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Emersa dall’oblio in cui era precipitata dopo l’esecuzione di Bin Laden, Kabul è stata al centro dell’attenzione mondiale per un paio di settimane. Già dopo un mese, però, sembra scivolare nell’ordinaria cronaca dei disastri del mondo globalizzato, ma non ancora globale.

Probabilmente l’Afghanistan tornerà presto a essere un problema da addetti ai lavori anche se l’Assembla generale delle Nazioni unite, per la prima volta in presenza dopo la pandemia, ha dato grande rilievo all’emergenza umanitaria nel paese e alla situazione delle donne.

La crisi afghana che il ventennale dell’11 settembre, la capitolazione delle forze Usa e Nato di fronte ai Talebani e le immagini dell’aeroporto Karzai, hanno spettacolarizzato in tutta la sua umana tragicità, ci sta dando severe lezioni.

La prima è che, dopo l’espandersi del sovranismo populista, la pandemia deve fare i conti con i profondi cambiamenti in atto nello scenario mondiale.

La vicenda della distribuzione dei vaccini del Covid-19 ne è un sintomo allarmante, così come lo sono le quattro paginette degli Accordi di Doha siglati, con bisesta ironia, il 29 Febbraio 2020, tra l’ amministrazione Trump e l’Emirato islamico dell’Afghanistan non riconosciuto dagli Stati Uniti come Stato e conosciuto come i Talebani.

La filosofia che ha sostenuto il ritiro americano è stata quella dell’abbandono di un’occupazione ormai improduttiva. Non una parola sull’impegno a mantenere un minimo standard di vita per donne e uomini afghani, solo l’interesse a tener fuori le formazioni terroriste dagli Usa.

Un cinismo “autistico”, quasi peggiore dell’occupazione militare.

Non sono state da meno le posizioni di molti paesi occidentali, attente a tener lontane le ondate di profughi afghani dai loro territori, oppure quelle dell’alleanza euroasiatica. La Shangai Cooperation Organization che riunisce Cina, Kirghizistan, Kazakistan, India, Iran, Pakistan, Russia, Tagikistan e Uzbekistan, chiede alla Nato di pagare i costi della guerra afghana, ma nulla dice sulle prospettive del paese o sulle attuali condizioni della popolazione.

Il loro silenzio misura tutta la complessità del nostro tempo, così come la minaccia di una nuova guerra fredda nell’Indo-Pacifico che, al di là delle dichiarazioni ufficiali di Biden sul “ricostruire meglio” e di Xi Jinping sulla “crescita armoniosa”, l’alleanza tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, l’Aukus sembra avanzare come proposta per un nuovo ordine internazionale.

Una mossa geopolitica che con una sorta di illusionismo mediatico sta riuscendo a contenere i guasti di immagine provocati dal cruento ritiro americano e a far calare il silenzio sulle vite sconvolte dal ritorno di un regime senza futuro.

L’emirato talebano è palesemente incapace di nutrire, educare o gestire le emergenze come la siccità, sa solo dominare con la paura, dispensare editti, divieti e morte. Si presenta come il polo estremo di quel “padroni a casa nostra” che echeggia nelle piazze mondiali da troppi anni per organizzare lo scontento dei globalizzati. Forse per questo ha molti amici, più o meno manifesti.

Non a caso, il nuovo governo ha chiesto di nominare un rappresentante alle Nazioni unite dove l’Afghanistan resta uno Stato riconosciuto che aderisce al sistema dei diritti umani e alla Cedaw, la convenzione contro le discriminazioni delle donne. Quasi una beffa che mostra l’impotenza di un sistema multilaterale ormai superato e consunto che nessuno vuole riformare.

Cina, Stati Uniti e le altre grandi e medie potenze, invece di impegnarsi a fermare la devastazione del pianeta, l’espansione delle varianti pandemiche e le sofferenze delle guerre, si preparano a costruire alleanze strategiche per resuscitare equilibri di deterrenza. Questa volta, tuttavia, non si confrontano idee alternative di mondo e manca la volontà di intaccare il motore oscuro che rende invivibili le vite. L’effetto complessivo è di continuare a nutrire il mito liberale dell’espansione tecno-finanziaria e della competizione di mercato come unico futuro possibile per l’umanità.

Eppure, in questo scenario, le voci delle donne e il suono delle frustate che le colpiscono nelle piazze delle più grandi città afghane riescono a interrompere il grande gioco dei potenti con la forza di chi, seppure “inerme”, rifiuta di tacere.

La terza lezione, dunque, la più importante, che ci viene dall’Afghanistan è proprio la capacità di alcune donne di continuare dai margini a mostrare le crepe di un dominio violento che non riesce a farsi potere condiviso. La loro coraggiosa fragilità è un messaggio politico che chiama a costruire alleanze solidali e a esigere un cambiamento del modo in cui si guarda alla realtà.

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