L’America è tornata ed è tornata anche fisicamente, con la visita del presidente Biden in Europa segnata da un’agenda molto chiara.

Un calendario fittissimo: riunione G7, incontro con Boris Johnson, per sottolineare la relazione privilegiata con il Regno unito, incontro a Bruxelles con i vertici UE, riunione NATO, incontro con Erdogan ed infine con Putin. Un timing non casuale.

Obiettivi : il contenimento della Russia e, soprattutto della Cina, rafforzando le relazioni transatlantiche e il ruolo della NATO.

I primi orientamenti del G7 sui vaccini sono stati assolutamente deludenti, nonostante le dichiarazioni di Biden ed il voto del Parlamento europeo, per ben due volte, in favore della sospensione dei brevetti, è stata promessa la concessione di un miliardo di dosi ai Paesi più poveri, quando ne servirebbero almeno 11. Grave anche che la Commissione europea non abbia tenuto in conto il voto del Parlamento e abbia scoraggiato la stessa posizione degli USA.

Sulle relazioni con la Cina, l’Unione europea, o parte di essa, non appare così disponibile a una guerra commerciale anche se il presidente Biden sembra disposto a rivedere la politica di dazi inasprita da Trump. Ciò nonostante, è bene ricordare che lo scambio europeo con la Cina supera quello con gli Stati uniti.

Ma Biden ha annunciato anche un piano per contrastare gli interessi cinesi nel mondo per cercare di rimontare i colossali investimenti della “via della seta”.

Veniamo all’Europa, che è l’argomento principale di questo mio intervento.

Il 9 maggio, nel giorno dell’Europa, a 71 anni dalla dichiarazione di Schuman che diede il via alla costruzione europea, è stata lanciata ufficialmente dai tre presidenti (Consiglio, Parlamento e Commissione) la “conferenza” sul futuro dell’Europa, meglio dire dell’Unione europea.

Questo processo dovrebbe compiersi entro il 2022 e, oltre al ruolo delle istituzioni europee e nazionali vede una partecipazione dei cittadini europei e delle diverse associazioni, in una sorta di grande inchiesta, tramite una piattaforma.

Da parte sua, il movimento federalista europeo, cerca di cogliere l’occasione della Conferenza per spingere il Parlamento europeo, in accordo con i parlamenti nazionali, ad assumere un “potere costituente” riferendosi a quel processo che nel 1984 portò Altiero Spinelli, membro dell’allora Parlamento, a far approvare un progetto di Costituzione con il più il fatto che oggi il Parlamento, a differenza del 1984, ha il potere di avanzare proposte di modifica dei Trattati.

Ad oggi, le modalità di svolgimento della Conferenza e le stesse posizioni dei governi e della Commissione europea, a tutto fanno pensare meno che alla possibilità di innescare un processo costituzionale europeo.

L’avvio della Conferenza denota, in ogni caso, una insoddisfazione sull’attuale situazione e questo perché, a mio parere, sempre più, sia all’interno dell’Europa, che nel mondo, nessuno più si chiede cosa pensino e facciano l’Italia, la Francia, la Germania, meno che mai la Slovenia e la Lettonia, ma tutti si chiedono: cosa fa l’Europa?

La risposta spesso è imbarazzante anche se, rispetto al metro di misura interno, qualche progresso è stato compiuto, nelle emergenza determinata dalla pandemia e dalle sue conseguenze.

Sicuramente rispetto alla crisi finanziaria del 2008, le risposte sono state diverse.

La stessa vicenda insoddisfacente del reperimento dei vaccini da parte della Commissione europea, ha evitato una odiosa concorrenza interna ed ha potuto anche dedicare ai Pesi più poveri una quota parte che altrimenti sarebbe stata affidata alla discrezione di ciascuno e, sicuramente, ancor meno significativa.

Per la prima volta il bilancio europeo è stato utilizzato per prestiti finalizzati al sostegno di misure di sviluppo economico, sociale e di raggiungimento di standard ambientali comuni, derivanti da accordi internazionali.

La Banca centrale europea si delinea sempre più come “prestatore di ultima istanza”.

Il modo emergenziale con cui queste politiche sono state definite, non è detto che annunci un cambiamento rispetto alla dottrina di Maastricht, tant’è vero che il patto di stabilità è stato soltanto sospeso, rimane da vedere come e in che misura questa ristrutturazione capitalistica conviverà con l’impianto ordo-liberalista dell’Unione europea.

Rimangono, in ogni caso, vere e proprie voragini nella politica sociale e fiscale.

Il Consiglio europeo informale di Porto, del 7 maggio scorso, dedicato al “pilastro sociale” non ha dato alcuna indicazione circa la direzione che si vuole intraprendere; le decisioni, se ci saranno, si prenderanno a fine giugno.

Anche sulle “questioni fiscali” è dagli Stati uniti che sono venute proposte sulla possibilità di una tassazione globale, seppur minima, per le imprese multinazionali, posizione adottata alla riunione dei ministri delle finanze del G7 a Londra e che dovrebbe essere confermata a Venezia nella riunione del G20 a presidenza italiana.

Anche su questa minima misura, del tutto insoddisfacente, si sono levate voci contrarie da parte di alcuni Stati dell’Ue.

D’altra parte, quella del dumping fiscale all’interno dell’Unione è un problema che colpevolmente ci trasciniamo con una distorsione evidente che si riflette nello stesso mercato interno.

Il risultato è stato in tutti questi anni una “concorrenza”, parola feticcio, basata sulla slealtà.

Per i Paesi dell’area euro ad economia più debole tutto questo ha voluto dire passare dalla “svalutazione” monetaria alla “svalutazione” dei salari e del lavoro, con un costo pagato soprattutto da donne e giovani.

Veder svanire, una dopo l’altra, conquiste sociali costruite in più generazioni fin dall’Ottocento nel continente che ha inventato lo “Stato sociale” è stato durissimo ed a ciò ha contribuito l’infatuazione “liberista” della sinistra.

La conseguenza sono i dati sconvolgenti che segnalano la crisi della sinistra in tutta Europa e il fatto che essa è sempre meno un punto di riferimento, anche elettorale, delle classi subalterne.

In una ristrutturazione capitalistica e tecnologica “globale” non è chiaro neanche in che direzione l’Europa voglia andare.

Gli investimenti e i progetti del Next generation Europe, a parte il raggiungimento di alcuni standard ambientali comuni su cui non mancano divergenze, non delineano una strategia europea, ad esempio nel campo della ricerca e della stessa politica industriale, ogni Paese fa per sé con una frammentazione che difficilmente ci potrà mettere, neanche lontanamente, al livello delle innovazioni che si produrranno in Cina o negli Stati uniti.

Altri, meglio di me, approfondiranno questi argomenti.

Il contributo che mi sento di dare riguarda le relazioni dell’Europa con il mondo esterno, a cominciare da quello più vicino.

Nella scomposizione del Medio Oriente iniziata con le due guerre del Golfo e in Afghanistan, continuata con la crisi siriana, la guerra in Libia e in Yemen, la stabilizzazione autoritaria dell’Egitto, l’involuzione democratica della Turchia e infine la guerra in Palestina, che ruolo ha avuto ed ha l’Europa?

Si tratta di un’area a noi contigua che Romano Prodi, quando era presidente della Commissione europea, aveva definito ottimisticamente “una cerchia di amici”.

Oggi potremmo dire che siamo nell’inferno e, in più, non sembra abbiamo un’idea di come venirne fuori.

Il primo guaio è che mentre “dall’esterno”, ci vedono come Europa, all’interno siamo una accozzaglia di Paesi che, se possono, si sgambettano a vicenda nelle proprie aree di influenza, o meglio di ex-influenza, come dimostra il novo protagonismo francese in Libia e nel Mediterraneo orientale.

In secondo luogo, l’Europa godeva agli occhi del mondo, penso in particolare al mondo arabo, di un certo rispetto e di un prestigio in quanto percepita come spazio in cui la democrazia, il rispetto dei diritti umani, le libertà, lo Stato di diritto erano riconosciuti e praticati.

Oggi tutto questo non esiste più; a minarlo sono stati: la partecipazione alle guerre, a cominciare da quella dei Balcani; l’invenzione di prove inesistenti per colpire l’Iraq e poi l’intervento in Libia; i comportamenti illegali utilizzati nella repressione del terrorismo (ricordiamo il caso Abu Omar?); il modo in cui ci comportiamo rispetto al fenomeno migratorio e, non da ultimo, le involuzioni democratiche di alcun Paesi membri che sono paragonabili a quelle che rimproveriamo ad autocrati e dittatori a noi vicini.

Segnalo, a questo proposito, un importante relazione di Vladimiro Zagrebelsky, tenutasi alla Fondazione Basso, in cui esamina i fondamenti giuridici relativi alle libertà e allo Stato di diritto nel Trattato di Lisbona e nella Carta dei diritti fondamentali, anche rispetto alle costituzioni nazionali e al Regolamento europeo sulla condizionalità degli interventi economici dell’Unione. Di quest’ultimo ci siamo occupati anche noi con un articolo pubblicato nella newsletter del CRS del 21 dicembre 2020.

L’intervento di Zagrebelsky è pubblicato online da “Giustizia Insieme”, e si conclude con questa laconica considerazione: “i principi dello Stato di diritto, invece che terreno e condizione della reciproca fiducia tra gli Stati membri, stanno diventando materia di scontro e di disgregazione”.

La tragica vicenda della Palestina di questi giorni, a parte il dramma in sé, induce a un collegamento con altre situazioni,altrettanto drammatiche, che denunciano tutta l‘impotenza europea accompagnata ad una buona dose di “cinismo”.

Palestina, Sahara occidentale, questione curda.

In passato, soprattutto negli anni ’70, fino alla fine degli anni ’90, esse erano questioni ex coloniali, o addirittura, come quella curda (risalente alla scomposizione dell’Impero ottomano), questioni ancora aperte che, con il ruolo fondamentale dell’Onu, avrebbero dovuto essere risolte nel rispetto dei diritti umani e dei popoli.

Ebbene oggi sembra che i conti si vogliano chiudere facendo soccombere senza alcuno scrupolo le parti più deboli.

In tutte e tre i casi c’è stato lo zampino di Trump, alcune di esse sono legate agli accordi di Abramo, che la presidenza Biden pare non voglia rimettere in discussione.

In Siria, dopo che i curdi sono stati decisivi nella sconfitta dell’Isis, il ritiro delle truppe statunitensi deciso da Trump, li ha lasciati in balia delle ritorsioni cruente di Erdogan e di Assad, nell’indifferenza totale.

“Amo i curdi, ma loro non ci hanno aiutati nella seconda guerra mondiale”, queste le ridicole parole di Trump mentre si rimangiava le promesse di protezione.

In Turchia, la repressione del partito filo curdo (HDP) continua con arresti dei suoi rappresentanti e l’Alta corte ha avviato la procedura per metterlo fuori legge, con l’accusa di connivenza con il (PKK).

L’HDP aveva ottenuto il 13% alle ultime elezioni e 55 seggi.

Il suo leader Selahattin Demirtas, è in carcere, in attesa di giudizio dal 2016.

La Turchia, nel Medio Oriente e nel Mediterraneo orientale ha assunto un ruolo sempre maggiore.

La sua presenza in Libia, insieme a quella russa, sembra tutt’altro che contingente: nel conflitto israelo-palestinese ha preso posizione e sembra la più interessata a mantenere aperta la situazione in tutta l’area e, soprattutto in Iraq, dove esiste un governo che cerca, con grande difficoltà, di stabilizzare il paese. Con campi profughi dell’Isis in cui sono presenti persone provenienti dall’Europa, di cui nessuno vuole occuparsi, a cominciare dall’Unione europea, per capire chi potrebbe essere reintegrato e chi deve rispondere di reati penali. Tutto ciò è grave anche perché ne va della nostra stessa sicurezza.

Non dimentichiamo, infine, che la Turchia fa parte della NATO e questa appartenenza non è in discussione anche perché la sua collocazione e ancor più il suo ruolo accresciuto, la rende un partner insostituibile nell’area del mediterraneo orientale anche verso la nuova strategia NATO che guarda al 2030.

Più che al sogno imperiale che alcuni osservatori le attribuiscono, essa può sperare di attuare quel progetto emerso tra la fine dell’Impero ottomano e l’inizio dell’era Ataturk nel 1920, e cioè quello di veder allargati i suoi confini al nord della Siria e al Kurdistan iracheno.

In Palestina, il consenso all’annessione illegale di Gerusalemme est con il riconoscimento di Gerusalemme capitale dello Stato ebraico, ed il relativo trasferimento dell’ambasciata da Tel Aviv, ha incoraggiato gli episodi scatenanti della crisi attuale che, bisogna sempre ricordare, hanno avuto inizio a Gerusalemme, con l’esercito israeliano che ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa e lo sfratto dei palestinesi dalle case nel quartiere di Sheikh Jarrah sempre a Gerusalemme.

La parola Palestina è uscita anche dal lessico di molta stampa sostituita dal conflitto Israele-Hamas.

Non sappiamo ancora se la formazione del nuovo governo in Israele abbia chiuso per sempre l’era Netanyahu, tuttavia, l’eterogeneità della coalizione e la sua precarietà numerica non fa sperare in grandi cambiamenti.

Infine il Sahara occidentale, questione irrisolta della colonizzazione spagnola, sembrava dover trovare soluzione negli anni ’90 con un referendum del popolo saharawi, sull’autodeterminazione, sotto l’egida dell’Onu.

Quel progetto è naufragato a causa dei continui rinvii dovuti alla identificazione della popolazione che avrebbe dovuto avere diritto al voto e per le divisioni tutte interne all’Europa.

Il Marocco, nel frattempo, ha colonizzato l’intera area, saccheggiandone le ingenti risorse e facendo accomodare al banchetto anche una piccola minoranza saharawi, mentre il grosso della popolazione, scacciata nel 1976 con la forza dagli eserciti mauritano e marocchino, vive ancora in campi profughi nel deserto algerino.

Anche lì il Marocco ha eretto un muro di 2700 Km, in pieno deserto per difendersi dagli attacchi del Fronte Polisario.

Si tratta del muro più lungo al mondo, più della muraglia cinese, con piccole guarnigioni lungo il percorso e con un campo minato che lo costeggia, anch’esso il più lungo al mondo, dove sono state disseminate più di 6.000 mine antiuomo.

Negli accordi di Abramo, voluti da Trump, il Marocco in cambio del riconoscimento di Israele avrebbe avuto dagli Stati uniti la promessa del riconoscimento della sovranità sul Sahara occidentale.

Le Nazioni unite non hanno condiviso questo atto, unilaterale e illegale, in ogni caso, il “veto” degli USA all’Onu è in grado di neutralizzare qualsiasi iniziativa del Consiglio di sicurezza.

I tragici fatti di Ceuta e Melilla fanno capire come il Marocco mandi segnali inequivocabili alla Spagna usando la disperazione delle persone come arma di ricatto.

La risposta del governo spagnolo non è stata meno brutale.

La sensazione che proprio in questa nostra epoca si stiano liquidando questioni ereditate dal colonialismo europeo, o dalla seconda guerra mondiale, nel peggiore dei modi possibili cioè senza alcuna mediazione che tenga conto del diritto, ma con la liquidazione dei soggetti più deboli.

La ferocia e l’indifferenza sembrano prevalere.

La crisi delle Istituzioni multilaterali è più che evidente, a cominciare dall’Onu e dalle sue agenzie.

L’Unione europea ha anche subito umiliazioni cocenti in questi ultimi mesi, come quando Vladimir Putin ha espulso dal Paese diplomatici europei mentre l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Borrel era in visita a Mosca, o quando si è consumata quella che è andata sotto il nome della “crisi del divano”, crisi tutta interna all’Unione, che Erdogan ha saputo spettacolarizzare ed utilizzare.

Non ho il tempo di parlare qui dell’Afghanistan ma spero che una guerra durata 20 anni e che, se possibile, ha peggiorato le condizioni di vita della popolazione, soprattutto delle donne, possa servire almeno per una riflessione sull’inutilità della guerra.

L’Unione europea non ha una politica estera e gli Stati non vogliono che la abbia, così continuiamo a mettere toppe qua e là senza alcuna “dottrina” o strategia comprensibile, tutto questo si riflette nella stessa politica di sicurezza di cui potremmo disporre se solo lo volessimo.

Finanziamo al posto degli israeliani, potenza occupante, l’Autorità nazionale palestinese ma non abbiamo alcuna voce in capitolo.

Finanziamo la Turchia di Erdogan, perché trattenga i profughi siriani.

Finanziamo la Libia e la sua guardia costiera, perché rimpatri al nostro posto i richiedenti asilo.

Con la Tunisia stiamo facendo la stessa cosa ancor più colpevolmente.

La Tunisia è l’unico Paese arabo che dopo la cacciata del presidente-dittatore, aveva intrapreso un percorso democratico sostenuto dalla società civile.

Ricordo il Nobel per la Pace nel 2015, attribuito al Quartetto tunisino composto: dal sindacato, dall’associazione degli imprenditori, dall’associazione per i diritti umani e dall’ordine degli avvocati.

Tutti loro si erano opposti al regime e costituivano la speranza di una Tunisia democratica.

La Tunisia, tuttavia, vive da tempo una crisi economica, in passato concentrata nelle aree interne. Il simbolo fu Sidi Bouzid, la piccola città di Mohamed Bouazizi il ragazzo che si diede fuoco dando il via alle rivolte arabe.

Oggi, a causa del COVID, anche le aree costiere e turistiche sono travolte dalla crisi, con tassi di disoccupazione, soprattutto giovanili, insostenibili.

La Tunisia ha il doppio degli abitanti della Sicilia.

Un’Europa non miope avrebbe sostenuto la sua ripresa e, invece, i soldi che investiamo servono per lo più al contenimento dell’immigrazione.

Questi sono i frutti amari di una politica di immigrazione che ciascun paese, già dagli anni ’90, ha voluto gestire da sé, lucrando su consensi elettorali legati alla gestione di questa politica che fatalmente si intreccia con la politica estera producendo un fallimento su ambo i fronti.

In più, la libertà di circolazione nell’Unione rende diffusa la pratica del respingimento dei migranti alle frontiere interne, in un cinico gioco di rimpallo di vite umane anche tra di noi.

A che condizione si può entrare “legalmente” in Europa?

A che condizione si può ottenere la “cittadinanza europea”?

A queste domanda non esistono ancora risposte, ossia, la risposta è: alla condizione stabilita da ciascuno Stato membro.

Neanche gli impegni per un politica comune di asilo previsti già dal 1999 (Consiglio europeo di Tampere) e ripresi dal Trattato di Lisbona, sono stati rispettati.

È dal 4 maggio del 2016 che il Consiglio deve rinnovare gli accordi di Dublino III sull’immigrazione e asilo.

Il Parlamento europeo ha avanzato le sue proposte che solo in parte sono state tenute in conto dalla Commissione europea nel documento formulato nel 2020.

Le sollecitazioni del Presidente Draghi al Consiglio del 24-25 maggio, sono state respinte al mittente e rinviate al Consiglio europeo di fine giugno prossimo.

Nel frattempo, l’agenzia Frontex si distingue per essere accusata di violazione dei diritti umani.

Insomma, in cinque anni, l’ Unione non è stata in grado di affrontare uno dei problemi più drammatici del nostro tempo, mentre si assiste ogni giorno al dramma di chi mette in gioco la vita per attraversare mare e frontiere.

È documentato che nel 2020 sono stati ben 11.000 i respingimenti “illegali”, lo stesso numero è stato raggiunto a metà del 2021.

La decisione unilaterale della Danimarca di negoziare bilateralmente accordi con paesi terzi per tenere i richiedenti asilo lontani dalle frontiere europee ha aggiunto un tassello a questo quadro disastroso di disunione.

Se questa analisi impietosa non si discosta dalla realtà, è evidente la debolezza europea nel collocarsi nel mondo che verrà.

Crisi o declino?

Anche qui la risposta non è semplice , il Cambiamento nell’amministrazione Americana, sicuramente riavvicina l’Europa agli Stati Uniti, anche perché il Presidente Biden ha dato segni di voler tornare nelle sedi del multilateralismo, a cominciare dall’Oms, agli accordi di Parigi sul clima, fino al tavolo negoziale con l’Iran, dove sembrerebbe possibile un accordo anche prima delle prossime elezioni iraniane.

L’Alto rappresentante europeo per la politica estera e di sicurezza è completamente scomparso dalla scena, sebbene immagino si affanni tra telefonate a mezzo mondo e riunioni interne, almeno per capire a nome di chi deve parlare.

Nel frattempo sta cercando di delineare una strategia a lungo termine nei confronti della Russia con cui le relazioni sono a un vero punto critico.

Il Presidente Draghi ha posto “europeismo e atlantismo” come stelle polari della politica Italiana, ha parlato di dialogo con la Federazione Russa, ha, di contro, tacciato di essere un dittatore Erdogan, presidente di un Paese che è ancora candidato all’adesione; non sappiamo come definisce il presidente egiziano al-Sisi, in questo momento particolarmente in auge, ricevuto all’Eliseo con tutti gli onori, ancor più celebrato, dopo la tregua dei combattimenti a Gaza.

Non provare neanche a darsi una fisionomia autonoma nel mondo ed essere al traino del protagonismo americano, per l’Europa, vuol dire non far tesoro dell’esperienza più recente simbolicamente rappresentata dalla drammatiche immagini di Capitol Hill e cioè, che anche negli Usa, come già avvenuto, possono esserci cambiamenti radicali, capaci di sovvertire gli stessi codici del classico atlantismo.

Questo quadro rimanda l’immagine di un’Europa debole e divisa, con paesi importanti come la Germania e la Francia alle prese con scadenze elettorali imminenti.

Anche per questi motivi, temo, che la situazione descritta non avrà breve durata.

Questo è lo scotto da pagare per non avere costruito istituzioni sovranazionali autonome, democratiche, autorevoli e legittime.

Il “funzionalismo” di Jean Monnet prevedeva che l’Europa sarebbe stata il frutto delle sue crisi.

I fatti ci dicono piuttosto che l’Europa, non potendosi ancora definire come “soggetto politico” nei campi fondamentali che ho citato, perde sempre più di ruolo in una realtà che sta cambiando molto più velocemente di quanto non siano le sue capacità di reazione.

Eppure un’altra Europa servirebbe subito!

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