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Napoli sembra esser portatrice, ancora oggi, di un enigma impossibile da districare. La città mantiene, infatti, a millenni dalla sua fondazione, un’identità flessibile, in grado di arricchirsi e spogliarsi continuamente di antichi e nuovi significati: un movimento di estensione e riduzione, il quale fa sì che essa non possa fissarsi mai, stabilmente, in alcuna forma conclusa. È per questo che continuiamo a riflettere, anche nella contemporaneità, su Napoli, come se essa rappresentasse un fenomeno apparso ai nostri occhi per la prima volta: il suo modus vivendi, infatti, assume le forme di un trauma, uno choc, proveniente dall’antichità, che non ha ancora smesso di turbarci.

Tutto questo è stato colto, in modo acuto e, ancora oggi, estremamente attuale, dal filosofo tedesco Walter Benjamin: egli, infatti, alla metà degli anni ’20 del secolo scorso, coniò l’espressione di Napoli porosa. L’impossibilità di ritrovare un fondamento ultimo costituisce il carattere fondamentale di questa città. La porosità indica, infatti, il vuoto – quello spazio non saturo – che fa sì che la città permanga in una condizione di costante inquietudine, impossibilitata a chiudersi. Napoli, cioè, ha la possibilità di rispondere al proprio destino solamente rimanendo aperta, ed in dialogo, con il mondo esterno: la sua è una struttura in costante formazione – non vi è alcun a priori immobile, quanto, piuttosto, un estremo valore attribuito all’esistenza che deve ristabilire, continuamente, categorie e coordinate.

Porosità dunque come spazio vuoto, il quale si lega, strettamente, alle categorie di imprevedibilità e creatività. Guai a dire, infatti, che Napoli non sia profondamente Napoli: la sua «identità elastica»1, secondo una bella formula dello scrittore italiano Marco Ciriello, non significa, in alcun modo, assenza di unità. La sua impossibilità di chiudersi non indica, cioè, l’assenza di un suo tratto proprio, immediatamente riconoscibile. Tale unità risiede, anche e soprattutto, come abbiamo visto, nel suo carattere polimorfo, nella ricchezza del molteplice. È in questo spazio che assumono rilevanza le categorie di creatività ed imprevedibilità, perché quegli spazi vuoti (quel tratto poroso) costringono, infatti, a una ricerca costante di nuove configurazioni, senza che alcun tappo possa, definitivamente, bloccarle una volta costituitesi. Il vuoto come motore di soluzioni sempre nuove: Napoli come teatro a cielo aperto, esperimento permanente.

Da questo discende una forma di vita fluida, ibrida, in grado di spezzare alcune convenzioni liberali-occidentali. La problematica della comunità, di una vita in comune, qui, infatti, continua ad esercitare la sua forza: il singolo nasce, seppur con le problematiche che conosciamo, all’interno di un progetto condiviso – la solitudine non è ancora divenuta, come nella gran parte dei luoghi del moderno, la condizione essenziale dell’esistenza umana. Qui, cioè, nonostante tutti i limiti, qualcosa ancora resiste e compito del teorico è interrogarsi sul perché di questo; scriveva Franco Cassano: «Non pensare il sud alla luce della modernità ma al contrario pensare la modernità alla luce del sud»2. Posizionare Napoli (e il Sud) al centro del discorso, come nuovo metro di paragone, perché all’interno di esso, infatti, continua a esserci memoria di ciò che nell’Occidente sembra essersi dissolto – quella che Benjamin definiva come la «più radiosa libertà di spirito»3. È da quest’elemento, dalla libertà di spirito, che deriva, ancora, l’assenza di uno spazio privato strictu sensu, la compenetrazione, cioè, di pubblico e privato: abitare la casa come spazio dell’accoglienza, del comune e, simultaneamente, pensare la polis come luogo della discussione, del conflitto, in cui ne va della vita delle singole esistenze. La possibilità, in ultima istanza, di sentirsi parte di uno spazio condiviso anche nella condizione di massima solitudine.

Fino adesso abbiamo parlato della città di Napoli, accantonando, in qualche modo, l’occasione da cui nasce questo scritto: la recente, e splendida, vittoria della Serie A 2022/2023 da parte della squadra di calcio del Napoli. Il dato interessante, tuttavia, è che quelle strutture fondamentali della città di cui sopra sembrano, in qualche modo, potersi applicare anche al carattere di questa squadra: Napoli porosa – nessuna formula, forse, potrebbe sintetizzare in modo più acuto il modo di giocare del club. Uno stile di gioco creativo, relazionale, all’interno del quale l’elemento dell’emotività assume una sua centralità. Inoltre, anche qui, in analogia con la città, la presenza di una struttura (il problema dell’unità a cui abbiamo accennato) impossibilitata a chiudersi, che si deve riformare di continuo rispetto ai singoli momenti ed alla molteplicità delle contingenze. Una squadra fluida, ibrida, in grado di combinare possesso e verticalità, talento dei singoli e organizzazione collettiva, costruzione e imprevisto. Potremmo dunque dire che il Napoli, ha vinto rispondendo al carattere fondamentale della propria città: un modo di giocare a calcio offensivo, associativo – con una centralità assunta dal valore del comune – e che lascia, tuttavia, spazio all’imprevedibilità e alla creatività dei singoli che, di volta in volta, devono ricostruire, nuovamente, struttura e configurazione collettive4.

Questo modo di giocare innesta le sue radici all’interno di un’antica tradizione di cui la scuola sudamericana costituisce, probabilmente, la genesi e, insieme, il culmine massimo. Così, anche in questa costellazione affettiva che lega Napoli all’America Latina, la squadra di calcio ha risposto, in qualche modo, al carattere della città: in quella Napoli che ricerca origini e genealogie nel Sud del mondo al fine di farsi portatrice di un modo di vivere altro rispetto a quello convenzionale occidentale – meridionale, in una formula, qui assunto come termine da rivalutare in modo positivo. Se il mondo sudamericano tout court rappresenta lo sfondo di riferimento di questa costellazione, l’Argentina ne costituisce probabilmente il suo luogo specifico: Maradona, e il suo infinito ricordo, sono stati il tramite per accostare forme di vita comuni. Questo lo si può vedere anche nel calcio contemporaneo: non solo il Napoli vince, ancora una volta (come nel primo scudetto dell’’87), l’anno successivo alla vittoria dei Mondiali dell’Argentina, ma anche la Weltanschauung delle due squadre si compone di profonde analogie. La nazionale argentina, infatti, seppur con una predilezione maggiore alla fase difensiva rispetto alla squadra partenopea, ha sposato quello stesso tipo di gioco relazionale, asimmetrico, composto da giocatori tecnici ed estrosi (di cui la prima parte della finale dei Mondiali contro la Francia rappresenta l’espressione massima). Ecco l’elemento teoricamente fecondo: il recupero, in forme riattualizzate, di questa tendenza sudamericana di giocare a calcio che unisce, ancora una volta, in una costellazione Napoli e Buenos Aires. Il Sud del mondo come rappresentante di un modello creativo e associativo di giocare, alternativo alla tendenzaformale strettamente occidentale.

Una costellazione teorica e affettiva collega Napoli e Buenos Aires: forme di vita da osservare al fine di continuare a ricercare vie di uscita dalla decadenza dell’Occidente. Assumere dunque il Sud del mondo come un problema teorico di rilievo: microcosmi a cui guardare in quanto lì, nonostante i limiti e le contraddizioni che la narrazione dominante continua a ribadire, vi è la possibilità di rievocare alla memoria ciò che, all’interno della nostra cultura, sembra essersi definitivamente dissolto. Da quella ‘radiosa libertà di spirito’ di cui parlava Benjamin alla compenetrazione tra pubblico e privato, esistenza e polis: la possibilità, cioè, di trovarsi di fronte «[al]la vera e propria antitesi dell’individualismo borghese, dell’isolamento privato e dell’impersonalità, del “trattenuto cosmopolitismo” delle capitali europee moderne»5.

Ciò significa capovolgere la narrazione egemone: situare Napoli, e il Sud del mondo, al centro, e non più ai margini, della riflessione. Ciò che ha fatto, in qualche modo, la stessa squadra di calcio del Napoli in questa stagione, riferendosi sempre ed esclusivamente a se stessa: questa è stata la via privilegiata per mettere in discussione le categorie dominanti. Essa, cioè, incarnato esclusivamente quello che era, il proprio modo di esistenza, non vivendo nella costante critica di altre forme di vita, con il pericolo, in definitiva, di rimanerne subalterna: il proprio abitare la realtà si è costituito, dunque, come un modello spontaneamente positivo. Era questa, come accennato in precedenza, l’idea forte del filosofo barese Franco Cassano e del suo pensiero meridiano: dare dignità al sud come soggetto del pensiero, alla sua autonomia – leggere ciò che accade nel mondo non dal presunto centro, bensì posizionarsi ai margini ed alle periferie dell’impero per comprendere e interpretare la modernità. Pensare, cioè, quella tradizione meridionale, emarginata, come un possibile luogo a cui tornare per ritessere le fila dell’intero mondo: «non pensare il sud o i sud come periferia sperduta e anonima dell’impero, luoghi dove ancora non è successo niente e dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove. […] Epistemologicamente il sud, con la sua lentezza, con tempi e spazi che fanno resistenza alla legge dell’accelerazione universale può diventare una risorsa e quindi il collegamento tra i sud sottrae il pensiero […] alla forza di gravità del conformismo moderno»6.

Perveniamo, così, all’attualità di Napoli, al perché riflettere, ancora oggi, su questa città: quale è la sua relazione con la società e la Kultur odierne e, dunque, la sua carica rivoluzionaria? Dal momento in cui il capitalismo, come ha sottolineato spesso il filosofo italiano Mario Tronti, è stato in grado di assorbire all’interno dei meccanismi del suo potere l’intero essere umano – quando, si potrebbe dire con le parole del giovane Lukács, a predominare è una forma di Kultur che totalmente innerva nella decadenza gli esseri umani – non si può che partire da un pensiero che, per essere rivoluzionario, deve essere una filosofia dell’esistenza. Ed è proprio in questa centralità dell’esistenza, del sensibile, che risiede la profonda attualità di Napoli: nella possibilità, cioè, di scorgere un modello che, nonostante tutto, si muove, e continua a muoversi, in direzioni altre. In questo risiede la sua carica rivoluzionaria: quella forma di vita, infatti, fondantesi su quelle strutture fondamentali di cui sopra (porosità, creatività, improvvisazione, antieconomicismo), richiama alla memoria un modello di vita alternativo a quello egemone. Una ribellione spontanea, che, nonostante tutti i limiti e le contraddizioni dello spontaneismo, in questa specifica fase storica di crisi, risulta, tuttavia, essere decisiva: senza, infatti, quella mediazione del sensibile, dell’esistente, senza la memoria di «quella ricca barbarie»7 che proviene dal sottosuolo oppresso del potere dominante, sembra non esserci più spazio anche per strutture organizzate future in grado di contrapporsi, non solamente in modo spontaneo, a questo mondo. Insomma, Napoli costituisce quell’innesco che dovrà, poi, integrarsi con delle costruzioni antagoniste strutturate.

Tutto questo si lega, intimamente, alla tematica della festa: non solamente l’elemento gioioso che muove le strade della città in questi giorni (a seguito della conquista del terzo scudetto), ma anche, e soprattutto, da interpretare come un ulteriore tratto fondamentale del carattere della città. La possibilità di spezzare la continuità storica, di interrompere il tempo omogeneo e vuoto, di ribellarsi, tramite quella mediazione del sensibile e dell’esistente di cui sopra, alla forma di vita egemone – ecco gli elementi decisivi della festa napoletana. Inoltre, essa, come descritto acutamente da Walter Benjamin, si lega alla caratteristica della porosità: il giorno festivo non solamente sospende il continuum, ma fornisce, simultaneamente, la possibilità di ricostruire il tempo storico su nuove basi, all’interno della quale, finalmente, anche la quotidianità ed il giorno feriale possano riacquisire quella libertà di spirito in grado di decostruire le convenzioni dominanti – «irresistibilmente il giorno di festa pervade ogni giorno feriale. La porosità è la legge che questa vita inesauribilmente fa riscoprire. Un grano di domenica è nascosto in ogni giorno della settimana, e quanto del giorno feriale vi è in questa domenica»8. La festa, infatti, «determina una nuova origine storica»9: sospende questa continuità nell’anelito di coltivarne un’altra, all’interno della quale, in definitiva, possano continuare a esser presenti dei granelli di questa sospensione anche nei più estenuanti giorni lavorativi.

Infine, si deve sottolineare come la festa, nel contesto napoletano, non si costituisca mai come esclusivamente positiva, come pura affermazione: essa, infatti, continua a fondarsi, e a mantenere sullo sfondo, quegli elementi di pigrizia, malinconia, negatività. Scrive ancora Benjamin: «nondimeno nelle poche ore di riposo domenicale nessuna città riesce ad appassire più rapidamente di Napoli. [..] Quando si calano le persiane davanti alle finestre, è come quando altrove vengono issate delle bandiere»10. Qui abita ancora la malinconia, ulteriore tratto fondamentale del carattere della città, come l’altro lato della festa. Di quest’aspetto si sono fatti portatori due splendide figure della cultura napoletana, nonché tra loro carissimi amici, Massimo Troisi e Pino Daniele: il primo, con la messa in opera di quella maschera di Pulcinella imbarazzata, timida, autoironica e profondamente malinconica che risiede al fondo dei suoi film; il secondo, invece, restituendoci dei brani (da Napule è a Quanno chiove, da Allora sì a Quando) contraddistinti da una musicalità struggente in grado di richiamare alla memoria quel sottosuolo spirituale di Napoli, spesso dimenticato. Anche qui, in ultima istanza, siamo di fronte a una compenetrazione (ritorna costantemente quel carattere fluido, poroso) – tra la malinconia e la festa, vero ponte con il mondo latino americano: la prima come il motore del carattere gioioso della seconda, la quale, a sua volta, nel suo darsi, non potrà che richiamare, e mantenere permanentemente sullo sfondo, quella condizione di sottile malinconia che, ancora oggi, abita le strade di questa splendida città.

Note

1 Marco Ciriello, “Buonasera, napoletani”, Anfibia, 05.05.2023, https://www.revistaanfibia.com/napoli-campeon-maradona-osimhen-buonasera-napoletani/

2 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 3.

3 Walter Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino, 2007, p. 13.

4 Su un’analisi più dettagliata del modo di giocare del Napoli in questa stagione, cfr. Dario Pergolizzi, “Come gioca il Napoli 2022/23”, Ultimo Uomo, 04.05.2023, https://www.ultimouomo.com/come-gioca-il-napoli-2022-23/

5 Graeme Gilloch, Walter Benjamin, il Mulino, Bologna, 2008, pp. 127-128.

6 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, cit., p. 5.

7 Walter Benjamin, Immagini di città, cit., p. 3.

8 Ivi, p. 9.

9 Dario Gentili, Il tempo della storia. Le tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin, Quodlibet, Macerata, 2019, p. 199.

10 Walter Benjamin, Immagini di città, cit., p. 9.

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