acquisita. Il fatto è che essa non può bastare, anche perché un tentativo di prosciugare i grillini adottandone le ragioni ispiratrici (antipolitica) lo fece per primo proprio Letta che nel suo esordio come presidente del consiglio coltivò la seduzione della politica a costo zero con la cancellazione del finanziamento pubblico dei partiti. Proprio questa declinazione della funzione politica come un “costo” di mercato da contenere lo ha indotto più di recente al sostegno convinto al referendum di revisione costituzionale sull’abbattimento del numero dei parlamentari.

Lo spirito dell’Ulivo

Con una maggiore accortezza Letta propone il tema delle alleanze. Il suo sforzo di una coalizione da Renzi a Grillo è più semplice da formulare a parole che declinare in maniera politica reale. La pozione magica per rimuovere ogni macigno sembra individuata in un ritorno allo spirito originario dell’Ulivo. E però questa buona intenzione si scontra con un contesto storico mutato, con attori del tutto diversi, con una funzione federatrice di forze eterogenee che il Pd può rivendicare solo in astratto, essendo le sue armi reali piuttosto spuntate.

Se il collante di una ritrovata alleanza è rappresentato dalla legge maggioritaria (Letta ha evocato la formula Mattarella, visto che Salvini farà le barricate contro ogni velleità di introduzione del sistema proporzionale alla tedesca), il terreno pare piuttosto friabile. Il bipolarismo disegnato essenzialmente su costrizione elettorale, e cioè con il ritrovato del maggioritario di coalizione, è un unicum in Europa che falsifica le competizioni. Con alleanze insincere, nate solo per le esigenze contingenti di acquisire il seggio nei singoli collegi, si è svolta tutta la fase della seconda repubblica e non si è trattato certo di un momento di consolidamento democratico.

Se, come Letta stesso asserisce, il problema è il partito (non il generico male del correntismo o il vizio di autocandidature a sindaco) allora dovrebbe costruirne uno con gli ingredienti che sempre sono stati indispensabili per l’impresa: una identità, una coalizione sociale, una organizzazione. Sono condizioni semplici, addirittura elementari che, dallo scioglimento del Pci, nessuno ha mai preso sul serio come obiettivi non rinviabili, anzi ineludibili. La nomina di due vicesegretari così eterogenei come Giuseppe Provenzano e Irene Tinagli e una segreteria scelta con il bilancino delle correnti, conferma però la strutturale ambiguità dei democratici, che sono una coalizione, non un partito identitario.

2 commenti a “Le tre sfide obbligate di Letta il “ricostruttore”. Ma il Pd è riformabile?”

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