Interventi

Foto di Mirko Bozzato da Pixabay 

Cosa sta succedendo a Genova?

Quando amici non genovesi me lo domandano rispondo sempre che, per provare a spiegare almeno in parte la situazione, ci vuole parecchio e dunque è inutile aspettarsi una sintesi rapida.

Dunque mettetevi comodi.

Genova si dice, lo faceva già Dante Alighieri, che sia una città “stretta fra mare e monti”. Cosa significa oggi?

Mentre il numero di abitanti del capoluogo continua a diminuire, l’entroterra non si ripopola e la regione nel suo insieme perde popolazione, tutta l’attenzione è rivolta al mare. Ai trasporti, da e per i Porti (di Genova e delle altre città), delle merci e delle persone che transitano da un capo all’altro dell’Europa in senso latitudinale e da un capo all’altro dell’Italia in senso longitudinale. Ma soprattutto alle coste: per le seconde case – ne crescono in ogni minuscolo lembo ancora strappabile alla roccia, alla gravità – per i porti turistici, in grado di accogliere imbarcazioni da diporto sempre più grandi, neanche più pallido ricordo dei porticcioli dei borghi marinari.

Turismo di seconde case extraregione, turismo di barche. Turismo che riempie mare e costa in alcuni periodi e che prevede flussi ingenti di persone in tali periodi.

La Liguria oggi è una terra dove si transita, dove si alloggia solo temporaneamente, solo per turismo e solo sulla costa. Non è un posto dove dimorare abitualmente, o almeno sempre meno. Gli abitanti sono tra i più vecchi d’Europa e da tempo il numero delle pensioni ha superato quello delle buste paga. L’essere una regione di transito non costituirebbe di per sé una caratteristica originale, ma lo diventa in un territorio che geograficamente sembra fatto apposta per non essere attraversato. I monti sono verticali sul mare, in qualunque direzione si voglia andare si deve superare qualche catena montuosa.

Quando Genova era uno dei vertici del triangolo industriale, per aggredire questo problema sono state costruite infrastrutture avveniristiche per l’epoca – oltre mezzo secolo orsono. Che, proprio perché innovative (allora) non era prevedibile né quanto sarebbero durate né fino a quando sarebbero state funzionali. Il crollo del Ponte Morandi ha suonato la campana a morte di quell’era industriale e delle sue infrastrutture. È crollato il tratto più esposto e usurato, ma quello che vi sta intorno – da est a Ovest e da e verso Nord – è coevo e di natura analoga: stesso cemento, stesso acciaio (poco e scadente), stesse tecniche ingegneristiche. Quello che era altamente innovativo prima che l’uomo sbarcasse sulla luna forse nel frattempo avrebbe avuto bisogno di qualche aiutino: molta attenzione, moltissima manutenzione e, soprattutto, tanta capacità previsionale per anticipare problemi, guasti, rotture. Per evitare tragedie. Anche prevedendo per tempo tratti di viabilità alternativi ad esempio per i mezzi pesanti, durante le manutenzioni più corpose.

Il crollo del Morandi è la manifestazione violenta di una malattia diffusa di tutte le infrastrutture della rete ligure. La malattia è generale e oggi, che qualcuno ha deciso di combatterla, la cura applicata – fatta di manutenzioni, profonde e difficilissime, di gallerie e viadotti, viadotti e gallerie e ancora viadotti e gallerie e tutti con tante tante curve, curve con raggio di curvature impensabile in qualunque altra autostrada moderna – sta dimostrando la gravità della malattia. L’unico modo per gestire la situazione sarebbe stato prevenire disponendo percorsi alternativi in modo da poter fronteggiare sia situazioni di emergenza (come un crollo di viadotto) che di manutenzione (non si può fare manutenzione in autostrade a solo due corsie senza restringimenti, non si può intervenire sul soffitto di una galleria mantenendo la viabilità neppure parziale).

Oggi le autostrade liguri sono un incubo: in qualunque direzione e senso di percorrenza.

L’incubo si ripercuote sulle strade statali e poi, in cascata, sulle provinciali e soprattutto le strade cittadine. L’inferno.

Per oltre mezzo secolo non ce ne siamo occupati: ce ne occupiamo in estate, dopo tre mesi di lockdown e di tutti i tratti contemporaneamente.

Questo è il contesto. I genovesi vanno a piedi o non vanno proprio. Chi si muove lo fa a suo rischio e pericolo perché nessuno è in grado di prevedere cosa gli accadrà percorrendo venti km: può trovare un ingresso in autostrada appena chiuso o non riaperto secondo i programmi, una lunga coda, delle uscite obbligatorie, delle carovane di TIR nelle strade cittadine, magari venendo fermato da stralunati turisti che volevano solo transitare per raggiungere le località balneari ma non capiscono dove sono e chiedono aiuto. Se uno dei più grandi gruppi mondiali di spedizionieri marittimi raccomanda di non utilizzare il porto di Genova qualcosa vorrà dire. Il trasporto ferroviario non è meglio.

Insomma, i genovesi e i liguri oggi vivono così.

Il conto alla rovescia per le cerimonie di inaugurazione del Morandi è iniziato. E questo a meno di due mesi dalle elezioni regionali. Quando il traffico tornerà a scorrere effettivamente in ogni direzione autostradale è altra faccenda. Ma oggi, politicamente, conta solo essere sotto i riflettori di quelle cerimonie, che certamente non saranno sobrie. Questa è solo la premessa.

La geografia della politica

Chi ha avuto la pazienza di proseguire fin qui la lettura si renderà conto che il territorio ligure e la situazione logistica sono assolutamente singolari.

Ma singolare non lo è solo la geografia fisica.

Quella politica forse è ancora più complicata. La Liguria, laboratorio di un possibile governo locale giallorosso, è forse ancora più indecifrabile.

Anche su questo andrebbe fatta una lunghissima premessa storica: per descrivere l’oggi è indispensabile premettere quale era il contesto della precedente tornata elettorale regionale.

Faide patologiche interne alla sinistra di governo (storicamente sempre in sella a Genova e quasi sempre in Regione) hanno avuto nelle “primarie del partito” la manifestazione eclatante di malattie di lungo periodo.

Una parte della nuova forza politica – nata proprio intorno alla forza catalizzatrice di un celebre comico genovese – aveva allora tentato di proporre una coalizione giallorossa ante-litteram, individuando come potenziale candidato una figura che avrebbe potuto riscaldare i cuori degli elettori del centro sinistra, elettori sfiduciati ma fedeli, ansiosi di riscatto ideale. Il potenziale candidato governatore (si chiamava Ferruccio Sansa) era una figura al di fuori del mondo della partitocrazia, giovane e competente.

Snobbata con sufficienza tale ipotesi (eravamo ancora nell’era del “si presentino alle elezioni e poi vediamo”) la sinistra tradizionale ha preferito scannarsi in “primarie di partito” al confine della decenza politica, in uno psicodramma tutto interno al primo partito della sinistra storica.

È accaduto così che, mentre il centro destra si riuniva intorno a una candidatura poco radicata sul territorio e a cui essa stessa non credeva (o credeva poco), si sono presentati nell’arco avverso: una candidata della sinistra storica logorata, una candidata della forza nuova di tendenza settaria entrambe indebolite ulteriormente (se ci fosse stato ancora bisogno di qualcosa per essere certi di perdere) da un terzo candidato della nuova sinistra.

Poiché “fra i due litiganti il terzo gode”, con un tasso di astensionismo altissimo per una regione storicamente impegnata politicamente, ha vinto inaspettatamente il candidato del centro destra. E – questa è la notizia principale per cui racconto tutti questi antefatti – ha vinto al primo turno. Nonostante una percentuale di voti bassa: il 38% dei votanti (che erano il 50% degli elettori). I tre litiganti dell’area opposta hanno ottenuto rispettivamente il 27,85% , il 24,8% e il 9,42%. In totale l’area di minoranza ha ottenuto il 60% dei voti. E il ballottaggio, le alleanze dell’ultimo minuto? In Liguria non esiste il ballottaggio alle regionali perché non esiste una legge elettorale: nessuna giunta si è mai seriamente occupata di (o ha voluto) fare una legge elettorale. E poiché, in mancanza di una legge elettorale regionale, vale per default la norma “che chi prende anche un solo voto di più vince alla prima”, così è stato. Molti elettori non lo sapevano, tanti si sono stupiti. Non so quanti abbiano capito quello strano risultato da cosa sia dipeso. Era intricata la vicenda e tali le responsabilità politiche che, poiché nessuno avrebbe tratto giovamento dall’evidenziarle, se ne è parlato pochissimo. A nessuno fra i contendenti conveniva evidenziare quale dinamica aveva portato a quel risultato: né a chi aveva perso – in politica ammettere le proprie responsabilità non usa più – ma neppure a chi aveva vinto. Poi, con il tempo, qualunque vittoria può arrivare a sembrare un plebiscito.

La Liguria è una regione difficile da capire: per la conformazione geofisica per i non liguri, per la conformazione sociopolitica per tutti, anche i liguri.

La legge elettorale regionale non è stata fatta: si vince alla prima e per un solo voto. La situazione dunque oggi è identica a quella di cinque anni orsono. Ci sono infatti ancora tre candidati all’opposizione. Oltre al candidato della coalizione giallorossa troviamo gli scontenti gialli e rossi, uno per colore.

Lo schieramento di centro destra è compatto – e questo non stupisce. Nel centro sinistra si presentano nuovamente tre candidati.

Questo è quello che sta accadendo a Genova.

Quello che accadrà non lo so. I fatti potrebbero suggerirlo, ma noi sognatori non ci rassegniamo. La stessa persona seria e disponibile, che aveva dato con discrezione la sua disponibilità cinque anni orsono, la ha data nuovamente. È stato tenuto sulla graticola per mesi, rischiando sul finale di essere abbattuto dal fuoco amico. Ma, dando una lezione di stile davvero notevole, ha “retto” senza personalismi o isteria ed ora è – a meno di due mesi dalla scadenza elettorale – ufficialmente il candidato giallorosso alla presidenza della Regione Liguria. La sfida da affrontare è impari. Il compito è arduo e le condizioni avverse: in era di lockdown, con manifestazioni di piazza limitate, un candidato nuovo, fuori dai partiti e dagli schemi di potere tradizionali ha gioco difficile contro la riconferma di un presidente che non ha praticamente avuto opposizione e che ha già da mesi intrapreso la campagna elettorale – spesso sovrapponendo la comunicazione istituzionale della Regione con la propria. Certamente iniziare una campagna elettorale alle soglie del mese di agosto non aiuta.

Molto dipenderà dalle luci di quel grande sipario che saranno le celebrazioni per inaugurare il Morandi. Chi finirà sotto di esse, per innegabili meriti effettivi o per luce riflessa, avrà una formidabile visibilità.

A scontrarsi davvero – questo si che è un aspetto interessante – due esponenti del giornalismo, ma di giornalismi molto diversi: la comunicazione ed il giornalismo di inchiesta.

Il giornalismo di inchiesta è diventato (lo è sempre stato ma ora lo è molto di più, sia in Italia che nel mondo) un mestiere pericoloso, specialmente se lo si fa bene. E specialmente se lo si fa sul proprio territorio. I nemici guadagnati a seguito di inchieste ben fatte restano nemici per sempre, a prescindere. Forse questo spiega perché le forze che sostengono il candidato dello schieramento progressista sembrano fare a gara nel far intendere che “è il meno peggio”, che non si è trovato altro, etc., quasi dovessero smarcarsi, a livello individuale, da una scelta certamente indigesta ad alcuni personaggi determinanti nel quadro politico locale. Un sostegno molto tiepido, ad essere ottimisti.

Vista così sembra una partita persa in partenza. Quasi una trappola.

Ma c’è un’incognita: gli elettori.

Non dimentichiamo che i liguri son gente di mare e nel mare ci sono i pesci. Una moltitudine di pesci può fare la differenza. Nel mare ligure ci sono tante acciughe. E anche tanti bianchetti, le giovani acciughine la cui pesca è stata vietata. Chissà cosa accadrebbe se i pesci votassero.

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