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I discorsi del 21 febbraio di Putin e Biden sono l’ennesima dimostrazione della fine dell’autonomia dell’Unione europea. Nelle parole di Putin non vi è stato alcun accenno alle posizioni di Macron e di gran parte dei politici tedeschi sulla tragedia della guerra. Vi era solo disprezzo per un “Occidente” servo della NATO e della Casa Bianca. Grave errore, perché Putin avrebbe potuto operare un distinguo necessario per imbarazzare Biden e chi gli soffia nelle orecchie che cosa deve dire e pensare.

Noi europei abbiamo bisogno di poter rendere esplicita la nostra avversione per una guerra sempre più simile a quella scoppiata nel 1870 tra Francia e Germania, per motivi di politica di potenza e per un lembo di terra che le divideva. E così il 25 novembre 2022, il gran capo della NATO Stoltenberg si è lasciato sfuggire che nel 2008 l’Ucraina andava portata nella sponda NATO così come deciso per la Polonia, i Paesi baltici e il resto dell’ex ‘cortile Urss’. Una decisione che in pochi anni ha avuto un impatto decisivo nello stravolgere gli equilibri dell’Unione europea. La nostra ambizione di essere autonomi e anzi di fare da arbitri tra le due potenze nucleari è stata vanificata dall’orientamento “senza se e senza ma” degli ex Paesi del Patto di Varsavia verso la potenza americana e atlantica.

Le loro motivazioni, storicamente note, vanno contro i nostri interessi, contro la nostra ipotesi di sperimentare su suolo europeo l’indipendenza politica nonché economica.

Aver accettato le “ire funeste” est-europee è stata la prova di quanto fossimo ancora incapaci di autonomia, vittime di ideologie del passato. Quando Putin ha invaso l’Ucraina, che vede come la periferia della Russia, non solo i servizi segreti del mondo intero ma anche semplici studiosi di relazioni internazionali, oltre ai grandi nomi dei mass media, erano a conoscenza che almeno dal 2008 l’Ucraina aveva aperto le porte a chiunque la mettesse in condizione di realizzare la sua scelta. E cioè di sbattere le porte in faccia all’ex Urss.

La scelta in questione ha radici antiche e nel passato vi erano già state occasioni per compierla. Come durante la seconda guerra mondiale, quando Bandera (a cui è stata recentemente eretta una statua) mise insieme migliaia di ucraini perché combattessero contro l’esercito russo; oppure come recentemente accaduto a piazza Maidan. Ed è una scelta che non è stata scalfita da tutto quello che gli ultimi tre segretari generali del Pcus, tutti e tre ucraini, hanno dato alla loro terra d’origine, rendendola industriale, tecnologicamente all’avanguardia e persino sede di impianti nucleari, quasi per far dimenticare al paese le tragedie della collettivizzazione.

La scelta si è infine concretizzata con la dissoluzione dell’Urss ed è divenuta un vero distacco solo quando Janukovich, l’ultimo dirigente ancora legato al Cremlino, è stato cacciato e sostituito da politici decisi a cambiare sponda.

È impossibile al momento venire a sapere quale è stata la scintilla che ha fatto esplodere la guerra, che ha due obiettivi.

L’obiettivo più rilevante ha a che vedere con la politica di potenza e le relazioni tra la Russia e gli Stati Uniti, e sta nel gioco primordiale di scontrarsi, una volta con la clava, oggi ciascuno con il proprio apparato strategico-militare, e di riuscire a far cadere l’avversario. Lo si sta giocando dal 1917, solo che il precedente scontro ideologico è stato sostituito da quello tra libertà e dispotismo. Come per la Francia e la Germania dell’Ottocento.

Il secondo obiettivo fa tornare alla memoria il bombardamento di Dresda a guerra ormai vinta: distruzioni tremende che colpiscono case e industrie che risalgono all’epoca sovietica, come se i russi si sentissero il diritto di farlo giacché “noi te li abbiamo date e noi possiamo ridurle in macerie”.

Ma in questa tragedia urgono alcune considerazioni. Perché i vecchi paesi europei non si fanno sentire, non prendono alcuna iniziativa rivolgendosi direttamente a quella parte di mondo fuori dal conflitto? Un conflitto che riguarda uomini in uniforme e civili non in grado di scappare ma la cui mala sorte va ripartita tra la Russia “offesa e vendicativa”, Biden che vuole vincere le prossime elezioni – come si è lasciato sfuggire ieri nel discorso a Varsavia – e infine il presidente in maglietta verde, cui dare al più presto l’Oscar con la speranza che torni al suo mestiere. Magari potrebbe compiere proprio lui un passo decisivo per sottrarre alla Russia e agli USA il campo di battaglia per commissione del suo paese, chiedendo aiuto ai governi dell’Unione europea disposti ad arbitrare.

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