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Per Giacomo Matteotti

Pubblichiamo l’intervento di Mario Tronti tenuto al Senato il 10 giugno 2014 in occasione dei novant’anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti
Pubblicato il 10 Giugno 2014
Materiali, Officine Tronti, Scritti

Signor Presidente, nel lavorare a questa riflessione e a questo ricordo, mi sono tornati in mente i passaggi della storia nostra che anche noi qui, a volte, rischiamo di dimenticare.

Ricorda Gaetano Arfè, in un saggio sulla Rivista storica italiana, che Piero Gobetti dedica a Giacomo Matteotti addirittura un numero della sua grande rivista «Rivoluzione liberale», il 1° luglio 1924, ad appena venti giorni di distanza dal delitto. Il profilo di Matteotti scritto dallo stesso Gobetti delineava per l’occasione un quadro del socialismo riformista mutuando molti motivi della polemica tra Salvemini e Gramsci. Scriveva Gobetti: «Egli (Matteotti) fu il solo socialista italiano (preceduto da Gaetano Salvemini) per il quale il riformismo non fosse sinonimo di opportunismo». Il saggio di Arfé porta questo titolo: «Giacomo Matteotti uomo e politico».

È in questa sintesi di umanità e politica che credo vada riportata alla memoria questa figura: primo simbolico martire dell’antifascismo, ma anche politico di razza, che fa da giovanissimo la scelta di vita dell’impegno pratico a favore delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari. Quando Matteotti nasceva, esplodeva nelle sue terre, il Polesine, quel movimento di giusta, anche se di esasperata protesta che andrà sotto il nome, e il grido, «La boje!». Rimase sempre appassionatamente dentro questa tradizione, che è appunto la storia di quel riformismo socialista, intransigente e radicale, pur nel suo gradualismo, la cui base sociale si collocava nelle campagne della Valle padana.

Si è detto che, come per Gramsci il primo riferimento sarà il proletariato industriale, per Matteotti fu quel proletariato bracciantile sfruttato e tuttavia dignitoso, politicamente avanzatissimo nelle sue forme di lotta e di organizzazione. Quello che per Gramsci erano i consigli di fabbrica, per Matteotti erano i comuni e le leghe. Da esperto amministratore locale arrivò a proporre un consorzio di comuni: i nostri soviet, li chiamerà nel congresso di Bologna del Partito socialista. E vedeva nelle campagne padane come una grande città: la città diffusa, non urbanisticamente, come si dice oggi, ma socialmente. I suoi piedi di agitatore e di studioso furono sempre piantati su questo fecondo terreno.

Si occupa di patti agrari, di scuole, di strade, di telefoni. Luigi Einaudi, con cui Matteotti ebbe fiere polemiche, rese omaggio postumo alle sue competenze in materia finanziaria, all’abito scientifico con cui affrontava i problemi, lontano dalla faciloneria e dalla demagogia.

Matteotti, fortemente contrario alla guerra, come è stato qui ricordato, e duramente polemico con gli esponenti, anche socialisti, dell’interventismo democratico, fu tra i primi ad apprezzare i geniali scritti di Keynes sulle «Conseguenze economiche della pace» e sulle critiche alle devastanti sanzioni imposte alla Germania sconfitta.

È stato ricordato che nel 1919 venne eletto deputato. Nell’ottobre del 1922, a seguito dell’ulteriore scissione del partito, dopo quella di Livorno, viene eletto segretario del Partito socialista unitario. Qualche giorno prima, sul giornale «La Lotta» di Rovigo aveva scritto: «Mi vergogno che i nostri congressi dedichino tutto il loro tempo a queste diatribe; che non si pensi ad altro che a scissioni. Il proletariato deve essere unito: un blocco solo, anche sotto la tempesta».

Già nel marzo del 1921, nel corso di un’aspra lotta sindacale, nel Polesine, subisce un’aggressione. Viene caricato su un carro dai fascisti, malmenato, minacciato di morte, abbandonato in aperta campagna.
Il 10 giugno del 1924, l’agguato fatale, il rapimento e l’assassinio. Due anni prima, nel 1922, la stessa sorte era toccata a Walther Rathenau, l’eccezionale politico e intellettuale, allora ministro degli esteri, ad opera di un gruppo di nazionalisti e revanscisti tedeschi.

È contro queste figure, vedi da noi Aldo Moro, che si accanisce sempre la barbarie più fanatica. Risultano, alla fine, queste le personalità più pericolose. La violenza politica è propria dei deboli, non dei forti. Chi non riesce a combattere il proprio avversario con le armi della critica, ricorre alla critica delle armi. È questo che hanno fatto i grandi totalitarismi e questo hanno fatto i piccoli terrorismi.

Nel giugno del 1985, nel centenario della nascita e nel 61° anniversario della morte di Matteotti – prendo questa citazione da una documentatissima monografia su Giuseppe Saragat, ad opera del nostro collega senatore Fornaro – Saragat, chiamato a tenere la commemorazione ufficiale alla presenza del presidente della Repubblica Sandro Pertini, fa un’interessante notazione: « Il riformismo di Matteotti è un atteggiamento di serietà di fronte a problemi che non si risolvono con i conati del dilettantismo pseudorivoluzionario o con la violenza dei fanatici, ma con un’azione consapevole e creativa».

Matteotti, nella sua breve intensa esistenza, si è a fondo cimentato con quel “riformismo alla prova”, che è il titolo di un articolo di Filippo Turati su «Critica sociale», non a caso nel momento in cui si apriva il lungo Ministero Giolitti.

Giacomo Matteotti è un vaccino contro la possibile malattia del riformismo. Arfè concludeva il suo saggio ricordando l’intuizione, che subito si diffuse allora, che egli fosse andato volontariamente incontro alla morte o che comunque l’abbia attesa, senza cercarla, ma senza indietreggiare di un passo. E ricorda che Claudio Treves fu il primo a salutarlo martire, che Piero Gobetti lo ha definito «Il volontario della morte», che Ernesto Bonaiuti lo interpella: «Vai tu in cerca del volto di Dio?», che Carlo Rosselli scriverà a Nenni: «Tu mi parlasti una volta e in modo che mi commosse, di Matteotti. Anch’io ho spesso sognato di poter finire così utilmente la mia vita». E sappiamo che ci riuscirà.

Concludeva il saggio: «Sono testimonianze di uomini, tra le coscienze più alte dell’Italia del tempo». E, verrebbe amaramente da dire, di un tempo. Cara signora Presidente, senatrici e senatori, noi abbiamo il dovere, l’obbligazione etica di trasmettere alle nuove generazioni l’esempio di queste persone, che hanno reso nobile la vocazione alla politica. Non basta il tribunale giudiziario, è davanti al tribunale di questa storia che sono e devono essere convocati, perché arrivino a vergognarsi di se stessi, se ne sono ancora capaci, tutti i corrotti e i corruttori che infestano, con la loro peste, la nostra Repubblica.

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