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Passaggio al lavoro vivo. Primi appunti sulla non-opera

Un altro contributo di Francesco Matarrese sul rapporto tra arte e lavoro
Pubblicato il 28 Settembre 2014
Arte e lavoro, Laboratori, Materiali, Scritti

SUL DECLINO DELL’ARTE D’AVANGUARDIA

1. “Die Kunst, das ist, Sie erinnern sich, ein marionettenhaftes, jambisch-fünffüßiges und – diese Eigenschaft ist auch, durch den Hinweis auf Pygmalion und sein Geschöpf, mythologisch belegt – kinderloses Wesen.” (Paul Celan, Meridian, S.2). In un’ora imprecisata e crepuscolare del tempo della fine avanza a passi incerti l’automa spettrale dell’arte d’avanguardia. Ha una sorprendente somiglianza con la figura marionettesca descritta da Celan in Meridian. Si agita freneticamente e, come ai tempi di Danton, maledice senza fine la teatralità di Robespierre, colpevole di essere diventata solo una crudele e dannata istituzione. Poi la triste marionetta si accascia non dando più segni di vita e lasciando senza risposta l’enigma di quelle maledizioni, che indicavano nell’arte come istituzione il male radicale, la materia perversa dell’arte. Alla fine del novecento la teoria critica dell’arte d’avanguardia e alcune schegge quasi dimenticate dell’arte post-concettuale, avevano intercettato nell’arte in generale del tardo modernismo la funerea realizzazione pratica dell’arte come istituzione (Peter Bürger, Theorie der Avantgarde, Frankfurt, 1974) e dell’arte come pubblicità (Marcel Broodthaers). La neoavanguardia artistica americana, in particolare, per affermare la propria egemonia, aveva cercato nella seconda parte del secolo, di trasformare l’arte d’avanguardia in una istituzione totale, in un organo dell’arte più in generale possibile. Ad opporsi si era trovata solo la pratica del rifiuto dell’arte in generale guidata da alcuni artisti postminimalisti e postconcettuali degli anni settanta (da Robert Morris a Marcel Broodthaers, da Michael Asher e Daniel Buren a James Coleman). Dalle nebbie del conflitto, era emersa a tratti e spesso in modo confuso la non-arte, chiamata in vita (sia pure in senso indiretto) dalla coscienza senile del tardo modernismo americano (Clement Greenberg, Recentness of Sculpture, in ‘American Sculpture of the Sixties’, Los Angeles County Museum of Art, 1967; Michael Fried. ‘Art and Objecthood’, in Artforum, June 1967). L’avanguardia ne era uscita stravolta. Stretta irrimediabilmente tra un’antica ma sempre meno convinta vocazione antistituzionale e una progressiva istituzionalizzazione dei suoi confini (la dannata istituzione), doveva ammettere il fallimento e il declino, non solo della sua egemonia, ma dell’intero progetto avanguardistico. Qualcosa di inaudito e profondamente traumatico era accaduto.
PRIMA NOTA La lotta contro l’istituzionalizzazione dell’arte e la lotta contro le illusioni della pittura erano rimaste per tutto il novecento gli obiettivi di fondo della volontà d’arte delle avanguardie artistiche. Presto però questi obiettivi si erano trasformati in promesse non mantenute, in sogni infranti. Le origini di questo fallimento sono da ricercare negli insanabili contrasti tra consenso e potere durante la Rivoluzione francese. Questi, si accentuarono nel ’48, quando l’artista borghese si sentì tradito dall’istituzione. Il modello del Diciotto brumaio di Karl Marx può essere ancora utile, come suggerisce Thomas Crow in Modern Art in the Common Culture (1996), per interpretare la complessa dinamica tra l’avanguardia e le numerose repliche neoavanguardistiche. Nel contrasto tra gli ideali del ’48 e le promesse non mantenute della Francia del tempo è da ricercare la prima ragione della nascita di un’arte borghese come avanguardia di contestazione dello stesso potere borghese. Un’arte dunque di resistenza e opposizione ma anche di ambigua complicità.
SECONDA NOTA Lo scultore americano Tony Smith nel 1966 pubblicava su Artforum un breve resoconto di un viaggio fatto in autostrada, la New Jersey Turnpike. Rivelava la strana circostanza di essersi trovato a un certo punto dinanzi alla fine dell’arte: “I thought to myself, it ought to be clear that’s the end of art”. Questa testimonianza veniva ripresa da Michael Fried in Art and Objecthood.

PER UN RACCONTO LIBERATORIO DEL DECLINO

2. La prima risposta al trauma del declino dell’arte d’avanguardia era venuta dall’interno stesso della neoavanguardia. Un sofferto e spesso nascosto silenzio aveva contraddistinto la reazione immediata a questo evento. Successivamente per evitare la trasformazione del silenzio in rimozione era intervenuta una forte volontà di elaborazione narrativizzata del trauma. Interrogarsi oggi sul senso del declino dell’arte significa ricomporre l’infranto e il trauma della sua agonia con una storia capace di narrarne gli eventi e di immaginare un nuovo lavoro vivo (Marx) per l’arte. Il racconto di questi eventi ancora oggi è difficile e complesso. La storia che ha portato l’arte in generale (il tardo modernismo americano in particolare) a colonizzare con l’inganno (della purezza indipendente) l’arte d’avanguardia e a determinarne la sua fine è piena di insidie. Sappiamo che l’arte d’avanguardia come la più povera delle marionette, scoperta la sinistra macchinazione ordita ai suoi danni, aveva tentato inutilmente di strappare a Marte la promessa di una salvezza. Solo l’opposizione, purtroppo non sempre esplicita, degli artisti del rifiuto del lavoro astratto in arte ha tenuto testa all’egemonia modernista. Conosciamo la reazione rabbiosa e scomposta dell’arte in generale quando questa opposizione le ha strappato la maschera di purezza, mostrando al mondo intero il vero volto dell’art pour l’art. Non riuscendo più a sfuggire alla verità (e cioè alla dipendenza dalle leggi della società capitalistica), l’arte in generale è stata costretta a svelare sino in fondo la sua vera natura di lavoro in generale, di merce in generale (marxianamente lavoro in generale e morto, per l’indifferenza verso il particolare lavoro vivo). La pratica del rifiuto del lavoro astratto in arte ha così richiamato la coscienza degli artisti sul terrorizzante e spettrale mondo in cui ogni cosa e ogni essere umano è indifferentemente scambiabile con qualsiasi altra cosa e persona. Alla fine di questa lotta drammatica e decisiva l’opposizione all’arte in generale e al lavoro astratto e morto in arte (storicamente parallelo al rifiuto del lavoro astratto degli operai della fabbrica moderna), esaurito il compito storico di critica del modernismo, ha ceduto il testimone alla non-arte. Il tramonto sia della classe operaia che dell’arte d’avanguardia sono l’esito inequivocabile di questa vera e propria gigantomachia. Al termine dell’immane conflitto, a vigilare sulle monumentali rovine, sono rimasti, attoniti e solitari, solo due testimoni, la non-arte e il non-lavoro, che hanno ricevuto il compito di liberare l’avanguardia dal lavoro morto e indifferente. A un lato della scena si offrono allo sguardo della storia i corpi senza vita degli eroi del passato lavoro. Al centro è visibile l’angelo caduto che prima di spegnersi ha liberato l’ultimo bagliore, consegnando il testimone e legittimando il passaggio. Una sentinella della notte ha cantato questa fine restando in attesa della grande politica e della grande arte.
TERZA NOTA L’art pour l’art ovvero l’arte in generale è una categoria antidiluviana (come il lavoro in generale, direbbe Marx), che solo in una società industrialmente avanzata come la nostra si è trasformata in una categoria concreta e comprensibile, sopratutto nel tardo modernismo americano. Questa tesi è stata felicemente portata avanti da Peter Bürger nel suo Teoria dell’avanguardia (all’interno di una originale rilettura dei Grundrisse di Marx). C’è da aggiungere alla nota tesi di Bürger una precisazione: ciò è potuto accadere solo per la presenza nella fabbrica fordista del lavoro in generale o astratto (controparte dell’arte in generale), a causa del quale un operaio può passare indifferentemente da un lavoro all’altro come una qualsiasi merce (Marx). A questo lavoro, prima l’operaio poi l’artista hanno opposto una strenua resistenza con un netto e storico rifiuto. L’elemento storico generatore per ambedue è il comune sentimento di lotta contro il lavoro come è inteso nella società capitalistica. Nel contesto del nostro discorso faremo riferimento a due casi esemplari di questa lotta nel novecento, quello della classe operaia americana negli anni trenta e quello della classe operaia italiana negli anni sessanta. Il periodo storico interessato va dalla fabbrica fordista (dopo il ’29) alla crisi di quest’ultima, determinato dal movimento del rifiuto del lavoro astratto. Lo storico dell’arte americano Meyer Schapiro già nel ’37 (Meyer Schapiro, “The Nature of Abstract Art”, in Marxist Quarterly 1, New York, gennaio 1937), prendeva le distanze da un’arte astratta troppo purista e modernista, nel contesto di quelle lotte operaie a cui almeno una parte del modernismo pittorico idealmente si richiamava (da Art Front a Marxist Quarterly). Il rifiuto del lavoro astratto degli operai americani degli anni trenta era guidato da un proletariato particolarmente dequalificato. Erano operai pensati per la prima volta dal capitalismo per essere disponibili indifferentemente per un qualsiasi lavoro, cioè per un lavoro astratto e in generale. Questa classe operaia si distingueva dopo la crisi del ’29 per i grandi scioperi del 1937 e per diversi tipi di rifiuto del lavoro. Successivamente, a raccogliere il testimone del rifiuto del lavoro astratto sarà la classe operaia italiana degli anni sessanta. Anche questa era guidata da un tipo di operaio dequalificato (soprattutto del sud d’Italia), condannato a passare indifferentemente da un lavoro all’altro (il lavoro astratto e in generale), il cosiddetto operaio massa, che esprimeva probabilmente la più convinta e forte pratica di rifiuto del lavoro astratto del novecento. Mario Tronti in Operai e capitale (1966) ne ha descritto l’abbagliante luce profetica. Il rifiuto del lavoro astratto e in generale in arte doveva affermarsi in ritardo rispetto al rifiuto operaio. Come al movimento operaio degli anni sessanta era stato demandato il compito di smascherare la falsa autonomia delle forze produttive, così ad alcuni artisti tra gli anni sessanta e settanta, desiderosi di emanciparsi da una neoavanguardia obsoleta e menzognera, era stato demandato il compito di una radicale antiforma in arte, per completare definitivamente il lavoro contro le illusioni della forma iniziato dalle avanguardie artistiche del primo novecento (dal cubismo sintetico di Pablo Picasso in rivolta contro le illusioni dei realismi pittorici alla resistenza “orizzontale” di Jackson Pollock contro la “verticalità” pittorica tradizionale). La “Anti-Form” degli anni sessanta, pioneristicamente teorizzata da Robert Morris, era rottura della forma modernista e purista. Noi oggi la leggiamo come anticipazione del rifiuto del lavoro astratto in arte. Una pratica del rifiuto come attività critica era rintracciabile agli inizi degli anni settanta in alcuni artisti postminimalisti e postconcettuali, soprattutto dopo Documenta 5 di Kassel del 1972. Benjamin Buchloh ha esplicitamente parlato di negazione critica a proposito della pratica decostruttiva di alcuni di questi artisti. Tra questi si distingueva in modo particolare Marcel Broodthaers che, con la sua critica radicale di un’arte ridotta a sola pubblicità, diveniva in questo periodo una sorta di cavaliere errante della nuova condizione. Negli anni successivi l’eredità di Broodthaers veniva raccolta da alcuni artisti postconcettuali. Verso la fine degli anni ’70 il rifiuto del lavoro astratto era esplicitamente dichiarato (Francesco Matarrese, 1978).

TRANSIZIONE E RIVOLUZIONE COPERNICANA DELLA NON-ARTE

3. La non-arte durante la drammatica e teatrale fase del tramonto dell’avanguardia è stata chiamata a vigilare sull’intero patrimonio di lotte accumulato dal rifiuto dell’arte in generale (o altrimenti detto rifiuto del lavoro astratto in arte) e ad agevolare il passaggio al lavoro vivo in arte.
4. Solo oggi però siamo in grado di riconoscere il ruolo determinante svolto dalla non-arte nello sviluppo e nel tramonto delle avanguardie. La non-arte ha visto crescere progressivamente la sua importanza soprattutto negli ultimi anni del novecento. In questa fase si è rovesciata la sua posizione che da marginale e periferica è diventata centrale e decisiva. Questa inversione può essere considerata una sorta di rivoluzione copernicana nell’arte, simile a quella riconosciuta da Mario Tronti nel movimento operaio italiano, per il ruolo guida avuto dal non-lavoro e dal rifiuto operaio del lavoro astratto. Nella prospettiva di questa rivoluzione copernicana le forze produttive e cioè la scienza, la tecnica, l’organizzazione del lavoro e noi aggiungiamo l’arte (nell’età della società dello spettacolo), non hanno più subito la pressione unilaterale del capitale, a causa di una straordinaria ed inaudita centralità operaia. In tal modo le forze produttive sono state sottratte al limbo di uno sviluppo tutto chiuso in sé e separato dalle determinazioni sociali (come voleva il marxismo ortodosso) e le diverse forme di rifiuto del lavoro astratto sono diventate nei fatti una critica alla pretesa neutralità della scienza e dell’arte per l’arte. Già alla fine del secondo conflitto mondiale, se da un lato a New York Clement Greenberg autorizzava e giustificava l’imbarazzante passaggio del suo gruppo di pittori dal marxismo all’arte in generale, in Italia, grazie ai contributi di un marxismo nuovo e originale, si gettavano le basi per una critica radicale della purezza modernista. Proprio dall’Italia partiva, all’unisono con lo sviluppo di un forte e coraggioso movimento operaio del non-lavoro e del rifiuto del lavoro astratto, una nuova lettura di Marx (dal Frammento sulle macchine ai Manoscritti matematici) e una critica originale dell’autonomia delle forze produttive (Raniero Panzieri e la critica della scienza pura). Questa lettura proponeva anche una nuova visione della macchina (cuore delle forze produttive), che come Marx aveva ben intuito, da un lato incorporava il lavoro vivo dell’operaio, dall’altro stava accumulando la più devastante quantità di lavoro morto nella storia dell’umanità. Facendo tesoro di questo lavoro critico è ora possibile meglio illuminare il rapporto tra rifiuto del lavoro in arte e rifiuto operaio del lavoro. Esattamente come il rifiuto del lavoro astratto in fabbrica e il non-lavoro avevano denunciato la spietata incorporazione del lavoro vivo nelle macchine (trasformate in spettrali espressioni di lavoro morto) così anche il rifiuto del lavoro astratto in arte e la non-arte stavano denunciando la sinistra incorporazione o metamorfosi del lavoro vivo nel lavoro morto dell’arte per l’arte. Solo strappando il lavoro vivo alla morsa del lavoro morto dell’arte per l’arte si può offrire all’arte stessa una reale possibilità di sopravvivenza. La non-arte e il non-lavoro non a caso, alla fine del novecento, sono alla guida copernicana dell’intero processo di civilizzazione della modernità. L’alleanza tra non-arte e non-lavoro è al centro del nostro racconto e allontana il pericolo, denunciato con veemenza da Manfredo Tafuri, di una possibile sinistra “pianificazione” dello stesso rifiuto dell’arte in generale. Questa alleanza può dare una spiegazione interna e nuova ai fatti dell’arte, come chiedeva il paradigma processuale dell’arte postminimalista.
QUARTA NOTA Nel corso del novecento la non-arte (in un senso critico e non genericamente nichilista) si sviluppava gradualmente all’interno delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie. Gli artisti delle avanguardie storiche, al di là delle generiche dichiarazioni di anti-arte, diventavano produttori di margini, di non-arte, soprattutto nella pratica di critica delle illusioni dei realismi artistici borghesi. Questo era ciò che avveniva per esempio nel cubismo sintetico. Altrettanto interessante era la presenza della non-arte all’interno delle neoavanguardie. Clement Greenberg la chiamava ad esistenza (sia pure in senso negativo) nel suo Recentness of Sculpture del 1967 (e ancor prima, sia pure in modo non esplicito, in Avant-Garde and Kitsch del ’39). Questo scritto era oggetto di importanti riflessioni, nello stesso anno, di Michael Fried in Art and Objecthood. Nei due testi l’occasione per discutere di non-arte era data dalla critica all’arte minimalista considerata da questi storici solo una forma mascherata di teatro, di spettacolo, di non-arte. Noi pensiamo che la spettacolarizzazione dell’opera, che invade e funesta oramai senza alcun ritegno il mondo dell’arte contemporanea, non sia tanto l’esito sciagurato del culto contemporaneo delle installazioni d’arte ma il risultato di uno status che gradualmente si è imposto in tutte le tendenze neoavanguardistiche e che è quello dell’arte in generale (l’aquila di Broodthaers). Rosalind Krauss, in A Voyage on the North Sea: Art in the Age of the Post-Medium Condition (London 1999), ha efficacemente dimostrato che le diverse specificità (quella minimalista e modernista) sono in verità varianti dell’arte in generale, dell’essenzialismo, insomma di un’arte al servizio dello spettacolo generale. Greenberg invece ha sempre negato un possibile coinvolgimento dell’essenzialismo modernista all’interno dello spettacolo e del kitsch generale. Già in Avant-Garde and Kitsch del ’39 fa coincidere il kitsch con la cultura fascista e quindi con tutto ciò che non è arte. Noi riteniamo che questo sia stato un errore teorico e strategico importante (in parte determinato dalla cultura della Partisan Review) perché ha allontanato l’attenzione dell’artista da quel problematico schermo totale sul quale, già in quel periodo, si stava velocemente trasferendo la realtà. L’epoca successiva si incaricherà di chiarire definitivamente che la realtà non è più il blocco unico e monolitico che i modernisti degli anni trenta vedevano come il perverso regno della massificazione ingannatrice e del kitsch fascista. Niente è fuori. Il reale traumatico e illusorio è il nostro unico e solo deserto spettacolare con il quale fare i conti (Guy Debord, La société du spectacle, Paris 1967).

PASSAGGIO AL LAVORO VIVO

5. Solo la non-arte può garantire il passaggio al lavoro vivo in arte. C’è un significato di non-arte, quasi dimenticato, portato alla luce da Clement Greenberg a metà degli anni sessanta. Tra le righe di uno dei suoi ultimi scritti sullo scultore americano Anthony Caro, lo storico del modernismo avanzava un significato di non-arte lungimirante e profetico. Per Greenberg lo zenit del modernismo di Caro era rappresentato da una vera e propria “emphasis on abstractness” da opporre nel modo più radicale alla natura, vera non-arte. Il suo modernismo era “on radical unlikeness to nature” (Clement Greenberg, ’Contemporary Sculpture: Anthony Caro’, in Arts Yearbook 1965). Ecco il punto. La vera damnatio per l’arte modernista non è la teatralità, come più volte sostenuto da Fried, ma la natura. Qui si combatte l’ultima battaglia. In questa natura c’è la vera non-arte, qui c’è anche il passaggio per il lavoro vivo. Jackson Pollock intuiva la questione quando, dall’interno stesso del modernismo del tempo, rispondeva con un “I am nature” a Hans Hofmann. Era però solo una generosa intenzione, come ha malinconicamente dimostrato T.J. Clark.
6. Il passaggio prima indicato verso il lavoro vivo è ancora difficile e incerto. Richiede una navigazione a vista e nessuno può farsi illusioni al riguardo. L’eroe che combatte l’arte in generale sosta un attimo, pensieroso, guardandosi attorno. Si accorge di una sua controfigura che lo segue ovunque e che dichiara anch’essa di combattere l’arte in generale. L’eroe è smarrito e sgomento. Inginocchiato sta per cedere alle forze del destino ma, proprio nell’ora della sconfitta e del tramonto, riconosce dentro la potenza di fuoco, che tutto violenta e distrugge, un ignoto bagliore. Si accorge con stupore che anche il suo sguardo è cambiato. Vede le differenze in modo misteriosamente unitario, ma non metafisico. Conclude pensando che se ogni unità è natura egli è di fronte a una nuova natura (che come in un bergfilm è l’altro nome della metropoli delle avanguardie). La maniera di vedere (che i pionieri dell’arte postminimalista sovrapponevano alla cosa da vedere) sembra ricevere finalmente un senso, una sorta di corso unico. L’eroe si rialza, riesce per la prima volta ad andare oltre le cose senza andare oltre le cose. Egli è nel nuovo stato di natura dell’arte, è nel lavoro vivo profetizzato da Marx (lebendige Arbeit), “Così all’operaio si contrappone in forma tangibile l’appropriazione del lavoro da parte del capitale, in quanto assorbe in sé il lavoro vivo – «come se avesse l’amore in corpo »” (Marx, Grundrisse). Il verso, dal Faust di Goethe, è ripreso da Berlioz che, forse per salvare il lavoro vivo, fa precipitare Mefistofele negli abissi infernali.
7. S’avanza uno strano soldato dalla metropoli, attraversa la natura, scruta il cielo e osserva i fiori. Questo è un uomo solitario, i suoi mezzi sono poveri oltre ogni dire. Non è però l’artista indipendente che fugge dalle tentazioni, descritto da Rosenberg e Motherwell a New York nel ’47 su Possibilities. Non c’è più alcuna tentazione ad attenderlo. Perché quel mondo non c’è più, è morto. Il lavoro vivo e concreto cresce sul lavoro astratto e morto. E’ rimasto solo un ritmo misterioso, qualcosa abbandona costantemente il mondo per poi improvvisamente ritornarvi. “Stiamo andando via dal mondo dei vivi?” si chiede Rilke. Dal fondo della notte oscura, in un giorno del 1942, il poeta del silenzio Wilhelm Lehmann invoca la terra di non abbandonarlo, “Schöne Erde, lass mich nicht”. Così il silenzio arretra e il lavoro vivo avanza.
QUINTA NOTA L’eroe della negazione critica e della non-arte incontra una sorta di sua controfigura dall’aspetto sinistro, celato da una normalità ingannevole. In verità è un’ombra sfuggente con cui ingaggia una lotta senza fine, una gigantomachia, tra orrore e normalità. La pratica di rifiuto, di non, deve così ammettere un’altra non-immagine enigmaticamente vicina alla non-immagine dell’antimodernismo neoavanguardistico. E’ la non-immagine nichilista che vorrebbe che noi non vedessimo (e ci ha infatti reso ciechi). Noi a nostra volta “rifiutiamo” di vedere questo non vedere. La non-immagine diventa una sorta di zona grigia su cui transitano ragioni irriducibilmente differenti ma inspiegabilmente vicine. L’aperto di Rilke e il rifiuto del lavoro di Huelsenbeck, l’essere di Heidegger e la fattografia di Tret’jakov si opacizzano sovrapponendosi e confondendosi. C’è un vertiginoso incontro in questa zona grigia tra la morte nichilista dell’immagine (la non-immagine dell’esperienza vissuta nazista, realizzata oggi dallo spettacolo generale) e l’immagine della morte, riconosciuta come tenebra dalla non-immagine critica, dalla resistenza critica. La non-immagine nichilista, proveniente dalla memoria romantica, è natura. Qui, nella natura, avviene lo scontro inaudito tra le due non-immagini. Il volto che vede la tenebra fugge via dalla zona grigia d’eccezione, dalla natura, senza sapere il perché. La zona grigia del rifiuto (del non) si può appena intravedere in alcuni particolari delle immagini del novecento. Bisogna ricercare pazientemente dentro gli archivi fotografici del male. La natura ereditata dal romanticismo svela il suo vero volto nichilista, è il rifiuto stesso. In Hölderlin il suicidio speculativo è la drammatica scoperta che la natura tanto desiderata è morte. Diciotto agosto duemilanove

UN VENTO MINACCIOSO

Nuovi appunti
8. La fine delle arti profetizzata dall’artista Marcel Broodthaers a metà degli anni settanta ha anticipato l’attuale tramonto del modernismo. Se il modernismo ha perso la sua partita con la storia per aver abbandonato incautamente la spinta etica originaria, neanche l’antimodernismo, prigioniero di una sciagurata amnesia, può esultare pensando di aver vinto. L’antimodernismo esaurito il compito storico di critica del modernismo si è lentamente trasformato in opposizione di maniera negando al suo interno sempre più lo spirito dell’utopia, la sua anima più antica. Solo la non-opera è rimasta a vigilare sulle rovine. Da allora un vento minaccioso non smette di soffiare sull’arte. Le immagini illusorie che l’avanguardia e il modernismo volevano eliminare si sono invece moltiplicate e i magazzini della società dello spettacolo si sono riempiti di fossili e feticci d’ogni tipo. E’ il paesaggio di morte a cui alluse Marx quando teorizzò il lavoro in generale e astratto come lavoro morto. Tra le rovine di questo paesaggio si aggira un’artista solitario che lamenta ferite profonde nella sua anima. E’ l’artista “senza tradizione che vaga infelice in un campo in cui va bene tutto” (Rosalind Krauss). Ora gli artisti sanno che l’opera non c’è più. C’è solo un “al di fuori dell’opera”, un parergon , suggerisce Jacques Derrida. Cornici, supplementi e resti sono in lotta e in rivolta. La non-opera e la non-arte avanzano. Nella sua finale furia iconoclasta il modernismo aveva condannato come non-arte tutto ciò che non era arte in generale. Ma Greenberg, indicando con non-arte tutto ciò che si sottraeva alla “purezza” artistica, aveva indirettamente dato un nome a questa nuova condizione dell’arte, la non-arte. Dalle nebbie di questo mondo spettrale lentamente emerge l’oltrepassamento dell’età delle avanguardie. Infatti proprio tra queste rovine brilla la luce inaspettata di una nuova condizione, di un nuovo lavoro. Lo storico dell’arte modernista Michael Fried aveva ipotizzato alla fine degli anni sessanta l’avvento di una nuova arte, come qualcosa di sufficientemente potente da potersi muovere con “grazia” singolare, sconosciuta al passato. Stanley Cavell e Rosalind Krauss sono tornati a più riprese su questa nuova arte, sforzandosi di individuarla in elementi di invenzione artistica specifica, nel cinema e in alcune forme dell’arte postconcettuale (Marcel Broodthaers e James Coleman). La non-arte sembrerebbe in contrasto totale con la vecchia “specificità” modernista greenberghiana, il presunto regno dell’autonomia e del tutto artistico. Eppure la non-arte non può dimenticare che proprio dal luogo ad essa più ostile, il modernismo, ha visto via via emergere le ragioni della sua esistenza. Se oggi dunque la volontà d’arte più distruttiva e pericolosa è quella “per cui in arte va bene tutto“ (la nuova arte in generale) è evidente che occorre sostenere il suo esatto contrario, la “specificità”. Ma è altrettanto evidente la necessità di conquistare un punto di vista nuovo sulla “specificità”, strappandola alle sue diverse metamorfosi, soprattutto quella che la vede trasformarsi periodicamente in arte in generale o art pour l’art. Occorre insomma costruire un’arte specifica non modernista e non essenzialista. E’ possibile un’arte specifica (l’anima e le forme) parziale e particolare? Suggerisce Mario Tronti, con riferimento all’esperienza delle grandi lotte operaiste del novecento, che “soltanto dal punto di vista di parte si può conoscere il tutto. Perché la conoscenza che il tutto si propone di se stesso è sempre falsa e ideologica”. Il limite della “purezza” dell’arte modernista consisteva nel rifiutare una specificità all’interno della parzialità e della povertà. La parzialità specifica può diventate invece la porta di accesso per un nuovo rapporto tra l’anima e le forme (come chiese György Lukàcs all’inizio del novecento). Walter Benjamin cercava nei suoi piccoli oggetti redenti le tracce, i supplementi per accedere alla lontana patria dello spirito. Benjamin seppe vedere nella specificità parziale dei nuovi mezzi di riproduzione la nuova natura dell’arte che nel nostro contesto è natura della non-arte. Questa è la povertà redenta dalla non-arte. Qui c’è anche il nuovo lavoro. La non-arte è la lotta della vita contro la morte, è la lotta del lavoro vivo contro il lavoro morto. Il lavoro vivo è dentro la nostra povertà non dentro la presunta ricchezza. Dobbiamo estrarre il lavoro vivo dal lavoro morto (i fossili di Benjamin). Bisogna però prima imparare a guardare il lavoro vivo. Gli occhi degli uomini postumi, che all’inizio del novecento seppero fissare la menzogna dell’immagine e le tenebre abissali della vita inautentica, sono gli stessi che permisero a Benjamin di rivolgersi con pietà alla vita moderna e a tentare la redenzione di ciò che sembrava perdersi irrimediabilmente nel silenzio e nell’invisibile. Ai tempi di Giotto fu necessaria una nuova concezione del lavoro per raggiungere la nuova arte. Anche oggi è indispensabile, contro il vento minaccioso, una trasformazione radicale del lavoro artistico. Due giugno duemiladieci

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