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Intervento all’iniziativa “L’Italia tra verticismo e disgregazione” del 16 marzo 2024, organizzata da CRS Toscana e La Fionda, in occasione della pubblicazione del numero della rivista La Fionda “La nostra Repubblica, un progetto incompiuto”.


Verticismo

Per “verticismo” non intendiamo solo la proposta di modifica costituzionale portata vanti dall’attuale maggioranza di destra (l’elezione diretta del Presidente del Consiglio). Allo stesso modo, per “disgregazione” non intendiamo solo la cosiddetta autonomia differenziata e il disegno di legge Calderoli che indica le modalità di attuazione del celebre articolo 116, terzo comma della Costituzione. Però è chiaro che questi due processi istituzionali costituiscono un passaggio decisivo della nostra battaglia contro il verticismo e la disgregazione.

Di verticismo è impregnata tutta la politica che ha caratterizzato la svolta maggioritaria degli anni ‘90. L’introduzione dell’elezione diretta dei sindaci aveva, in realtà, qualche rilevante fondamento, e forse i meno giovani ricordano l’estrema incertezza in cui versavano le amministrazioni comunali in tante zone del Paese. L’amministrazione locale richiedeva probabilmente un intervento “stabilizzatore”, le crisi politiche locali hanno spesso effetti pesanti nell’amministrazione quotidiana delle comunità e nella
qualità della politica.

L’elezione diretta del sindaco ha però portato con sé effetti che dovevano essere visti con maggiore attenzione, e corretti a tempo debito. Penso non solo al ruolo dei consigli comunali, che avrebbero dovuto essere potenziati nelle capacità di controllo, di indirizzo e di promozione della partecipazione dei cittadini. Penso anche al ruolo delle giunte comunali, politicamente ridimensionate nelle capacità di governo collegiale in favore dell’unicità di direzione esercitata dall’organo monocratico. E penso anche a un’accentuata concentrazione di potere amministrativo di apparati sempre più serventi l’organo monocratico.

Il verticismo locale ha fortemente condizionato la vita dei partiti, asciugandola sempre di più, fino a farla diventare il corrispettivo del verticismo istituzionale. I partiti locali, invece di reiventare il proprio ruolo di stimolo alla partecipazione popolare e di accurata selezione delle classi dirigenti, si sono adattati al verticismo istituzionale, riducendosi spesso a mero terreno di lotta per l’accesso alle cariche pubbliche. Certo, la crisi dei partiti all’inizio degli anni ’90 non viene dall’elezione diretta del sindaco, ma dall’esplodere della questione morale. Tuttavia, il cambiamento delle istituzioni locali – motivato in parte anche dall’esigenza di ricostruire legittimazione alla politica – ha avuto a lungo andare effetti diretti su tutto il sistema dei partiti, sul funzionamento dei loro organismi dirigenti e delle loro strutture di base, e sull’enorme rilevanza del ruolo degli amministratori. Il partito dei sindaci spesso evocato in ogni partito è l’espressione più evidente di questa trasformazione.

In questi giorni, in preparazione di una giornata di riflessione sugli eventi di trent’anni fa che portarono a Firenze alla prima esperienza di elezione diretta del sindaco, ho avuto modo di tornare a riflettere su come il primo partito della città (il PDS) si preparò a questa svolta. In un contesto politico di forte delegittimazione, la svolta dell’elezione diretta fu vista con grande attesa e positività; del resto, nel 1993 grandi città come Roma, Milano, Napoli, Torino, Genova, Venezia erano andate al voto con un senso di forte liberazione dalla crisi che aveva preso i partiti tradizionali, e il successo della sinistra – ad eccezione di Milano – era stato veramente importante. Vedevamo il positivo, ma percepivamo anche il cambiamento in corso, soprattutto l’inevitabile personalizzazione. Vedevamo meno le conseguenze a lungo andare. Il PDS che gestì la svolta istituzionale era un corpo vivo, diffuso, partecipato, e intorno c’era una società civile attenta e desiderosa di partecipare. La torsione verticistica del sistema non aveva ancora fatto capolino, e così fu anche negli anni successivi. Ma poi le cose – come dicevo – sono andate diversamente.
Il verticismo locale italiano si è sùbito fatto strada. Contagiando dopo meno di un decennio l’istituzione regionale. Del resto, avranno pensato i presidenti delle regioni, come posso accettare di essere eletto da un consiglio quando i sindaci dei comuni capoluoghi sono eletti dai cittadini? Non è un caso se nessuna regione ha usato il potere che gli aveva concesso la Costituzione, di decidere una forma di governo “parlamentare”.

Non poteva che essere così, visto che anche nei grandi partiti nazionali si è cominciato a parlare di “sindaco d’Italia”.

Ma prima di parlare di questo mistificante sindaco d’Italia, è necessario dirsi che la riorganizzazione del potere locale con l’elezione diretta del sindaco poteva avere un esito migliore. Nel senso che quanto di verticistico inevitabilmente c’è nell’elezione diretta può essere contemperato da regole e limitazioni, da bilanciamenti, da potenziamenti della partecipazione, che potevano restituire maggiore equilibrio al
sistema.

Il legislatore invece è andato sempre in un’altra direzione, e cioè di rafforzare la concentrazione del potere degli organi monocratici locali. Le assemblee elettive sono state penalizzate, nel numero dei componenti e nei poteri, gli stessi organi di governo collegiali sono stati ridotti, e infine i sindaci ormai li troviamo un po’ dovunque obbligati a partecipare ad altri enti, organi, comitati.

Stessa cosa avviene per le Regioni, con l’aggravante che la concentrazione verticistica è – dai cosiddetti Governatori – voluta, ricercata, esaltata.

Recentemente Ainis ha chiamato questa concentrazione “capocrazia”, e mi pare che in gran parte abbia colto nel segno. In uno dei saggi del volume che qui presentiamo, si afferma che la limitazione dei mandati è costitutiva del concetto di Repubblica. L’autore si spinge, su questo, a criticare anche la Costituzione del 1948 (nella quale il limite dei mandati non c’è), ma indubbiamente il problema esiste se nel dibattito politico di oggi non si fa che parlare di “terzo mandato” o di abolizione di ogni limite dei mandati di presidenti di regione e di sindaci dei comuni più grandi.

Personalmente ho maturato la convinzione che per le regioni occorrerebbe fare un deciso passo indietro, ripristinando la forma di governo “parlamentare”, ritornando a sistemi elettorali di tipo proporzionale (un unico sistema per tutte le regioni!), e affidando alla mozione di sfiducia costruttiva il compito di produrre stabilità.

Aggiungerei anche che in un ente che fa leggi occorre tutelare al massimo le minoranze, e dunque stabilire il numero dei componenti dell’assemblea legislativa in modo tale che vi sia l’effettiva possibilità di operare da parte della minoranza ritenuta meritevole di rappresentanza.

E veniamo al sindaco d’Italia, cioè all’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Il dibattito sul tema è intenso, la presidente Meloni punta sulla voglia degli italiani di scegliere loro il presidente, i progressisti dicono che questa è una forte diminuzione del ruolo del Presidente della Repubblica.

Ho visto che in uno dei saggi del volume che presentiamo (proprio quello del Prof. Carlo Magnani) si sostiene che se si vuole un ruolo più attivo del Presidente della Repubblica nella formazione dei governi, allora bisognerebbe eleggerlo come in Austria o in Portogallo. L’autore ci dirà nel dettaglio la sua proposta e le motivazioni.

Per me, se posso permettermi, la questione più rilevante è l’equilibrio dei poteri. La Costituzione oggi questo equilibrio lo dà, la proposta della destra rompe l’equilibrio, determinando un rischio molto serio di concentrazione di potere in un punto solo. Il fatto grave è che la destra non vuole – come dice – una modifica per rendere il sistema di governo più stabile e dunque efficace, vuole una modifica per concentrare potere.

Per dirla più chiaramente, secondo me alla destra non interessa affatto di fare una buona riforma, interessa solo lanciare il messaggio di concentrazione del potere nelle mani di uno solo. È un messaggio evocativo, tipicamente di destra, e comporterà – se la riforma andrà in porto presto – la richiesta di elezioni anticipate o di dimissioni del Capo dello Stato.

Allo stesso tempo, penso che si debba riconoscere che la proposta alternativa della sinistra (inserimento in Costituzione della sfiducia costruttiva in funzione della stabilità dei governi) – incide anch’essa, almeno teoricamente, sui poteri del Presidente della Repubblica, rafforzando il Presidente del Consiglio ma (qui sta il punto!) aumenta anche il potere del Parlamento, un equilibrio però effettivo solo se il Parlamento è eletto con un sistema proporzionale.

Disgregazione

Il secondo processo istituzionale di cui vorremmo discutere è la disgregazione. Anche la disgregazione è un processo che si è già insinuato nelle nostre istituzioni. A parte l’autonomia differenziata prevista dall’articolo 116 terzo comma della Costituzione, non c’è dubbio che la riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione ha inserito più tracce di un principio disgregante: l’eccesso di competenze poste in capo alle regioni (spesso però mai effettivamente esercitate), l’inserimento in Costituzione di norme sul potere regolamentare degli enti locali, l’enunciazione del principio di sussidiarietà istituzionale. Parlerei di tracce di un principio disgregante perché gli effetti pratici sono stati complessivamente ridotti: il fenomeno più rilevante è stato – come è noto – l’aumento del contenzioso costituzionale tra Regioni e Stato; per il resto, l’intervento della Corte Costituzionale ha in generale favorito l’esercizio delle competenze statali.

L’altro rilevante processo che ha comportato una certa disgregazione istituzionale è stato il cd. riordino delle competenze delle province, fatto sulla base della legge Delrio (2014). Il processo, apparentemente intestato alla semplificazione istituzionale, si è complessivamente risolto in una diffusa complicazione e disgregazione di competenze, uffici, risorse. Probabilmente hanno fronteggiato meglio questa disgregazione le regioni, come la Toscana, che hanno fatto un riordino più spinto, assumendo su di sé gran parte delle competenze.

Questi due esempi dovrebbero indurre a ripensare il regionalismo, che peraltro non ha dato buon esempio di sé durante la pandemia da Covid-19. Per certi aspetti, la pandemia ha dimostrato quanto sia stato spinto in avanti il processo di disgregazione del sistema sanitario nazionale, uno dei fondamentali servizi per la collettività.

Più in generale, bisogna dire che le politiche statali verso le regioni e gli enti locali hanno incrementato il conflitto interistituzionale, tra lo Stato e gli enti territoriali, e tra gli enti territoriali stessi. Il conflitto, ormai palese e diffuso, rischia di compromettere un principio che si era fatto strada negli anni ’90, che la riforma dell’amministrazione doveva far perno sul “sistema regionale degli enti locali”, e che questo poteva caratterizzare un moderno e avanzato regionalismo.

Le disgregazioni, come le disgrazie, non vengono mai da sole. Ed ecco nel 2017 è arrivata l’onda dell’autonomia differenziata, l’attuazione dell’articolo 116 terzo comma della Costituzione comparso per la prima volta con la riforma del Titolo V. Come CRS Toscana abbiamo riflettuto sull’argomento in altre occasioni. Qui voglio richiamare solo che il pericolo più grande è di avere un processo senza ritorno. Quando si dà attuazione al 116 terzo comma, tutto quello si trasferisce (competenze, risorse, beni e personale) diventa praticamente per sempre. Perché nulla si può cambiare senza l’intesa con la regione a cui è stata concessa la “particolare autonomia”. Da qui l’insostenibile frantumazione dell’unità nazionale, che non ha niente a che vedere con nessun processo autonomistico fin qui sperimentato in Italia, buono o cattivo che sia.

Le regioni Veneto e Lombardia sono partite con il “residuo fiscale”, cioè con la richiesta che gran parte delle tasse dei contribuenti delle due regioni restassero sul loro territorio. Una follia talmente chiara da diventare imbarazzante, e a un certo punto hanno cercato di nasconderla. Ma alla fine il tema ritorna, seppure mascherato dai LEP (i livelli essenziali delle prestazioni). Stupisce che la Regione Emilia-Romagna si sia accodata, bloccando nei fatti per anni la reazione del PD. Anche il M5S inizialmente ha accettato di andare avanti (come risulta dai programmi dei governi Conte 1 e Conte 2).

Noi non possiamo aderire a questa idea dell’autonomia, proprio perché porta dentro di sé il massimo della disgregazione politica della Repubblica. Più di tutto il resto del titolo V. Devo confessare che mi ha un po’ sorpreso un articolo della rivista che qui presentiamo sull’argomento: se l’intenzione era di tranquillizzare, ammetto di non essermi affatto tranquillizzata. Anche perché altri articoli invece confermano tutte le nostre preoccupazioni.

Ora immagino che dovrei avventurarmi su un altro tema, per cercare una risposta alla domanda: perché la destra mette insieme il massimo del verticismo con il massimo della disgregazione? Non ho alcuna risposta, non sono nemmeno convinta che l’uno sia complementare all’altra. Penso piuttosto che queste due tendenze si combatteranno, e che l’elezione diretta del Presidente del Consiglio avrà la meglio. Alla sinistra, penso, spetti di dare battaglia – culturale, politica, sociale – perché nessuna delle due diventi realtà.

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