Interventi

Con l’intervento di Luigi Ferrajoli ma anche con quelli che l’hanno preceduto, sono stati evidenziati i tratti di fondo della situazione attuale, come precipitato, salto di qualità, di un processo che comincia molto prima. Ma dobbiamo cogliere questo precipitare della situazione.
Populismo politico e populismo penale sono entrambi, nel loro rapporto perverso, una costruzione retorica senza popolo. Nel senso che l’identità, a cui faceva riferimento Luigi Ferrajoli, la costruzione di un noi contro l’Altro, come nemico, è appunto una costruzione politica, che può suscitare consenso, può suscitare una evocazione ma non corrisponde alla realtà.
La realtà è quella di una profonda crisi, di un vero e proprio disfarsi, dei legami sociali, di un prevalere – ed è questo il nesso forte tra i populismi politici e la costruzione neoliberista dei rapporti strutturali della società – dell’individualismo: l’essere l’uno irrelato all’altro, l’uno in competizione contro l’altro. È questa trasformazione dei rapporti sociali che suscita insicurezza e paura. E genera adesione all’appello retorico del populismo.
Noi dobbiamo prendere atto di questa realtà. La civiltà contemporanea è stata definita civiltà dell’indifferenza[1], proprio perché l’altro, in sé estraneo, è per definizione un nemico, un pericolo, una minaccia. Questo rende orizzontale, pervasiva, la costruzione di questa retorica del populismo.
La seconda causa strutturale è la crisi della politica. C’è crisi della politica come costruzione di società, che è un progetto ma che trova forme di realizzazione, sia pure parziali, come conflitto prima e poi mediazione tra progetti di società differenti, come rapporto tra finalità (principi, valori) e pratiche, realizzazioni di differenti rapporti sociali. Questo è venuto meno.
Pensiamo di poter fronteggiare il populismo politico e penale solo attraverso una strategia del diritto e dei diritti? Io penso che se non ricostruiamo la politica, se non reinventiamo forme efficaci di aggregazione politica, non possiamo farcela.
Sono in questione l’idea stessa di politica, l’idea di giustizia, l’idea del diritto e dei diritti, l’idea di legalità e legittimità ed il rapporto tra legalità e legittimità, su cui tornerò.
Legalità presuppone la legge scritta, ma è anche legge operante e vissuta ed è nel rapporto tra queste due dimensioni che il diritto può farsi forma, ordine dei rapporti e delle esperienze sociali.
Se la norma diventa normalità nella sua attuazione, se fa ordine, ed anche se poi questo ordine viene anche messo in questione e sottoposto a modificazione, la legalità ha un senso. Se invece la produzione delle leggi è sempre più dettata dalla logica dell’emergenza, esposta ad un inflazione normativa e ad una confusione, e perfino a un contrasto, tra tipologie diverse di norme (quelle legislative in senso stretto, quelle amministrative, quelle tecniche), allora si crea disordine e lo stesso principio di legalità perde senso ed efficacia. Questo ha effetti tanto più negativi nell’ambito del penale.
Credo che nella situazione attuale emerge un paradosso, connaturato al diritto, alla esperienza giuridica: la pretesa della legalità di corrispondere ad una razionalità e stabilire quindi un ordine oggettivo, ed il fatto che la legge è lo strumento del potere,  l’arma del potere politico; tanto più può esserlo e lo è, come legge penale.
Nel suo intervento Lucia Castellano ha parlato dell’aspetto passionale dell’azione penale – è uscito di recente, in italiano, un libro di Didier Fassin Punire, una passione contemporanea[2]. Questa passione del punire non è un sentimento, è l’esercizio di una forza, di un potere, è una passione tutta politica che naturalmente può diffondersi e contaminare. Un dato a cui dovremmo prestare attenzione è che oggi questa passione si esercita non tanto nel momento della definizione del reato e dal giudizio sul reato commesso, quanto in quello dell’esecuzione della pena e delle modalità con cui la pena viene applicata.
Credo che oggi la passione del punire agisca sul piano della prevenzione. Si reprime prima e senza che vi sia stato un reato, si reprime perché così si esercita una forma di controllo e di disciplinamento dei soggetti ritenuti a rischio di delinquere, imputabili. Si punisce per affermare la logica della pena non come risarcimento tanto meno come rieducazione ma, appunto, come fine in sé.
La spettacolarizzazione, di cui ha parlato Ferrajoli, nasce da qui, da questa passione che si mette in scena e che si esercita, anche sul piano della prevenzione. Lo Stato, le istituzioni, le forze di Polizia si assumono il compito di prevenire il compimento di un reato, e questa scelta determina consenso e adesione nella opinione pubblica.
Faccio l’esempio più recente, sotto gli occhi di tutti, l’ultimo episodio di cronaca. È stato fermato con la forza, costretto a terra, ed è deceduto in conseguenza dell’intervento degli agenti, uno straniero, un migrante. Salvini ha così commentato: “Che dovevano fare, gli dovevano offrire cappuccino e brioche?”.
Questa è la giustificazione della violenza, dell’esercizio del monopolio della forza da parte delle Forze dell’Ordine, prima che ci sia un giudizio, che si sia accertato il compiersi di un reato.
I migranti per definizione sono fuori legge, in quanto clandestini (non c’è modo di entrare legalmente in Italia). Come tali sono privati di ogni garanzia giuridica e di ogni  diritto, criminalizzati e sottoposti a forme di detenzione amministrativa.
L’accoglienza stessa dei richiedenti asilo prevede centri di detenzione e di segregazione, percorsi di controllo e disciplinamento, procedure, a partire dall’esame delle domande, che sono violazioni delle garanzie, restrizioni delle libertà e negazione dei diritti fondamentali e primari.
Ma anche sul piano delle politiche urbane – ne ha scritto Tamar Pitch[3] – sono criminalizzati e sottoposti a restrizione, vedi i famosi DASPO, i poveri o i drogati o chiunque non corrisponda a quella aspettativa di ordine, di sicurezza e di decoro che la politica richiede. I “perbene” e i “permale” si costruiscono prima ancora della criminalizzazione penale, in forme di criminalizzazione sociale e di riduzione amministrativa dei diritti.
Questo mette fortemente in questione il principio stesso di legalità: non siamo solo di fronte alla violazione di norme specifiche della Costituzione, ma a una politica basata sull’anticostituzionalità, come ha scritto Margara[4]. È un concetto diverso:   l’anticostituzionalità mette in questione l’idea stessa di Costituzione.
Vorrei ora affrontare un altro aspetto, quello del rapporto tra legalità e legittimazione politica.
Il M5S ha costruito le sue fortune politiche sul feticcio della legalità contro la costruzione del potere e delle élite. Da questo feticcio siamo passati al feticcio del potere legittimato perché è stato votato dal popolo sovrano. Populismo politico e sovranismo si coniugano perfettamente.
La mancata autorizzazione a procedere per Matteo Salvini è motivata con l’affermazione che si è trattato di un atto politico. È un’affermazione gravissima che il Senato si prepara ad attuare, negando l’autorizzazione. Siamo quindi di fronte a un potere legibus solutus, ovvero ad una radicale trasfigurazione del potere politico. È un potere che trova la sua legittimazione solo nel consenso, per di più in una situazione di crisi della rappresentanza, e di una sempre maggiore crescita dell’astensionismo.
Qui si contrappone la legittimità politica, in nome di una concezione assoluta della sovranità, alla legalità. Si altera così l’intera costruzione della democrazia.
Margara, in quello scritto veramente apprezzabile, si preoccupava della divaricazione tra legalità e legittimità, evidenziando il pericolo di una legalità astratta, puramente formale, in quanto non trovava la legittimazione costituzionale nella politica. Le leggi ingiuste sono leggi formali che contrastano con, e negano, i principi e le finalità che dovrebbero orientare la politica e quindi gli atti legislativi, la produzione di leggi da parte della politica.
Oggi non basta più la denuncia della violazione formale. Se siamo di fronte all’anticostituzionalità, questo è innanzitutto questione politica. Non è sufficiente  ripristinare la legalità costituzionale formale, si tratta di ricostruire politicamente il senso, le finalità della Costituzione come progetto politico.
Io penso che questo è un momento di disobbedienza civile, intesa come riappropriazione della politica non come mero atto di trasgressione. Disobbedienza non solo alla legge, ma ai poteri istituiti, in ragione di un esercizio del potere politico che ognuno/a di noi, può e deve esprimere, insieme ad altre e ad altri, nelle forme molteplici dell’associazione, della diffusione e creazione di pratiche e  comportamenti: da quelli individuali – “io non ci sto” e lo esprimo nelle forme e nelle modalità che sono in grado di fare miei anche con atti simbolici di opposizione come hanno fatto ad esempio alcuni sindaci sull’immigrazione – a quella di rivolgersi ai poteri istituiti, ad esempio alla magistratura, perché agiscano in quella direzione o per contrastarli.
Ci sono in Italia tante forme di mobilitazione, tante pratiche di opposizione e disobbedienza alle leggi ingiuste del governo; si tratta di valorizzarle, di aggregarle e soprattutto di fornire loro – questo è un compito culturale – finalità ed idee condivise, in breve un altro modo di rappresentare la realtà che viviamo. Ed è questo quello che oggi ci manca.

[1]  Pietro Ingrao, La civiltà dell’indifferenza, in La tipo e la notte. Scritti sul lavoro (1978-1996), Ediesse, Roma 2013. Cfr. anche il mio La civiltà dell’indifferenza, in Le parole e i corpi. Scritti femministi, Ediesse, Roma 2018
[2]  Didier Fassin, Punire una passione contemporanea, Feltrinelli, Milano 2018
[3] Tamar Pitch, Contro il decoro. L’uso politico della pubblica decenza, Laterza, Roma-Bari 2018
[4] A. Margara, A proposito delle leggi razziste e ingiuste, Franco Angeli, in “Questione giustizia”, n. 2, 2009

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