I Verdi europei hanno fin da subito fatta propria senza scarti la posizione assunta dall’Ue di forte sostegno all’Ucraina e netta ostilità alla Russia, nel campo sia economico che militare, individuando nella cesura dei rapporti col gigante euroasiatico un’opportunità per corroborare i valori occidentali e per accelerare la transizione verso le fonti rinnovabili. Per avere un quadro più preciso della loro visione su una possibile soluzione del conflitto e sulle prospettive future dell’Europa abbiamo intervistato Daniel Cohn-Bendit, protagonista del Maggio francese, che dei Verdi è un padre nobile e una voce autorevole.

I paesi europei hanno risposto in maniera abbastanza coordinata all’invasione russa, nonostante le differenti sensibilità, in particolare tra Stati centro-occidentali e nord-orientali. Come si può giudicare l’azione europea nel suo complesso e su quali aspetti vede delle criticità?

L’azione dei paesi europei è pienamente condivisibile, ma tardiva e ancora insufficiente. Nessuno, esclusi britannici e statunitensi, credevano nell’invasione russa dell’Ucraina. Gli USA hanno fornito con largo anticipo armi e addestramento all’esercito ucraino, e ciò gli ha permesso di resistere al primo assalto. Se anche il supporto europeo fosse arrivato prima, ora, ad esempio, la situazione nel Donbass sarebbe sicuramente diversa.

Questo ritardo dipende in buona parte dalla visione che avevano i paesi europei, con in testa la Germania, della Federazione russa: un paese autoritario o persino dittatoriale, ma con cui fosse comunque conveniente fare affari, in particolare in campo energetico, convinti che questo sarebbe servito a contenerne le mire espansionistiche. La vicenda ucraina ci ha dimostrato che non era vero.

Ora quello che dobbiamo fare, anche per rimediare ai nostri errori passati, è dare all’Ucraina la possibilità di difendere Odessa. Il cuore dell’Ucraina è Kiev, ma il suo polmone economico è Odessa. Questo vuol dire che si potrà arrivare a una negoziazione diplomatica solo dopo che, viste le annose difficoltà nella battaglia del Donbass, Putin avrà capito di non poter prendere Mykolaiv e Odessa. Solo così l’Ucraina potrà sedere al tavolo dei colloqui con una posizione di forza. Il negoziato sarà poi davvero efficace solo se il riarmo dell’Ucraina sarà talmente forte da dissuadere Putin circa un’altra futura possibile invasione.

In sostanza l’Ucraina deve uscirne come un paese capace di sopravvivere da solo, e senza queste due condizioni, il mantenimento di Odessa e il rafforzamento militare, ciò non sarà possibile.

Inoltre, se si dovesse verificare lo scenario sopra descritto, si minerebbe alla base il progetto neoimperialista di Putin, ispirato all’opera di Pietro Il Grande. Il suo più grande terrore è che accanto alla Russia si sviluppi un modello di vita alternativo, più libero e democratico, capace di attrarre, e quindi disgregare, la società che lui controlla. Un po’ come accaduto con Berlino Est e Berlino Ovest.

In ogni caso, dobbiamo sempre tener presente che, realisticamente, qualunque esito del negoziato rischia di lasciare sotto controllo russo, quindi sotto un sistema di potere praticamente totalitario, aree in cui vivono persone che non vogliono sottostare a quel controllo. Pertanto, non se ne può certo parlare a cuor leggero.

La drammatica contingenza della guerra ha messo in evidenza l’enorme problema dell’indipendenza energetica europea, in particolare per alcuni paesi come Germania e Italia. Al contempo però sembra calata un’ombra sull’aurorale processo di transizione energetica, che ora sembra addirittura invertirsi attraverso il ritorno all’uso del carbone e la sostituzione del gas russo con uno ancora più inquinante, il GNL. Queste scelte sono inevitabili, poiché dettate dall’emergenza, oppure rappresentano un’occasione sprecata per far accelerare il passaggio alle fonti di energia rinnovabili?

Siamo in una corsa contro il tempo per affrontare la crisi climatica. L’uso del carbone è una soluzione solo temporanea che deve durare il meno possibile. Noi dovremmo moltiplicare per dieci, fin da ora, gli investimenti in energie rinnovabili, rendendo l’Europa nel minor tempo possibile realmente indipendente non solo dalla Russia, ma anche da qualunque altra dittatura che controlla le risorse fossili, come l’Arabia Saudita.

Un altro effetto della guerra è stato l’avvio di una corsa al riarmo, che ha coinvolto in particolare la Germania, paese guida dell’Ue. Che cosa significa per l’Europa? Ed è un passo che avvia concretamente alla costruzione di una difesa europea comune?

Oggi tutti i paesi dell’Est e del Nord Europa temono seriamente future incursioni russe. Il punto è che al momento l’unico linguaggio che capisce Putin è quello dei rapporti di forza. Il fatto che l’Ucraina non faccia parte della NATO ne ha favorito l’invasione. Eppure col Memorandum di Budapest del 1994 l’Ucraina, dietro consegna delle sue 1.900 testate nucleari alla Russia, ai fini dello smaltimento, aveva ottenuto l’assicurazione da parte di USA, Russia, Regno Unito, e poi Cina e Francia, circa la sua sicurezza, indipendenza e integrità territoriale.

La nuova militarizzazione della NATO è una risposta alle azioni di Putin, che serve a dirgli: basta, il gioco è finito.

Per quanto riguarda la costruzione di una difesa comune europea, ritengo sia indispensabile, perché, vista l’evoluzione della società statunitense, se domani gli USA tornassero ad assumere la posizione isolazionista dei tempi di Trump, l’Europa non potrebbe più contare sul loro aiuto e dovrebbe badare da sola alla propria sicurezza. Ovviamente la Germania, in quanto paese economicamente più avanzato, dovrà occuparsi di guidare questo processo, ma non potrà farlo da sola, non ne ha la statura politica, e dovrà dunque avvalersi della collaborazione della Francia, in primis, e dell’Italia, sempre che al potere non dovesse tornare il populismo gialloverde. Al terzetto d’avanguardia dovrà, ovviamente, accompagnarsi la mobilitazione degli altri paesi, in particolare quelli nordici. La Danimarca, ad esempio, si è già detta favorevole a questa evoluzione, e abbiamo già assistito ai passi avanti di Svezia e Finlandia su tale versante.

A ciò si aggiunge, infine, la necessità di stabilire una collaborazione con la Gran Bretagna, al di là dei problemi insorti con la Brexit, anche perché è l’unico altra potenza nucleare dell’area assieme alla Francia.

E come vede il rapporto con la Turchia, anche considerate le ultime vicende?

La Turchia nella NATO è un risultato sui generis della Guerra fredda. Oggi essa rappresenta all’interno dell’Alleanza atlantica contemporaneamente una risorsa necessaria e un grande problema. Ritengo che prima o poi sarà inevitabilmente marginalizzata.

Per quanto riguardo le ultime vicende, invece, bisognerà attendere per vedere quali saranno i reali effetti politici del memorandum firmato da Svezia e Finlandia per sbloccare il veto turco al loro ingresso nella NATO.

Ma l’Europa ha anche un’altra questione aperta con la Turchia, e riguarda il ruolo affidatole nel gestire i flussi migratori. Questo è un punto debole decisivo dell’Ue, che è incapace di mettere in atto una politica inclusiva dell’immigrazione e si affida totalmente al blocco esercitato da Turchia e Grecia, paese con un Governo reazionario che agisce frequentemente fuori dal diritto.

I paesi europei non paiono però interessati a fare dei passi avanti su tali questioni, né tantomeno verso una maggiore integrazione politica attraverso la trasformazione delle istituzione eurounitarie. Non a caso, durante l’ultimo Consiglio europeo si è rinviato a data da destinarsi il processo di revisione del Trattato di Lisbona. Lei, che è stato uno dei principali promotori, assieme a Guy Verhofstadt e Andrew Duff, del Gruppo Spinelli, crede che una reale federalizzazione politico-economica dell’Ue sia realizzabile in un prossimo futuro? E se sì, coinvolgerà tutti gli Stati membri o solo alcuni di essi?

Penso che con l’ingresso dell’Ucraina nell’Ue termina un ciclo del processo d’integrazione europea. Vuol dire che la futura unione politica europea avrà pochi punti di coesione generale: difesa, forse energia e poco più. All’interno di essa, un gruppo ristretto di paesi dovrà invece impegnarsi a creare tra loro una federazione maggiormente integrata, anche economicamente. Questo processo dovrebbe essere innescato dai sei paesi fondatori, e portare anche a varare una costituzione europea. Gli Spinelli di oggi sono coloro che pensano a questa dualità delle istituzioni europee: una federazione ristretta e integrata di paesi dotati di una costituzione, da un lato; una unione politica più larga ma meno integrata, dall’altro.

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