Qualche giorno fa il rettore dell’Università di Torino ha revocato la concessione di un’aula destinata a un seminario di diritto internazionale sul conflitto Russia-Ucraina, all’interno del quale era prevista la proiezione e la discussione del documentario “Maidan, la strada verso la guerra”. A giustificazione di questa decisione, oltremodo irrituale, ha invocato l’applicazione di un regolamento europeo (il n. 350 del 2022) che vieta la radiodiffusione di contenuti di Russia Today, il canale televisivo russo che ha prodotto il documentario. Il docente organizzatore del seminario ha interpellato il Comitato di garanzia dell’università, ottenendone ragione, e ha successivamente presentato un ricorso urgente al TAR. Tuttavia, il tribunale ha respinto in via cautelare il ricorso con una motivazione singolare: poiché il film in questione non era un documentario pertinente alle tematiche giuridiche, bensì un prodotto della disinformazione russa, il divieto di proiezione non violava la libertà di insegnamento né rappresentava un danno per gli studenti.
L’applicazione del regolamento europeo da parte del Rettore ha suscitato notevoli perplessità, almeno tra i giuristi, poiché il regolamento riguarda esclusivamente la radiodiffusione – cioè la trasmissione via etere, cavo, satellite o streaming online – e non la semplice proiezione di un filmato di fronte a un pubblico in presenza. Non serve qui richiamare la giurisprudenza consolidata in materia: chi non comprende la differenza tra un’aula universitaria e un canale televisivo o di streaming?
Ma al di là dell’uso pretestuoso della norma, e della discutibile pronuncia del TAR, questa vicenda solleva una questione più ampia: il regolamento in questione mette infatti a dura prova alcuni diritti fondamentali e costituzionali. L’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE stabilisce infatti che “Ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, mentre la nostra Costituzione, all’articolo 21, dichiara che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” E al secondo capoverso specifica che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
In deroga a questi principi, il regolamento promulgato dal Consiglio d’Europa all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina, ha introdotto per la prima volta nel diritto euro-unitario un divieto alla radiodiffusione di contenuti prodotti da un’emittente straniera sul territorio dell’Unione. Il regolamento motiva questa misura eccezionale con la necessità urgente di contrastare le “operazioni di influenza” e le ingerenze della Russia, che rappresentano una minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza dell’Unione. Tuttavia, lo stesso testo specifica che le restrizioni imposte non devono violare i diritti fondamentali sanciti dalla Carta, in particolare il citato articolo 11 sulla libertà di informazione. Dunque, fino a che punto può spingersi questa “risposta urgente” senza che siano violati diritti fondamentali?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo riferirci alla sentenza della Corte di giustizia UE sul ricorso di RT France (l’emissaria francese di Russia Today) contro il regolamento. Pur rigettando il ricorso, la Corte, con sentenza del 27 luglio 2022, ha stabilito il perimetro entro il quale il divieto di trasmissione rispetta il principio di proporzionalità che si applica a ogni limitazione dell’esercizio delle libertà fondamentali. In sintesi, la Corte ha avanzato quattro considerazioni per ritenere il divieto “non sproporzionato” rispetto all’obiettivo di interesse generale che intende perseguire. La prima è che il divieto è “temporaneo”, cioè ha una natura transitoria legata al “momento critico” dell’invasione russa dell’Ucraina. La seconda è che le immagini radiotelevisive sono soggette a maggiori restrizioni rispetto alla parola scritta poiché esercitano un impatto più immediato e profondo sull’opinione pubblica. La terza è che le misure intervengono in un “contesto del tutto eccezionale” e hanno quindi il carattere di eccezione che non smentisce la regola. Infine, un ultimo capitolo di considerazioni riguarda il contenuto delle trasmissioni oggetto di divieto, in cui – a parere della Corte – venivano presentate informazioni “selezionate”, tra cui “informazioni palesemente false o ingannevoli, che rivelavano un evidente squilibrio nella presentazione dei vari punti di vista opposti”. Sebbene in condizioni normali ciò non precluda l’esercizio della libertà di parola, la Corte osservava che “in situazioni di conflitto e di tensione” (ovvero, di nuovo, eccezionali) si pone in capo ai gestori degli organi di informazione una maggiore responsabilità e un dovere di controllo dell’obiettività dell’informazione.
In definitiva, per la Corte lo scopo legittimo del regolamento era quello di “tutelare l’integrità del dibattito democratico in seno alla società europea […] in un momento critico in cui le azioni di un organo di informazione […] potevano avere un’influenza significativamente deleteria sull’opinione pubblica, creando altresì una minaccia potenziale all’ordine pubblico e alla sicurezza dell’Unione”.
Ora, nell’argomentazione della Corte si potrebbe percepire un tono vagamente paternalistico, tale da implicare – riprendendo la celebre immagine usata da Kant nel saggio Risposta alla domanda che cos’è illuminismo? – un pubblico ancora in una condizione di “minorità”, e quindi bisognoso di tutela, anziché ormai maturo e in grado di usare autonomamente la ragione. Ci si domanda allora se sia davvero plausibile che l’abitante del “giardino UE” (come lo ha definito Borrell) sia incapace di discernere le informazioni anche in base alla loro provenienza e di formarsi autonomamente un’opinione.
Ma ammettiamo pure che, nei giorni immediatamente successivi al 24 febbraio 2022, quando l’esercito russo varcò i confini orientali dell’Ucraina, le informazioni fossero così caotiche e contraddittorie che un telespettatore europeo medio, imbattendosi in Russia Today, potesse assorbire informazioni a tal punto squilibrate da comprometterne la capacità di giudizio. Ebbene, ammettiamo inoltre che questo avrebbe potuto, almeno in ipotesi, causare una distorsione così grave dell’opinione pubblica e un vulnus così profondo all’integrità del dibattito democratico da rappresentare una minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza. Come ricordato, è la stessa Corte a sottolineare che il divieto è stato adottato in un “momento critico”, caratterizzato da un “contesto del tutto eccezionale”, in cui poteva trovare giustificazione una restrizione “temporanea e transitoria” (l’aggettivo “temporaneo” compare ben 27 volte nel dispositivo) della libertà d’informazione. Ma ora, a tre anni dall’inizio del conflitto, in un contesto profondamente mutato sotto molti aspetti, si può dire che sussistano ancora quelle condizioni?
La risposta è certamente negativa. In questi tre anni il pubblico europeo ha avuto ampio modo di conoscere le varie fonti di informazione sul conflitto, di ponderarle e di formarsi un giudizio sulla loro affidabilità. L’“integrità del dibattito democratico” non è più minacciata ora di quanto non lo sia sempre stata da quando esistono la propaganda, la pubblicità ingannevole e l’informazione di parte – tutte cose riprovevoli, ma che non hanno mai giustificato interventi di censura preventiva. Inoltre, il contesto geopolitico è mutato in modo considerevole: sebbene il conflitto russo-ucraino continui, si è però aperta una fase di negoziazione nella quale l’opinione pubblica ha il diritto di conoscere le posizioni, in continua evoluzione, di entrambe le parti. Anche se i media occidentali riportano comunque le posizioni negoziali della Russia, un accesso diretto e non filtrato alle fonti arricchirebbe la completezza dell’informazione – o quantomeno non comporterebbe alcuna “minaccia”.
Poiché sono venute meno le condizioni eccezionali che giustificavano una misura così drastica per uno Stato di diritto come la limitazione della libertà di stampa, il regolamento 350/2022 dovrebbe essere immediatamente abrogato. Prolungarne l’applicazione sine die significherebbe trasformare una misura temporanea ed eccezionale nella norma. E con ciò si rischierebbe di legittimare un presupposto tanto pericoloso quanto contrario al dettato costituzionale: quello per cui è “normale” sottoporre l’informazione a un regime di autorizzazione, con la conseguente distinzione tra fonti “ufficialmente autorizzate” e fonti “non autorizzate”. Non è difficile scorgere la china pericolosa su cui si finirebbe per scivolare. Se un presupposto simile finisse per essere accettato dall’opinione pubblica, questo sì rappresenterebbe una minaccia ben più seria e più duratura all’integrità del dibattito democratico all’interno della società europea.