Premessa
Il citatissimo rapporto Draghi ha certamente il merito di analizzare in dettaglio la profonda crisi in cui si dibatte l’industria europea, in particolare nel campo delle tecnologie avanzate. Per contro, alcune proposte dell’ex-banchiere per andare avanti ci appaiono veramente indigeste, quale quella di aumentare fortemente le spese militari, creando tra l’altro un fondo comune di finanziamento sulla base di uno schema grosso modo come quello del NextGenerationEU. Paradossalmente si tratta forse dell’unica proposta che del citato rapporto quelli di Bruxelles stanno prendendo seriamente in considerazione. L’idea invece, sempre di Draghi, di stanziare almeno 800 miliardi di euro all’anno per cercare di rincorrere la Cina e gli Stati Uniti nel campo delle tecnologie avanzate appare certamente impossibile da portare avanti per ragioni politiche, finanziarie e organizzative. Peraltro non è il solo Draghi a lanciare gli allarmi sullo stato di salute dell’industria del nostro continente; negli ultimi tempi altri esperti, molti politici, nonché la grande stampa si uniscono a quello che è ormai diventato un coro fragoroso.
Intanto nell’ultimo periodo la produzione industriale nell’area mostra una flessione. Da segnalare inoltre che nel 2023 l’Europa ha registrato soltanto il 6,7% degli investimenti industriali mondiali, contro il 54,5% dell’Asia e il 28,5% degli Stati Uniti. Peraltro va considerato che le imprese europee tendono da parte loro a collocare all’estero, dagli Stati Uniti alla Cina e oltre, una quota sempre più elevata dei loro investimenti.
Più in generale il Pil delle principali nazioni europee, dall’Italia (da più di trenta anni), alla Gran Bretagna (da quattro o cinque), dalla Germania alla Francia (più di recente), sembra tendere alla stagnazione, dando forse in qualche modo ragione alla ipotesi di “stagnazione secolare” avanzata diversi anni fa da Lawrence Summers per i paesi sviluppati.
Può essere comunque utile analizzare qualche attività specifica per mettere meglio a fuoco la situazione di crisi quasi disperata dell’industria europea. Draghi sottolinea nel suo rapporto in particolare quella relativa ai settori avanzati, ma la crisi tocca alla base anche quelli più maturi, nuclei centrali oggi dell’economia dell’UE.
I settori avanzati
Per quanto riguarda i primi, basta fare il caso dei chip, essendo la situazione nel campo dell’intelligenza artificiale, oggi la tecnologia di punta dell’innovazione tecnologica, molto evidente a tutti. Ricordiamo soltanto che gli Stati Uniti e la Cina stanno impegnando nel campo dell’ia risorse finanziarie ed energie imprenditoriali elevatissime (nel 2023 le spese di ricerca nel settore sono state pari a 67 miliardi di dollari negli Stati Uniti e solo di 11 miliardi nei paesi dell’UE; le prime quattro società USA stanno investendo nel solo 2024 ben 200 miliardi di dollari per la messa in opera dei grandi data center, oggi strumenti di base dell’operatività della stessa ia; intanto in Cina la produzione nel settore, secondo le prime stime, ha raggiunto nello stesso anno il valore di 412 miliardi di dollari).
Nel settore dei chip alcune decine di anni fa i produttori europei controllavano circa il 35% del mercato mondiale, mentre oggi siamo anche al disotto del 10%. Certo abbiamo alcune imprese di una certa dimensione, la franco italiana STMicroelectronics, la tedesca Infineon e l’olandese NXP; ma esse sono del tutto al di fuori delle produzioni tecnologicamente avanzate, dominio di Taiwan, soprattutto con TSMC, nonché della Corea del Sud con Samsung e ora, con il ritorno in forze con i chip per l’intelligenza artificiale, anche degli Stati Uniti.
I gruppi europei citati sono concentrati nel nostro continente sulle produzioni più mature, che sembra sostanzialmente impossibile possano fare il salto tecnologico necessario per collocarsi a loro volta all’avanguardia. Anche in tale mercato maturo, peraltro, essi sono ora insidiati dalla crescente concorrenza cinese, che tra l’altro li spinge a investire nel paese asiatico, trascurando l’Europa. Bruxelles ha cercato recentemente di fare qualcosa stanziando, con il Chip Act, delle risorse per il settore, ma troppo poco, troppo tardi. Ci si è anche ripromessi, con tale intervento, di arrivare a produrre da qui al 2030 il 20% del totale mondiale, ma tale obiettivo appare sostanzialmente irraggiungibile e velleitario.
E quelli maturi
Ma l’UE appare poi colpita al cuore in quelli che erano sino a poco tempo fa i settori di punta della produzione industriale del nostro continente, l’auto, la chimica, la meccanica.
Concentriamo l’attenzione sui primi due.
L’auto è stata dalla fine della guerra a oggi il settore più importante dello sviluppo economico europeo, trascinando nella sua crescita molte altre attività. Oggi esso impiega, secondo alcune stime, 14 milioni di addetti tra diretti e indiretti, mentre altre valutazioni parlano di 15 milioni per la sola Germania.
Ricordiamo intanto che oggi ormai il 60% della produzione di vetture si concentra in Asia, che ha fatto suo il primato che una volta era degli USA e dell’Europa. Quello che era il vanto dell’industria europea nel settore, la prodezza tecnologica dei produttori tedeschi, oggi vale sempre meno con l’arrivo delle innovazioni relative all’auto elettrica. In effetti il valore del software e della batteria costituiscono ormai il 75% del costo totale dell’auto e i produttori europei, quelli tedeschi come quelli francesi, sono molto indietro rispetto alla Cina e all’americana Tesla. Intanto sta arrivando anche l’auto a guida autonoma, dove di nuovo i produttori della UE appaiono abbastanza distanziati.
I produttori tedeschi e le stesse case USA, che traevano grandi vendite e ancora più grandi profitti dalla loro presenza in Cina, stanno perdendo forti quote di mercato nel paese asiatico. Particolarmente precaria appare in generale la situazione di quelli francesi, cui apparentemente non resta altra scelta che quella di giungere ad accordi molto stretti con i produttori cinesi, cosa che stanno facendo, ma almeno per il momento troppo poco; e comunque troppo tardi. Probabilmente Stellantis e Renault saranno alla fine costrette a essere assorbite da qualche altro produttore.
Per quanto riguarda la chimica essa è stata all’origine una creazione tutta europea, in particolare tedesca. E la preminenza europea è rimasta a lungo indiscussa, anche se con il tempo sono arrivati anche gli Stati Uniti. Ricordiamo incidentalmente che la chimica tedesca ha dovuto cedere per due volte le sue competenze tecnologiche agli alleati dopo la sconfitta nelle due guerre mondiali, anche se comunque è riuscita a mantenere la sua forte presenza sul mercato sino a poco tempo fa.
Due sono stati gli eventi recenti che hanno contribuito a piegarla fortemente: da una parte la crescita molto più forte dei mercati non-europei – mentre la quota del nostro continente si aggira ormai su di un misero 10% del totale, quella cinese tende al 50% –; dall’altra, la forte crescita del costo dell’energia nella UE dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. Oggi tale costo è un multiplo di quello USA e cinese: un grave problema, visto il grande consumo di energia richiesto dalle attività. Le fabbriche tedesche riducono gli effettivi, chiudono gli stabilimenti in patria e spostano i loro investimenti verso la Cina. Ha fatto clamore, qualche tempo fa che la BASF abbia avviato un investimento da 10 miliardi di dollari nel paese asiatico, mentre bloccava quelli in patria.
Conclusioni
Anche guardando al futuro, la situazione e le prospettive del settore industriale nei paesi dell’UE non appaiono certamente brillanti. Mancanza di unità politica tra i vari Stati dell’Unione, carenza di risorse finanziarie adeguate, debolezza degli investimenti, sono soltanto alcuni dei problemi cui si trova di fronte il nostro continente.
Appare difficile individuare cosa fare. Si può comunque avanzare qualche suggerimento senza farsi soverchie illusioni. Almeno per quanto riguarda i settori tecnologicamente avanzati, bisognerebbe concentrare le relativamente ridotte risorse disponibili su pochi comparti, quelli in cui le imprese del nostro continente hanno qualcosa da dire. Così, ad esempio, per quanto riguarda la robotica, alcuni comparti del settore del software in cui sono presenti alcune imprese competitive, dalla tedesca Sap alla francese Capgemini; per quanto riguarda le energie verdi, il comparto dell’eolico; infine qualche segmento delle attività spaziali.
In questi settori, poi, ancora di più che in quelli tradizionali, dalla chimica all’auto, bisogna aprirsi al mondo e, invece di mettere dazi controproducenti, tendere a collaborare in tutti i modi con altri paesi, in particolare con le nuove realtà asiatiche.
Ma se si pensa all’attuale gruppo dirigente di Bruxelles le speranze si fanno più tenui.
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