Articolo pubblicato su “Volere la luna” il 09.02.2022.
Non so quanti dei 55 applausi a scena aperta tributati dai grandi elettori al discorso di insediamento del nuovo-vecchio Presidente della Repubblica abbiano punteggiato i passaggi riguardanti il deplorevole stato in cui versano le istituzioni democratiche nel nostro Paese.
Dopo l’omaggio di rito all’Assemblea a cui si trovava di fronte, qualificata come il «luogo più alto della rappresentanza democratica, dove la volontà popolare trova la sua massima espressione», Mattarella ha dedicato alcune riflessioni – non banali, e non inedite – all’esigenza di restituire centralità alle istituzioni rappresentative, e in particolare al Parlamento. Pur concedendo un po’ troppo alla retorica delle «decisioni tempestive», indispensabili per governare «cambiamenti sempre più rapidi», il Presidente avverte che la tempestività «va comunque sorretta da quell’indispensabile approfondimento dei temi che consente puntualità di scelte», in modo da evitare che «i problemi trovino soluzione senza l’intervento delle istituzioni a tutela dell’interesse generale». Eventualità che «si traduce sempre a vantaggio di chi è in condizioni di maggior forza», come «poteri economici sovranazionali», che «tendono a prevalere e a imporsi, aggirando il processo democratico». E poi, in modo ancora più esplicito, con riferimento a futuri, ineludibili, «percorsi riformatori»: «Quel che appare comunque necessario – nell’indispensabile dialogo collaborativo tra Governo e Parlamento è che – particolarmente sugli atti fondamentali di governo del Paese – il Parlamento sia sempre posto in condizione di poterli esaminare e valutare con tempi adeguati. La forzata compressione dei tempi parlamentari rappresenta un rischio non certo minore di ingiustificate e dannose dilatazioni dei tempi. Appare anche necessario un ricorso ordinato alle diverse fonti normative, rispettoso dei limiti posti dalla Costituzione».
Non so con quanti applausi siano state accolte queste parole, e da quali parti dell’emiciclo siano arrivati. Ma so che l’“applausometro” non sempre è un buon indicatore degli effettivi convincimenti di coloro di cui dovrebbe registrare gli umori. Commentando lo spettacolo di parlamentari e delegati regionali che si alzavano ripetutamente in piedi, spellandosi le mani per le parole del Presidente, Tomaso Montanari ha parlato di «orgia di ipocrisia». Ipocrisia di una classe politica che plaudiva, senza crederci, alla riaffermazione di alti principi costituzionali, proprio nel momento in cui spingeva Mattarella a tradirli, accettando un secondo incarico. E ipocrisia di chi quelle solenni, e condivisibili, parole pronunciava, dopo avere consegnato il paese proprio a un esponente dei «poteri economici sovranazionali», con l’inusuale invenzione di un governissimo «senza formula politica».
L’ipocrisia, scriveva Rochefoucaud, è l’omaggio che il vizio tributa alla virtù. In questo senso, molti hanno invitato a riabilitarla e a coglierne le potenzialità “civilizzatrici”. Se, nonostante tutto, il discorso del Presidente servisse a mettere al centro non tanto l’“agenda Mattarella” (basta con le personalizzazioni, per favore!), ma un’agenda per il ripristino della legalità costituzionale, non si potrebbe che esserne lieti. Purtroppo è lecito nutrire dubbi in proposito. Al netto delle tentazioni presidenzialiste e semi-presidenzialiste serpeggianti in questi giorni, le modalità confuse e contraddittorie con cui si è riaperto il dibattito sulle riforme, e in particolare sui “correttivi” che dovrebbero accompagnare la riduzione del numero dei parlamentari, non fanno ben sperare.
Si torna oggi a ritenere necessaria, da più parti, una legge elettorale di tipo proporzionale – e questa è una buona notizia. La cattiva notizia è che le ragioni che spingono in questa direzione – la liquefazione della coalizione di centro-destra, gli affanni e le divisioni nello stesso campo del centro-sinistra – sono, al solito, sbagliate: opportunistiche, di corto respiro, legate a puri calcoli di convenienza. Mentre di ragioni “vere” a favore di una legge proporzionale senza soglie di sbarramento e premi di maggioranza, e senza liste bloccate, ce ne sarebbero da vendere se solo si riflettesse sulla caduta verticale di legittimità che le istituzioni rappresentative hanno subito negli ultimi trent’anni, certificata dalla crescita della marea dei non votanti (alle ultime suppletive di Roma, quasi il 90%!). D’altronde la stessa riduzione del numero dei parlamentati è andata in porto essenzialmente per ragioni di convenienza politica, quando il PD ha modificato la sua iniziale contrarietà per favorire la nascita dell’asse con i 5stelle, passando con leggerezza sopra ai guasti che quella riforma avrebbe creato sul piano della rappresentatività e della funzionalità del parlamento.
Ora a quei guasti e a quegli squilibri bisogna provare a porre rimedio, almeno in parte, e non solo attraverso una nuova legge elettorale. In entrambe le camere è in corso il dibattito sulla riforma dei regolamenti, che dovranno necessariamente modificare il numero e la composizione delle commissioni, oltre ai quorum previsti per le varie votazioni. Ma c’è chi promette di andare oltre e di cogliere l’occasione per correggere vecchie e nuove storture, disincentivando il trasformismo, circoscrivendo le materie su cui il governo potrà usare la decretazione d’urgenza e ampliando lo spazio dei lavori parlamentari. Sarà vero?
Di certo, nella bozza di riforma targata PD potrebbe rispuntare una vecchia conoscenza: il “voto a data certa” per i provvedimenti di iniziativa governativa. Uno strumento che non va esattamente nella direzione di scalfire l’attuale egemonia dell’esecutivo sull’intera produzione legislativa, ma che viene immancabilmente difeso – oggi come ai tempi della riforma Renzi-Boschi – in nome di una rinnovata “centralità del Parlamento”. Non nuova, più in generale, è la retorica del Parlamento efficiente, rapido, e per ciò stesso autorevole (presente anche nel discorso di Mattarella), che rimanda alla concezione della “democrazia decidente” teorizzata negli anni Novanta da Luciano Violante. Tornando a riflettere su quella stagione, Carlo Ferruccio Ferrajoli, costituzionalista con alle spalle una lunga esperienza di consulente giuridico presso gli uffici legislativi del Senato, mostra come proprio alcune cruciali innovazioni regolamentari riguardanti il contingentamento dei tempi di esame dei provvedimenti, il controllo della maggioranza sull’agenda dei lavori, la regolamentazione della presentazione e discussione degli emendamenti, abbiano contribuito a instaurare il controllo assoluto del Governo sull’attività legislativa e la riduzione del Parlamento a organo “ratificante” di decisioni prese altrove (Rappresentanza politica e responsabilità. La crisi del governo parlamentare in Italia, Editoriale Scientifica, 2018). Non diversamente, la più recente riforma del regolamento del Senato ha proseguito sulla strada del ridimensionamento e dell’ingessamento del dibattito, ridotto a piatta contrapposizione tra posizioni precostituite e non modificabili. Che cosa sia diventata, alla fine di questo percorso, l’attività legislativa è sotto gli occhi di tutti: inflazione di decreti legge, ricorso forsennato e improprio al voto di fiducia, maxi-emendamenti che costringono i parlamentari a votare in blocco norme eterogenee che non hanno quasi avuto il modo di leggere. Qualcosa di più del semplice “rischio” di «forzata compressione dei tempi parlamentari» evocato da Mattarella.
Il culmine di questo processo di esautoramento del Parlamento è stato raggiunto con l’approvazione delle ultime leggi di bilancio. Nel 2019, per la prima volta nella storia della Repubblica, alle commissioni bilancio di Camera e Senato è stato di fatto sottratta la possibilità di esaminare i contenuti della legge di bilancio e le assemblee sono state poi costrette ad approvarla in tempi strettissimi, votando la fiducia su un maxi-emendamento. Nel 2020 questa prassi lesiva delle prerogative del Parlamento, in aperto contrasto con l’art. 72 della Costituzione, è stata sostanzialmente riproposta. In entrambe le occasioni, le opposizioni hanno sollevato un conflitto di attribuzione di fronte alla Corte costituzionale che, pur respingendolo, ha censurato le forzature delle regole e la «grave compressione del dibattito in Commissione e nell’Aula». Sotto il governo Draghi il medesimo iter blindato e accelerato di approvazione della legge di bilancio ha suscitato molto meno clamore. Quando le eccezioni si moltiplicano – è sempre Mattarella a ricordarcelo – diventano la regola e diventa difficile criticarle. Si aggiunga che, qualunque sia l’esito delle prossime elezioni, il futuro Parlamento sarà costretto entro i rigidi binari tracciati dal PNNR fino al 2026, non si sa con quali margini di interpretazione e modifica. E si avrà un’idea di quanto è profonda la notte della nostra democrazia.
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