Se si ha la pazienza di leggere l’Agenda strategica che il Consiglio europeo ha varato il 27 e 28 giugno scorsi, nella stessa riunione in cui ha definito gli incarichi apicali, si è colti da un senso di straniamento a causa della distanza tra quel racconto e la realtà.
A tutto ciò contribuisce anche l’uso delle parole scelte dal Gotha della diplomazia dei Governi al fine di edulcorare il presente e, ancor più le scelte future, le quali risultano in perfetta continuità con gli indirizzi assunti dalla Commissione uscente e, forse, tra qualche mese rientrante.
Purtroppo la realtà emersa anche dal voto è tutt’altro che rosea e denuncia una gigantesca questione sociale che ormai tocca anche Paesi quali Francia e Germania, che si ritenevano al riparo dalle crisi. Al contrario le politiche finora messe in atto, anche come conseguenza delle guerre, producono malesseri profondi e suscitano paure che la destra riesce storicamente a interpretare anche per l’assenza di alternative credibili. Tutto ciò sfugge a chi sembra assillato soprattutto dalle crisi finanziarie e non dalle ricadute sociali delle stesse.
Si è molto discusso del fatto che il Consiglio a maggioranza abbia escluso la presidente Meloni, nella sua doppia veste di capo partito e capo del Governo, dalle decisioni sulle nomine ma nessuno, soprattutto a sinistra, ha avuto l’onestà di ammettere che, a parte alcuni dossier che hanno riguardato l’ambiente, molta della legislazione europea, a cominciare dal pacchetto immigrazione, si è giovata del pieno concorso delle destre. D’altra parte, la legislatura iniziata nel 2019 vide come uno dei primi atti del Parlamento europeo l’approvazione a larghissima maggioranza di una risoluzione che indeboliva la condanna del nazismo e del fascismo, inglobandoli nella più generale categoria dei totalitarismi; una specie di biglietto da visita delle destre cui è seguita una offensiva politica e culturale che non ha trovato sufficienti argini. Per questi motivi la discriminante posta dai socialisti nei confronti delle destre risulta quanto mai tardiva e, purtroppo, scarsamente supportata da conflitti veri su questioni essenziali per la vita dei ceti più deboli, mentre tutte le attività speculative o di rendita hanno continuato a raccogliere i frutti offerti dal mercato e della concorrenza, quest’ultima esercitata anche comprimendo i diritti dei lavoratori e i loro mezzi di sussistenza.
Quanto alla procedura delle nomine, dopo il voto del Consiglio, la parola passa al Parlamento europeo. Contemporaneamente il Presidente Viktor Orbán dal primo luglio ha inaugurato il Semestre di presidenza ungherese mentre il suo Paese è sottoposto a infrazione proprio per violazione dello Stato di diritto, primo dei punti dell’Agenda del Consiglio, e la Francia si appresta a svolgere un drammatico secondo turno elettorale.
A questo proposito colpisce il comportamento dei francesi in confronto al clima che portò nel settembre 2022 alla vittoria di Giorgia Meloni in Italia.
Ancora una volta il nostro Paese sembra preda di differenti inclinazioni: da una parte si dimostra anticipatore di tendenze che in seguito trovano sviluppi in altri contesti; dall’altra sembra vivere questi passaggi senza particolari drammatizzazioni con uno spirito pronto all’autoassoluzione come fu per il fascismo, il colonialismo, il populismo.
Non sappiamo se il Fronte popolare e la desistenza al secondo turno, come auspicabile, riuscirà a fermare o almeno a impedire l’ottenimento della maggioranza assoluta da parte del Rassemblement National di Le Pen e Bardella, certo è che lo spirito è molto diverso dalle elezioni politiche che in Italia hanno consentito alla Meloni e al centro-destra una vittoria che nello sport si definirebbe “a tavolino”.
Tornando al Parlamento europeo, quest’ultimo, nella sessione convocata dal 16 al 19 luglio, dovrà votare a maggioranza assoluta e con voto segreto la proposta del Consiglio di rinnovare l’incarico di Presidente della Commissione alla signora von der Leyen, oltre che eleggere la propria Presidente (la maltese Roberta Metsola) e i 14 Vicepresidenti.
A questo fine, entro il 4 luglio dovrà essere completata la formazione dei gruppi politici che sembra annunciare novità nel campo delle destre con la costituzione di un ulteriore gruppo sovranista promosso dal primo ministro ungherese, dall’austriaco Herbert Kickl (FPO) e dall’ex primo ministro ceco Babis, quest’ultimo fuoriuscito da Renew Europe. Ciò potrebbe ridisegnare la mappa delle destre europee.
Il passaggio parlamentare è tutt’altro che scontato per la candidata von der Leyen. Infatti, in questa prospettiva, parte delle destre potrebbero rientrare in gioco al fine di assicurare una rete di protezione alla Presidente in pectore e, tra questi, ci sono i 24 eletti nella lista di Fratelli d’Italia, anche in nome della buona relazione già sperimentata tra le due leader. Ciò, come è evidente, non riguarderà esclusivamente i posti di potere ma finirà per condizionare, come già avvenuto, le stesse politiche della futura Commissione.
È proprio sulla futura Commissione, ancor più che negli equilibri politici del Parlamento, che lo spostamento a destra appare ancor più vistoso. Rispetto al 2019, infatti, da una simulazione pubblicata da Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo italiano, circa l’appartenenza politica dei Commissari risulterebbe che: il Partito popolare europeo potrebbe esprimere 14 commissari rispetto ai 9 del 2019; la sinistra socialdemocratica 4 rispetto ai 9; i conservatori 5 invece di 2 e, infine, i liberali 2 invece di 6; ciò senza tener conto dei futuri equilibri di governo in Belgio, Francia e Olanda.
Ancor più che nel Parlamento gli equilibri ruotano attorno al PPE, da qui le pressioni delle destre affinché quest’ultimo abbandoni l’alleanza con i socialisti, pressione che continuerà anche in vista delle scadenze elettorali prossime, a cominciare da quelle previste in settembre in importanti Länder dell’est della Germania, in cui si annuncia una vittoria dell’AfD con l’impossibilità di costituire governi che lo escludano.
Per ciò che riguarda la composizione della Commissione, come è noto, sono i Governi nazionali a indicare i nomi dei futuri Commissari, uno per ciascun Paese, mentre il Parlamento Europeo avrà il compito di sottoporli ad audizioni nelle commissioni parlamentari di competenza.
Anche questo passaggio è tutt’altro che scontato infatti, in passato, più volte il Parlamento ha bocciato proposte di candidature come fu il caso nel 2004 dell’on. Rocco Buttiglione e più recentemente nel 2019 di ben tre candidati: Rovana Plumb, rumena, Lazlo Trocsanyi, ungherese, e Sylvie Goulard, francese, candidati rispettivamente ai Trasporti, Allargamento e Mercato Interno.
Tutto ciò avverrà alla ripresa di settembre, per arrivare poi alla sessione parlamentare del 16-19 dicembre, in cui il Parlamento, a maggioranza semplice, voterà l’intera Commissione.
Tornando all’Agenda strategica, i cui pilastri sono: un’ Europa libera e democratica; forte e sicura; prospera e competitiva. Eliminando la magniloquenza e la retorica, ciò vuol dire che si consoliderà l’asse con l’Ucraina anche attraverso la nomina della ex premier estone Kaya Kallas come Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza, con l’accelerazione del suo processo di adesione, che, comunque, risulta lungo nei tempi e complesso nei progressi, infine con l’accordo di sicurezza decennale stipulato tra Ue e Ucraina. L’Ue continuerà a finanziare il tutto con lo strumento European Peace Facility e con gli interessi dei beni sequestrati alla Russia. Nessun accenno a proposte che tentino di fermare la guerra, così come appare evidente il disimpegno sul fronte mediorientale.
Per quanto riguarda la sicurezza, essa vuol dire aumento delle spese militari in un rapporto complementare con la NATO, e con una propensione alla costruzione di un sistema industriale europeo.
Quanto alla competitività, perfino il piano Draghi, con tutti i suoi rischi autocratici, sembra al di là degli orizzonti di governi che non vedono al di là dei propri confini.
Gli elementi regressivi del processo di integrazione politica continentale appaiono evidenti e il tratto intergovernativo prevale sempre più rispetto alla dimensione comunitaria.
Lo stesso Parlamento europeo, che in passato è stato uno dei motori del processo di integrazione appare piegato al potere dei governi tanto da mettere in discussione la stessa coesione interna ai gruppi politici; per non parlare dei partiti incapaci di andare al di là di una sommatoria di compagini nazionali.
Conseguenza di ciò è che la questione della riforma delle istituzioni europee e la loro democratizzazione sia stata completamente accantonata.
Nell’agenda del Consiglio, pure in previsione dell’ulteriore grande allargamento ai Balcani occidentali, alla Moldavia, alla Georgia e all’Ucraina, è scomparsa qualsiasi velleità di riforma dei Trattati meno che mai di dotare l’Unione di una vera e propria Costituzione.
Da parte sua, il Parlamento, nella legislatura appena conclusa, si era cimentato con un tentativo di riforma dei Trattati vigenti, pronunciandosi in favore di una Convenzione.
Il Consiglio nella sua Agenda strategica ignora completamente questa proposta e pare propendere per la richiesta alla Commissione aggiustamenti che non comportino modifiche dei Trattati.
Siamo entrati in un meccanismo infernale che alimenta la campagna delle destre la quale si giova sia del meccanismo intergovernativo che sottrae controllo democratico e parlamentare, sia della mancanza di democrazia e trasparenza che serve a delegittimare l’Unione.
In queste condizioni qualsiasi progresso è impensabile e il rischio di regressione è già fra noi.
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