Interventi

Articolo pubblicato su ‘il manifesto‘ il 30.08.2020

È evidente che siamo difronte a un tentativo di riforma alimentato da motivazioni strumentali (le esigenze di risparmio), ragioni perniciose e irrisorie (la riduzione dei costi della politica), sceneggiate teatrali (le forbici a Montecitorio). Tuttavia anche gran parte degli argomenti del fronte del No non mi convincono.
Appartengo a una tradizione politica e culturale che si è sempre battuta per il monocameralismo, per un parlamento meno ridondante nella sua composizione, ma più attivo e decidente.

E ancora oggi ritengo che un parlamento composto da circa mille membri non è – per un puro calcolo aritmetico – un parlamento più autorevole, più qualificato e maggiormente in grado di rappresentare le aspirazioni e gli interessi dei cittadini rispetto a un parlamento composto da seicento componenti.

Confondere la quantità degli eletti con la qualità della rappresentanza politica è un grave errore di sintassi costituzionale. Il buon e cattivo funzionamento delle assemblee politiche non dipende dal numero dei loro componenti: negli Usa il Senato è composto da 100 membri, nel Regno unito la Camera dei Comuni conta 650 rappresentanti, in Germania il Bundestag 709, l’Assemblea nazionale dispone in Francia di 577 membri. In questi giorni sui media fioccano numeri e tabelle che ci informano dettagliatamente di quello accade in ogni parte del mondo.
Resta però il fatto che quando ci si trova a discutere più approfonditamente della posizione delle assemblee politiche nel diritto pubblico comparato non si discute (quasi) mai di numeri, ma di altro: poteri, funzioni, leggi elettorali, forme di governo, bicameralismo, monocameralismo.

In nessuna parte del mondo la composizione numerica del parlamento risponde o è vincolata a principi costituzionali. Anche in Italia è così. Basti pensare che l’attuale configurazione numerica delle camere, sulla quale saremo chiamati pronunciarci il 20 settembre, non è quella voluta dal costituente. Il parlamento repubblicano delle origini era più snello e nella prima legislatura la camera era composta da 572 deputati. A modificare questo sistema, prevedendo una quota fissa di deputati (630) e senatori (315), fu una riforma costituzionale approvata nei primi anni sessanta (legge costituzionale n. 2/1963).
Allo stesso tempo appare a dir poco stupefacente l’affanno con il quale, da più parti, ci si ostina a ritenere che l’eventuale riduzione del numero dei parlamentari sia destinata a innescare una crisi grave e «dilaniante» del sistema rappresentativo, quasi che la rappresentanza abbia fino a oggi goduto di ottima salute e così anche la centralità del parlamento. Tutti noi sappiamo che così non è. E non lo è ormai da molto tempo. Questi ultimi decenni sono stati drammaticamente contrassegnati da una sorta di ribaltamento di ruoli tra parlamento e governo che ha messo a dura prova la Costituzione e le ragioni stesse del costituzionalismo: da una parte un governo legislatore che ha sistematicamente abusato della questione di fiducia e impiegato massicciamente decreti legge, decreti legislativi e ora anche i dpcm per «legiferare». Dall’altra un parlamento esecutivo, debole e subalterno che esercita sempre meno le proprie funzioni di controllo e non ha più tempo per discutere le leggi. Da ultimo neppure quella di bilancio.

Si tratta di questioni quanto mai complesse e dirimenti che ci confermano che il declino del parlamento non dipende dai numeri. Per rilanciare la rappresentanza politica c’è bisogno di più e di altro. A cominciare da una nuova legge elettorale di tipo proporzionale in grado di infrangere, una volta per tutte, la retorica della governabilità che continua – ahinoi – ad essere significativamente presente in cospicue frange dei due schieramenti referendari.
Certo, mi si potrebbe obiettare che a settembre non saremo chiamati a votare sulla legge elettorale, ma nemmeno – aggiungo io – sulle forbici di Di Maio o sui caffè che potremo risparmiare. Oggetto della consultazione referendaria è un quesito finalmente coerente ed omogeneo che chiede ai cittadini di pronunciarsi sulla riduzione del numero dei parlamentari. Una «semplice» domanda estranea nelle forme e nei contenuti all’insidiosa e sciagurata prassi dei quesiti omnicomprensivi in passato posti sulle «grandi riforme» della Costituzione (dal progetto Berlusconi al tentativo di riforma Renzi-Boschi).

È questo il quadro che abbiamo oggi difronte. Evitiamo quindi di precipitare in una fanatica e insensata guerra di religione tra difensori della «casta» e populisti, tra paladini della democrazia e nemici della Costituzione. Dal prossimo referendum non dipendono le sorti della democrazia, della Costituzione, della Repubblica italiana. Qualunque sarà il suo esito sarà un esito legittimo: a determinarlo sarà stato il popolo sovrano nelle «forme e nei limiti della Costituzione» (articolo 1).
Il parlamento repubblicano in questa partita non avrà nulla da perdere e avrà invece molto da guadagnare soprattutto se, una volta chiuse le urne e rotti gli steccati Sì/No, saremo in grado di impegnarci per rilanciarne la forza e la centralità attraverso l’introduzione (non più procrastinabile) della proporzionale. Un percorso già avviato in parlamento. E che il parlamento dovrà portare stabilmente a compimento all’indomani del referendum.

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