Se il Presidente di Assemblea ha ancora la funzione, come scriveva Gianni Ferrara, di “rappresentare la rappresentanza” parlamentare, le scelte compiute dal primo Parlamento “a formato ridotto” esprimono simbolicamente non solo lo stato di assoluta asfissia del parlamentarismo italiano, ma soprattutto la sua postura sessista e omofobica quale cifra identitaria di ogni postfascismo: quel che resta della rappresentanza ruggisce contro coloro che sono già state/i espulse/i dal circuito rappresentativo, come donne e soggetti LGBTQ.
Aver costretto il popolo italiano ad andare a votare con una legge del tutto incomprensibile ai più, se non per i suoi effetti perversi sul rapporto tra voto e seggi ottenuti in Parlamento, ha demoralizzato ulteriormente un elettorato che capisce quanto il proprio voto non sia affatto utile, se non del tutto inutile: se hai la fortuna di vedere il tuo voto trasformato in un seggio, non sai chi siederà in tua rappresentanza e, soprattutto, se e cosa potrà fare in una “decidente” democrazia dove le minoranze sono bandite dal dibattito pubblico e parlamentare.
Non è certamente un caso che siano le donne e i giovani, soprattutto al Sud, a sentirsi del tutto irrilevanti al punto che il 36% degli aventi diritto si è astenuto: un elettore su tre non ha votato, meno di un’elettrice su tre si è recata alle urne. Chi prova a sminuire il dato della non-affluenza, magari pensando alla partecipazione al voto del solo 39% dei cittadini nelle recenti elezioni in Bulgaria, soffre di un’inguaribile visione elitista e formalista della democrazia che considera l’eguaglianza un vezzo per anime belle.
Guardando invece alle “scelte” (più che pilotate dalla legge elettorale e dai capi di partito) dei restanti due terzi dell’elettorato, queste sono state del tutto deformate da un sistema truffaldino che consente alla coalizione trainata da Fratelli d’Italia con il 44% dei voti di occupare quasi il 60 e il 58% delle due Camere (237 su 400 seggi alla Camera e 115 su 200 al Senato).
Lo sfregio all’eguaglianza del voto è palese ed è ulteriormente aggravato dalla composizione di genere delle Camere: è la prima volta negli ultimi vent’anni che la presenza di donne in Parlamento è diminuita, passando dal 35 al 31% dei seggi a fronte della loro maggioranza nella popolazione.
In questo scenario le Camere – con un ingiustificabile contributo delle minoranze che evidentemente non credono nella necessità democratica di essere e fare opposizione – hanno eletto come loro presidenti due uomini con un passato e un presente che anticipa l’indirizzo politico della Legislatura appena cominciata: se l’elezione di un postfascista dichiaratamente nostalgico come Ignazio La Russa è una controffensiva chiara a quel che resta dell’antifascismo come valore costituzionale, quella di Lorenzo Fontana è uno schiaffo alla rivendicazione di una piena autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQ, soprattutto se straniere.
Fontana, fedelissimo di Salvini, è già stato ministro della Famiglia del governo Conte I, di cui diede il patrocinio per il XIII Congresso mondiale delle Famiglie che si tenne nella leghista Verona nel marzo 2019: si tratta di un movimento globale antiabortista, antifemminista e anti-LGBTQI che ha portato in Italia la destra radicale, cristiana e integralista di tutto il mondo. Di questo movimento politico sono parte integrante la Lega, presente a Verona con l’allora ministro degli Interni e vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, il citato ministro Fontana, quello dell’Istruzione Marco Bussetti, il senatore della Lega Simone Pillon (famoso per il suo ddl contro le donne che osano separarsi), il presidente della Regione Veneto Luca Zaia e il sindaco di Verona Federico Sboarina. Accanto a loro c’era ovviamente Giorgia Meloni che è, sin dalla sua fondazione, a capo di Fratelli d’Italia.
Se il patriarcato è purtroppo alla base di ogni struttura di potere e civiltà, resta imprescindibile per ogni visione autoritativa, gerarchica della convivenza: uniti dal loro odio verso il movimento femminista e la liberazione sessuale, contro gli studi di genere e l’immigrazione, prendono di mira le due conferenze ONU sui diritti delle donne (Cairo nel 1994 e Pechino nel 1995) e rivendicano, invece, la totale aderenza a rigidi ruoli di genere binari, in cui gli uomini sono i capi della famiglia naturale e le donne le loro ancelle nonché fattrici dei “loro” figli. Finché non riusciranno ad abrogare il divorzio, tenteranno di togliere i figli alle madri che dovessero attentare all’unità familiare chiedendo la separazione (Pillon docet).
Sia chiaro che questa visione è trainata da entrambi i poli del bipolarismo mondiale, che ci si ostina a voler perpetrare; l’idea di fondare una ONG su un’idea di “famiglia” ostile all’aborto, al divorzio e all’omosessualità nasce negli anni Novanta dall’incontro tra l’americano Alan Carlson e il russo Anatoli Antonov. A quasi trent’anni di distanza se negli Usa, in nome della tradizione, la Corte Suprema ha travolto e de-costituzionalizzato il diritto all’accesso all’aborto mentre ribadiva il principio inviolabile a portare un’arma a proprio piacimento, Putin, per festeggiare l’annessione di parte dell’Ucraina, non aveva di meglio se non tuonare contro la fantomatica “ideologia gender”, neologismo che esprime profonda ostilità per qualunque prospettiva di genere.
Non bisogna sottovalutare la forza simbolica, sociale, economica ma anche politica di questa controffensiva alla soggettività piena delle donne e delle persone non conformi perché, almeno nella destra italiana, questa fa gioco sulla crisi epocale della sinistra, incapace di combinare davvero i diritti civili con quelli sociali e politici. Il mortifero abbraccio della sinistra europea con il neoliberalismo neutralizza la dimensione sociale dei percorsi di autonomia personale, nega la pari dignità sociale nelle scelte di libertà, rende classista ed elitario il compito della Repubblica di favorire il pieno sviluppo della persona e l’effettiva partecipazione di chiunque alla vita economica, sociale e politica del paese.
Questa visione che rivendica a sé la lotta per le condizioni socioeconomiche di pari dignità che consentano a chiunque di esercitare autonomia, di sviluppare la propria personalità e la propria partecipazione alla convivenza ha animato nel 2019 l’enorme manifestazione di Verona promossa da Non Una di Meno che, con l’altra bella manifestazione del 28 settembre 2022, ha inaugurato l’opposizione all’andata al potere delle forze reazionare.
La speranza che la rappresentanza si accorga di dover rappresentare questo punto di vista possiamo coltivarla, cominciando ad attrezzarci per evitare che, oltre ai presidenti di Assemblea più ostili che mai a queste piazze, si arrivi a dover commentare un Presidente della Repubblica eletto direttamente da un popolo ridotto a meno della metà della popolazione contro tutto il resto.
Tra il simbolico e il materiale il passo è troppo breve per restare a guardare.
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