Materiali

Operaismo e politica

Pubblichiamo il testo della conferenza tenuta al convegno internazionale "Historical Materialism 2006. New Directions in Marxist Theory", Londra 8-10 dicembre 2006
Pubblicato il 10 Dicembre 2006
Materiali, Officine Tronti, Scritti
Intanto, che cos’è “operaismo”. E’ un’esperienza che ha cercato di unire pensiero e pratica della politica, in un ambito determinato, quello della fabbrica moderna. Alla ricerca di un soggetto forte, la classe operaia, in grado di contestare e di mettere in crisi il meccanismo della produzione capitalistica.
Sottolineo il carattere di esperienza. Si trattava di giovani forze intellettuali che si incontravano con le nuove leve operaie, introdotte soprattutto nelle grandi fabbriche dalla fase taylorista e fordista dell’industria capitalistica. Quello che era avvenuto negli anni Trenta in Usa avveniva negli anni Sessanta in Italia.
Il contesto storico era proprio quello degli anni Sessanta del Novecento. In Italia, c’è in quel periodo il decollo di un capitalismo avanzato, il passaggio da una società agricolo-industriale a una società industriale-agricola, con uno spostamento migratorio di forza-lavoro dal sud contadino al nord industriale.
Si disse: neocapitalismo. Produzione di massa-consumi di massa modernizzazione sociale con welfare State modernizzazione politica con governi di centro-sinistra, democristiani più socialisti mutamento di costume, di mentalità, di comportamento. Si andava verso il ’68 Che in Italia sarà ‘68-’69, contestazione giovanile più autunno caldo degli operai, quando ci fu un forte cambiamento del rapporto di forza tra operai e capitale, con il salario che andò a incidere direttamente sul profitto.
E questo poté avvenire, anche perché c’era stato l’operaismo, con il richiamo alla centralità della fabbrica, alla centralità operaia, nel rapporto sociale generale. L’operaismo è dunque stata un’esperienza politica che ha contato storicamente, cioè in una situazione storica determinata.
Si trattava di dare una nuova forma, teorica e pratica, alla contraddizione fondamentale. Questa veniva individuata all’interno stesso del rapporto di capitale, quindi nel rapporto di produzione, quindi in quello che chiamavamo
“il concetto scientifico di fabbrica”. Qui l’operaio, collettivo, aveva potenzialmente, se lottava, se organizzava le sue lotte, una sorta di sovranità sulla produzione. Era, o meglio, poteva diventare, un soggetto rivoluzionario.
La figura centrale era l’operaio di linea, l’operaio alla catena di montaggio, nell’organizzazione fordista del processo produttivo e nell’organizzazione taylorista del processo lavorativo. Qui l’alienazione del lavoratore toccava il suo livello massimo. L’operaio non solo non amava, ma odiava il suo lavoro. Il rifiuto del lavoro diventava un’arma mortale contro il capitale. La forza-lavoro, in quanto parte interna del capitale, capitale variabile distinto dal capitale costante, facendosi autonoma, si sottraeva alla funzione di lavoro produttivo, impiantando una minaccia nel cuore del rapporto capitalistico di produzione.
La lotta contro il lavoro riassume il senso dell’eresia operaista Sì, l’operaismo è un’eresia del movimento operaio. Bisogna considerarlo rigorosamente dentro la grande storia del movimento operaio, non fuori, mai fuori. Una delle tante esperienze, uno dei tanti tentativi, una delle tante fughe in avanti, una delle tante generose rivolte e una delle tante gloriose sconfitte.
Noi, seguendo l’indicazione di Marx, che studiava le leggi di movimento della società capitalistica, andavamo a studiare le leggi di movimento del lavoro operaio. Le lotte operaie hanno sempre spinto in avanti lo sviluppo capitalistico, hanno costretto il capitale all’innovazione, al salto tecnologico, al mutamento sociale. La classe operaia non è classe generale. Così l’hanno voluta rappresentare i partiti della Seconda e della Terza Internazionale. Era giusta la frase di Marx: il proletariato, emancipando se stesso, emanciperà tutta l’umanità. Questo processo è già avvenuto, limitato al solo Occidente. Se emancipazione è progresso, modernizzazione, benessere, democrazia, tutto questo c’è, ma tutto questo è servito a una grande rivoluzione conservatrice, a un processo di stabilizzazione del sistema capitalistico, che oggi, com’era nella sua vocazione originaria, assume la dimensione dello spazio-mondo, ordine mondiale di dominio che scende dall’alto dell’Impero, ma sale anche dal basso, introiettato in una mentalità borghese maggioritaria.
I sistemi politici democratici sono oggi la tribuna del libero assenso a una servitù volontaria.
L’operaismo, cioè la rivendicazione della centralità operaia nella lotta di classe, si è scontrato con il problema del politico.
In mezzo, tra operai e capitale, io ho trovato la politica: nella forma delle istituzioni, lo Stato, nella forma delle organizzazioni, il partito, nella forma delle azioni, tattica e strategia.
Il capitalismo moderno non sarebbe mai nato senza la politica moderna. Hobbes e Locke vengono prima di Smith e Ricardo.
Non ci sarebbe stata accumulazione originaria di capitale senza accentramento statale delle monarchie assolute. La storia d’Inghilterra insegna. La prima rivoluzione inglese, quella brutta della dittatura di Cromwell, e quella bella, gloriosa, del Bill of Rights, corrispondono alle due fasi dettate da Machiavelli: sono due cose diverse la conquista del potere e la gestione del potere, per la prima ci vuole la forza, per la seconda ci vuole il consenso. Il capitalismo libero-concorrenziale ha avuto bisogno dello Stato liberale, il capitalismo del welfare ha avuto bisogno dello Stato democratico. Poi, attraverso la soluzione, provvisoria, del totalitarismo, fascista e nazista, la sintesi della democrazia liberale ha stabilizzato il dominio della produzione capitalistica.
E adesso siamo nella fase della esportazione del modello a livello mondo. Non tutto funziona secondo i piani del capitale. La cosa oggi più interessante politicamente
è il mondo. La “grande trasformazione”, per usare l’espressione di Polanyi, riguarda lo spostamento del baricentro mondiale da Occidente a Oriente.
I nostri paesi, europei, al loro interno, lasciano scarsi motivi di interesse. E’ difficile appassionarsi alla politica con i Blair e con i Prodi.
Ma il capitalismo è un ordine, e oggi, come aveva previsto Marx, un ordine mondiale, che continuamente rivoluziona se stesso. E’ qui il punto di interesse.
Guardate la rivoluzione che ha portato nel mondo del lavoro. Per rispondere alla minaccia della centralità operaia ha deciso di abbattere la centralità dell’industria, e ha abbandonato, o ha rivoluzionato, quella società industriale, che era stata la ragione e lo strumento della sua nascita e del suo sviluppo.
Quando l’isola di montaggio sostituisce la linea, la catena, di montaggio nella grande fabbrica automatizzata e si entra nella fase postfordista, tutto il resto del lavoro cambia, nel classico passaggio dalla fabbrica alla società.
La domanda di oggi: esiste ancora la classe operaia? La classe operaia come soggetto centrale della critica al capitalismo. Non quindi come oggetto sociologico ma come soggetto politico. E le trasformazioni del lavoro, e della figura del lavoratore, dall’industria ai servizi, dal lavoro dipendente al lavoro autonomo, dalla sicurezza alla precarietà, dal rifiuto del lavoro alla mancanza di lavoro, tutto questo che cosa comporta politicamente? E’ di questo che dobbiamo discutere.
L’operaismo è stato il contrario dello spontaneismo. E l’opposto del riformismo.
Più vicino, quindi, al movimento comunista delle origini che alle socialdemocrazie classiche e contemporanee. Ha coniugato di nuovo, in modo creativo, Marx con Lenin.
Mi chiedo, se nelle condizioni trasformate del lavoro di oggi,
frantumazione, dispersione, individualizzazione, precarizzazione – delle figure di lavoratori si possa tornare a coniugare qui e ora analisi del capitalismo e organizzazione delle forze alternative. E non ho una risposta. So per certo che non si dà lotta vera, seria, in grado di fare conquiste, senza organizzazione. Non si dà conflitto sociale capace di battere l’avversario di classe senza forza politica.
Questo è quello che abbiamo imparato dal passato.
Se i nuovi movimenti non raccolgono l’eredità della grande storia del movimento operaio, per portarla avanti in forme nuove, per essi non c’è futuro.
Nuove pratiche, nuove idee, ma dentro una storia lunga.
Guardate. Ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo.
E ai capitalisti bisogna fare paura. E’ ora che un altro spettro cominci ad aggirarsi, non solo in Europa, ma nel mondo. Lo spirito, risorto, del comunismo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *