Interventi

Grazie per la cittadinanza onoraria a Mario Tronti. La gratitudine al Sindaco e al Consiglio Comunale non è solo dell’interessato, è di tutti noi. Sono un forestiero e immagino sia prima di tutto un motivo di orgoglio per la cittadinanza di Ferentillo. Un ringraziamento caloroso viene dagli amici, dai compagni, da chi studia la sua opera.
A noi amici, però, sembra dissonante l’appellativo “cittadino onorario”. Perché Mario non ha mai cercato onori, non ha mai celebrato se stesso, non si è mai messo in prima fila, ma è una persona schiva, austera, mite. Approfondiamo, dunque, il significato di queste due parole: “cittadino” e “onorario”. Scovare i significati reconditi delle parole è uno dei suoi insegnamenti peculiari.
Che significa “onorario” per Tronti? Cerchiamone il senso nella Costituzione della Repubblica, dove la parola in forma di sostantivo appare una sola volta, nell’articolo 54: “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. È un articolo quasi dimenticato, ma dice tutto sui politici attuali, così diversi tra coloro che di quella parola fanno la propria linea di condotta – gran parte dei sindaci, come il vostro Paolo Silveri, che rispondono sempre ai cittadini – e altri politici che, invece, offendono tutti i giorni la funzione pubblica.
Nell’accezione costituzionale l’onore indica la responsabilità di fronte al popolo. Con l’appellativo di “onorario”, quindi, si riconosce Tronti come una persona che ha servito con dignità le istituzioni della Repubblica.
In primo luogo, come professore per un trentennio nell’antico ateneo di Siena, senza occuparsi granché delle pratiche accademiche, ma con attenzione per il fondamento dell’istituzione universitaria, cioè testimoniando ai giovani la passione per il sapere, mettendosi insieme a loro a studiare i classici del pensiero politico moderno.
Poi, come presidente del Centro per la riforma dello Stato – il centro studi fondato da Umberto Terracini e Pietro Ingrao – Tronti ha animato il dibattito sulle riforme istituzionali, coinvolgendo autorevoli costituzionalisti, in primis Massimo Luciani, un altro eminente abitante di Ferentillo, oggi qui presente, che saluto affettuosamente.
Infine, come senatore della Repubblica, nei primi anni Novanta e poi nell’ultima legislatura. Ho avuto il privilegio di trovarmi insieme a lui nell’aula di Palazzo Madama, ed era sempre un’emozione quando si alzava a parlare. Calava il silenzio nell’assemblea perché tutti i senatori sapevano che stavano per ascoltare un grande discorso, pacato e tagliente, non solo sul tema in discussione, ma sui fondamenti della politica.
E l’altra parola, “cittadino”, che significa per Tronti? Non ne ama l’accezione borghese, poiché tende a oscurare quel conflitto tra le classi sociali che ha sempre inteso marxianamente come il movimento profondo della storia. Tra i tanti significati della parola, credo egli prediliga quello antico più di quello moderno. Il citoyen dell’epoca borghese è un concetto etico-economico che neutralizza le differenze, mentre il civis romano è un concetto politico-giuridico che include e riconosce le differenze, accettando la tensione tra la parte e il tutto. San Paolo, ebreo di Tarso, orgogliosamente dichiara di essere cittadino romano, ottenendo le scuse dei magistrati che lo avevano fatto imprigionare (Atti degli apostoli 16, 37-9).
Questa interpretazione delle parole conferisce all’espressione “cittadino onorario” un significato più adatto al nostro caso. Tronti è un uomo delle istituzioni e insieme un uomo di parte. I due caratteri antitetici convivono e interagiscono perché ciascuno è interpretato autenticamente.
La contraddizione creativa lo ha sempre affascinato. Perciò ha resistito alle sirene del conformismo, ricercando, a volte disperatamente, il punto di vista come postura di fronte al mondo. Non si è mai adeguato alle banalità del tempo, fino a scandalizzare le anime belle, fino a rischiare l’incomprensione. A noi amici è capitato di dirgli come i discepoli nel Vangelo di Giovanni (6, 60-3): “Questa parola è dura, chi può ascoltarla?” E forse lui avrebbe voluto risponderci come Gesù, il quale sapendo in cuor suo che i discepoli mormoravano disse loro: “Questo vi scandalizza? E se vedeste il figlio dell’uomo salire dove era prima? È lo spirito che dà la vita”.
Proprio partendo da una marcata visione di parte è riuscito a interloquire più profondamente con persone di lontana formazione ideale. Nella Bicamerale per le riforme istituzionali del 1994 furono memorabili i suoi colloqui con Norberto Bobbio e Gianfranco Miglio, tra i quali era tanto aspro il confronto che toccava a lui l’insolito ruolo di mediatore. En passant, devo sottolineare con amarezza che il Parlamento italiano oggi non annovera più tra i suoi membri giganti del pensiero come quelli, mentre era normale non molto tempo fa.
Intenso fu anche il dialogo con Mino Martinazzoli sulla relazione tra il sacro e il politico, nella scia della comune lettura teologica di Romano Guardini. Non a caso, il grande uomo politico democristiano, forse una delle personalità più inquiete della Repubblica, tornò a interloquire con il pensiero trontiano nel suo ultimo discorso pubblico, pochi mesi prima di morire.
Il momento di massima rappresentazione di Tronti come uomo di parte e delle istituzioni è stato il suo ultimo discorso in Senato. Solo a lui poteva essere concesso di celebrare il centenario della Rivoluzione di Ottobre nell’aula di Palazzo Madama, senza turbare l’udito ingentilito del centro sinistra e ottenendo l’ascolto rispettoso dai banchi della destra. Credo sia stata la massima soddisfazione per Mario concludere il mandato pronunciando il nome di Lenin in Parlamento, facendo omaggio al suo Novecento di fronte a una classe politica ormai senza alcuna memoria.
È stato un evento inattuale. Ho conosciuto le assemblee elettive della Prima Repubblica e ricordo che i grandi partiti di massa, pur divisi dalla guerra fredda e dalle ideologie, erano sempre protesi a un reciproco riconoscimento di fronte alla sacralità delle istituzioni. Oggi, mancando le grandi fratture ideologiche, il confronto dovrebbe essere più agevole. Eppure si cerca non il riconoscimento ma l’annientamento dell’avversario, e si utilizzano le istituzioni come strumenti di bieca propaganda. La lezione di Tronti, uomo di parte e delle istituzioni, quindi, è un auspicio per una nuova generazione di politici che, lo speriamo, sapranno in futuro ritrovare la misura nel confronto delle idee.
Dopo il chiarimento lessicale, possiamo pronunciare per esteso la formula di questa cerimonia, non solo cittadino onorario ma più precisamente “cittadino onorario di Ferentillo”. L’espressione così prende la forma di un genitivo, che può essere interpretato in due modi, sia dal punto di vista di Ferentillo sia da quello del cittadino onorario. Nel primo modo sorge la domanda che cosa ha ricevuto il vostro paese da Tronti e nel secondo modo che cosa lui ha ricevuto da questa terra.
Del primo significato è presto detto. I suoi libri sono ormai tradotti in tante lingue e si trovano nei dipartimenti universitari delle città più lontane, da Buenos Aires a New York. A volte compare nelle note il nome di Ferentillo che quindi viene letto in tutto il mondo. Chissà, può succedere anche che uno dei tanti emigranti che lasciarono il vostro paese all’inizio del secolo per andare in America, annoveri nella sua discendenza un giovane studioso di scienza politica che sarà emozionato di ritrovare nei libri il paese dei suoi avi, in un intreccio tipicamente novecentesco tra percorsi personali e vicende storiche.
Mario mi ha raccontato che quando andava in paese, spesso tornava tardi a casa perché incontrava i compagni che gli chiedevano delle lotte sociali in città. Tra le persone semplici, c’è un limpido orgoglio, scevro di invidia, verso un figlio della propria terra che ha studiato e sa cantargliele come si deve a lor signori. Nella purezza di tale orgoglio si rispecchia l’archetipo dell’antico conflitto tra città e campagna.
Con riguardo al secondo significato, Mario ha ricevuto da Ferentillo molti dei doni più preziosi della sua vita. Prima di tutto, la paternità di “sor Nicola”. Poi, qui ha conosciuto la giovane Lena, schiva e riservata come lui, che è diventata la compagna della sua vita. E qui sono nati i due figli, i quali già nei primi giochi si formavano in quei caratteri che poi hanno rielaborato nella vita; si racconta di Carlo tranquillo e riflessivo e Lelletta, cioè Antonia, volitiva e dinamica.
Qui tanti amici hanno ricevuto l’amorevole accoglienza sua e di Lena. Per molti di noi venire a Ferentillo era come andare in pellegrinaggio al tempio dell’oracolo, come racconta bene Aris Accornero (Politica e destino, 85-95). Venivamo con tante domande in testa, Mario ascoltava con attenzione, ma con cenni di risposta tanto rari quanto preziosi. Quando tornavamo in città, ci rendevamo conto di aver capito meglio i problemi già solo per averglieli esposti. Credo, però, che anche per lui questo colloquio con gli amici nella pace di Ferentillo sia ancora oggi un’esperienza preziosa. Mario è una persona che ama la solitudine, ma nel contempo coltiva “amicizie stellari”. Così definisce quelle con i suoi compagni di gioventù, da Rita Di Leo, a Umberto Coldagelli, Aris Accornero, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, e altri. Ma su ciascuno di noi riverbera un po’ di quella luce stellare. Dietro la sua apparente ritrosia c’è un grande bisogno dell’altro, come dice in una rara intervista: “sono gli altri che ti tengono in vita” (La Repubblica, 28-9-2014).
Inoltre, Ferentillo gli ha donato la serenità per scrivere gran parte delle sue opere. Nello studio della casa nuova la scrittura trova ispirazione nei suoi amuleti, il quadro di Lissitzky del cuneo rosso che colpisce il cerchio bianco, che ha imposto come logo del CRS, la statua di Rodin di un pensatore che stringe i pugni nella lotta del pensiero, il terzo concerto di Rachmaninov con il movimento tra pianoforte e orchestra che sembra accompagnare il conflitto tra politica e destino. Ma tutte queste ispirazioni sono animate dalla vista alla finestra del Monte Solenne, che già nel nome richiama la meditazione filosofica.
Non è un caso se proprio qui ha scritto le opere che segnano le svolte del suo pensiero, dal Poscritto a Operai e Capitale a Dello spirito Libero. La pace di questi monti gli ha consentito il distacco necessario per non arrendersi al mondo e neppure a se stesso. Il conflitto non era rivolto solo all’esterno nello studio sul potere nella società, ma proseguiva in interiore homine, fino a mettere in discussione ciò che aveva elaborato fino a quel momento. Solo la fiorente solitudine del paesaggio della Valnerina poteva proteggerlo nei rivoluzionamenti del proprio pensiero.
Si discute tra gli interpreti della sua opera se queste svolte siano davvero rotture oppure mantengano tra di loro una certa continuità. Per risolvere il dilemma basta osservare i viandanti che salgono in montagna, invertendo la marcia ad ogni tornante, e innalzandosi verso la stessa vetta. Quando si pensa la rivoluzione può cambiare la direzione di ricerca, ma il problema rimane immutato. Nella lingua più amata, il tedesco, la stessa parola indica svolta e tornante: la Kehre heideggeriana che lo incuriosì negli anni Ottanta.
Oggi l’opera trontiana è viva e viene rielaborata da una nuova generazione di giovani studiosi appassionati e rigorosi. Saranno certamente più bravi a capire il maestro con il necessario distacco intellettuale che in noi vecchi amici era indebolito dall’affetto. A loro Tronti sembra suggerire di adottare la medesima capacità critica che egli ha rivolto verso se stesso. Tradire è il modo più autentico per consegnare un’eredità intellettuale, come svela il doppio significato del verbo latino tradere, richiamato con un passaggio folgorante in Dello spirito libero: “Consegnare.. l’eredità ai nipoti, non così com’era, ma come avrebbe dovuto essere” (p. 81). A questo invito sembra rispondere una giovane studiosa che dice: “.. le modalità del lascito spettano a chi lo riceve, non a chi lo predispone, e la cesura è spesso la condizione per l’assunzione più fedele”. Con queste parole Jamila Mascat conclude l’introduzione all’antologia di scritti trontiani, Il demone della politica (p. 63), che ha curato con altri due studiosi – Matteo Cavallari e Michele Filippini – e insieme ci hanno regalato la migliore panoramica del suo pensiero, riassunta in quattro tornanti.
Il primo tornante è rappresentato da Operai e capitale, l’opera giovanile del 1966 che ha avuto un successo internazionale tanto forte da mettere in ombra tutta l’elaborazione successiva. Il libro riprendeva gli articoli pubblicati su due riviste, soprattutto Classe Operaia – l’esperienza più bella del suo percorso intellettuale dirà in seguito – e anche la precedente Quaderni Rossi, realizzata insieme a Raniero Panzieri, una personalità affascinante che, pur nella diversità delle scelte, ha lasciato in Mario un’insostituibile eredità umana e culturale (Il demone della politica, 591-9). La tesi era coraggiosa: nel conflitto di fabbrica la classe operaia esprime un’intelligenza della trasformazione superiore a quella del capitalista. Eppure quella tesi sembrò trovare conferma tre anni dopo nell’autunno caldo. Infatti, il testo, subito esaurito in libreria, circolava in ciclostilato come un’opera cult del movimento. Tronti avrebbe potuto celebrare il suo successo, avrebbe potuto girare l’Italia a presentare il libro, avrebbe potuto partecipare alle assemblee come guru del movimento e invece si ritirò a Ferentillo, resistendo a tutte le richieste dei suoi amici di tornare in città. Trent’anni dopo spiegò quel silenzio in modo lapidario: “Mi allontanavo per vedere meglio” (Cenni di Castella, 88).
Proprio quando i fatti parevano confermare le sue teorie, egli le sottopose a una profonda revisione. Non basta più la lotta di fabbrica, si deve ampliare l’iniziativa verso lo Stato e fare i conti con la logica politica. Con lo sguardo rivolto a queste montagne, dà inizio al secondo tornante del suo pensiero, l’autonomia del politico, il tentativo coraggioso di supplire alla mancanza di una teoria della decisione nella tradizione del movimento operaio. Senza perdere la radicalità del punto di vista precedente, concentra la sua attenzione sul realismo della politica. Da qui sorge il motto trontiano che amo di più, mi perdonerete una preferenza personale. Il motto riguarda “il pensare estremo e l’agire accorto”. Può sembrare una finezza intellettuale, ma basta da solo a spiegare per contrasto l’attuale politica che surroga la mancanza di pensieri fondamentali con iniziative sguaiate, come si vedono tutti i giorni.
Nella nostra cerimonia ci sono alcune coincidenze che l’arido razionalismo non può impedirci di vedere come cenni del cielo. Il Sindaco ha donato a Mario la ricerca genealogica sulla sua famiglia e si viene a sapere che le prime testimonianze degli antenati risalgono al Seicento, proprio il secolo del realismo politico, che Tronti ha definito il suo secolo. Si viene anche a sapere che il capostipite aveva per nome Giovanni Battista. A questa figura evangelica egli dedicò una serie di articoli per l’Unità alla fine degli anni Novanta (Cenni di Castella, 138-47). Non stupitevi, una volta poteva succedere che sul giornale fondato da Antonio Gramsci apparisse una raffinata esegesi neotestamentaria.
Giovanni è il profeta che grida nel deserto e annuncia che il Messia è già venuto ma non è stato accolto, non è stato neppure riconosciuto. L’Avvento è quindi implicato in una drammatica incomprensione tra umano e divino. Nell’ardita esegesi trontiana, l’Avvento del Figlio come l’ultimo rimedio necessario a redimere l’uomo è interpretato come la disperazione divina che si rivela nella misericordia cristiana. Solo le parole di un profeta come Giovanni Battista possono tenere insieme disperazione e misericordia. Solo la profezia può annunciare i segni dei tempi quando il deserto del mondo impedisce di vedere il Messia che viene.
Dopo la sconfitta del movimento operaio, negli anni Ottanta-Novanta, anche la politica si trova nel deserto. E deve imparare il sapere della profezia per tenere insieme la disperazione del mondo e la liberazione dall’oppressione.
Questo è il terzo tornante molto più scosceso ed esposto, perché a differenza dei primi due non vede più la possibilità della rivoluzione. La ricerca di Tronti si orienta sull’isomorfismo tra profezia e politica, cioè sulle forme dell’annuncio profetico che possono essere rielaborate nel pensiero della trasformazione dello stato di cose esistente. Entra nel linguaggio religioso per coglierne le semantiche utili al linguaggio politico di fine secolo. Ma non c’è nulla di strumentale, anzi si pone in profonda sintonia umana e culturale con i profeti di allora, Sergio Quinzio (Il demone della politica, 485-98) e Giuseppe Dossetti, con padre Benedetto Calati nelle meditazioni dell’Eremo di Monte Giove e con le altre persone partecipi di quell’intenso convivio spirituale che fu la rivista Bailamme.
Nel quarto tornante prende fiato e si ferma a guardare in basso gli altri tornanti della sua opera. È l’appassionata meditazione sul grande Novecento che lo impegna negli ultimi tempi. Rischia di essere recepita come una nostalgia, ma è invece la ricerca della memoria come risorsa antagonista. Il passato non è solo racconto di ciò che è stato, ma è il campo di battaglia tra le forze che si contendono il presente. Proprio dalla riflessione sul Novecento possiamo trarre la consapevolezza dei pericoli che attanagliano la democrazia contemporanea. Non essendo più attraversata dai grandi conflitti novecenteschi rischia di illanguidirsi nel conformismo e addirittura di suscitare una servitù volontaria, secondo la precoce intuizione di Tocqueville, e le non poche evidenze attuali. C’è un rovescio della democrazia che mostra il volto totalitario quando non è più possibile neppure immaginare un mondo diverso. Sono gli argomenti del suo ultimo libro Dello spirito libero. Lo ha scritto interamente a Ferentillo durante la pause estive, interrompendo la stesura quando tornava a Roma, come se lo Spirito non dovesse contaminarsi con la città e potesse davvero essere libero solo di fronte alla purezza di questi monti Solenni. “Contro l’opinione maggioritaria e borghese, cittadina quindi; da queste montagne è più limpida la distanza”. In questa frase trontiana il contrasto tra città e campagna assume il significato di una lacerazione interiore. L’animo della città è estraneo a quello della campagna e viceversa.
Però la città non è solo opinione borghese. È l’ambiente del sua vita reale, della formazione e dell’esperienza, delle speranze e delle delusioni. Ce lo racconta orgogliosamente con alcuni lampi di memoria: “Le mie radici vere sono a Roma, in un quartiere popolare romano. Qui ho bevuto quel senso della vita, che è dell’anima plebea. La mia Bibbia è veramente quella del Belli: questa critica di tutto ciò che è sacro, fatta davanti a tutta la potenza di una Chiesa (Cenni di Castella, 85).
Se Roma è la realtà della vita, Ferentillo è l’immagine interiore. Proprio nel contrasto con la città possiamo farci un’idea di che cosa rappresenta questa terra per la persona e per l’opera di Tronti: Ferentillo è un luogo filosofico. Non vorrei apparisse una diminutio ai cittadini qui convenuti. I grandi pensatori spesso hanno legato un luogo alla propria filosofia. Per Tronti il paese di Ferentillo è come la Grecia per Hölderlin, la capanna di Todtnauberg per Heidegger, il fiordo norvegese per Wittgenstein, la Parigi haussmanniana per Benjamin.
D’altronde, a svelare questa natura filosofica è lo stesso Tronti in un libro bellissimo e poco noto, al quale ha consegnato le riflessioni più intime. In Cenni di Castella scrive: “Ferentillo è un eterno ritorno. Maturità dell’uomo, secondo l’aforisma di Nietzsche: «aver ritrovato la serenità che da fanciulli si metteva nei giochi». Le estati dell’infanzia: gli elementi primi, la terra, l’acqua, l’aria, colline, fiumi, cielo” (idem).
In questa trasfigurazione ogni elemento del paesaggio può diventare una traccia per il pensiero. Il volo festoso di uno stormo di uccelli richiama l’immagine marxiana degli oppressi che si innalzano in volo sopra la terra degli oppressori e imparano ridendo a dominarla (Cenni di Castella, 16).
La radura del bosco può rappresentare l’incerto combattimento tra la luce della profezia e l’oscurità del mondo, come nello spazio tra cielo e terra di Maria Zambrano (Con le spalle al futuro, 117), ma anche nella Lichtung di Heidegger.
Si potrebbe perfino rintracciare un’analogia tra il suo peculiare stile letterario e le macere, i muri di pietra a secco che segnano i confini. Asor Rosa, con indiscussa autorevolezza letteraria, ha definito il linguaggio trontiano come una radicalizzazione paratattica, che riesce a organizzare un brano affiancando solo proposizioni principali, senza ricorrere alle proposizioni subordinate che di solito servono a smussare e a legare il discorso (Politica e destino, 34, 91). Proprio come le macere a secco che, pur senza ricorrere alla malta, riescono a stare in piedi, a segnare una linea che distingue il qui e l’altrove, e a caratterizzare il paesaggio.
In questo gioco di immaginazioni ferentilliane un ruolo decisivo è svolto dal camminare. Vi sarà capitato di vedere Mario mentre passeggia nella campagna. Si tratta certamente di un buon esercizio fisico, ma sono anche i momenti di massima intensità della riflessione teorica. Quando lo incontrate per strada tenete presente che per lui compito principale del movimento operaio doveva essere “rallentare la modernità, perché smettesse di correre e imparasse a camminare, trattenendo, rallentando e ritrovando il passo dell’uomo” (Dello spirito libero, 46). Il carattere spirituale del camminare si svela nella posizione eretta che assume il viandante con lo sguardo rivolto all’orizzonte. A Mario piace citare l’apologo del grande Giuseppe Di Vittorio: “quando diceva che il movimento operaio ha insegnato ai braccianti a non inchinarsi davanti al padrone, descriveva un gesto di alta libera spiritualità” (Ivi, 228).
L’ultima pagina di Dello spirito libero, cioè l’ultima opera ferentilliana (almeno per ora), si chiude con un inno al camminare insieme: “In quelle figure concrete di persone semplici che calcano ancora la terra con i passi che erano dei contadini, lì sta la vita prima. Noi intellettuali – dice Tronti – viviamo una vita seconda. Vediamo il riflesso delle cose del mondo nella nostra testa. Leggiamo la vicenda umana nello specchio dei libri. Se non camminiamo mano nella mano con quelle persone, ci perdiamo” (Ivi, 316).
È una conclusione sorprendente. Come si deve intendere l’improvvisa tenerezza della mano nella mano e a chi è rivolto l’ammonimento a non smarrire il camminare insieme? Vorrei chiederlo a Mario, ma oggi tocca a me parlare e azzardo un’interpretazione. L’ultimo commento su Walter Benjamin, Il nano e il manichino, è dedicato “alle giovani generazioni, se ce ne saranno ancora, di intellettuali politici” (p. 5). L’ammonimento, quindi, è rivolto a loro, a chi erediterà, anche tradendolo, il suo pensiero. A loro dice: non perdetevi nelle immagini filosofiche, camminate a fianco delle persone semplici che calcano la strada accidentata della storia del movimento operaio.
“Mano nella mano” non va inteso in continuità storica con le lotte degli oppressi, anzi questo è stato l’abbaglio del socialismo nel considerare il futuro come un lineare sviluppo storico, cristallizzando il passato nell’ideologia progressista. Tronti non è un filosofo del progresso, ma un pensatore della storia come lotta tra politica e destino. Il “mano nella mano”, quindi, va inteso come una costellazione tra passato e presente. Il presente non è una tranquilla proiezione del passato. Al contrario, il passato sovverte il presente introducendo nella storia vincente delle classi dominanti la scintilla della speranza, patrimonio delle classi oppresse. A questo punto, Tronti lascerebbe forse la parola all’amatissimo Benjamin: “Il passato reca con sé un indice concreto che lo rinvia alla redenzione. Non sfiora forse anche noi un soffio dell’aria che spirava attorno a quelli prima di noi? .. Se è così allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e le nostre. Allora noi siamo stati attesi sulla terra” (Tesi 2).
Che significa siamo stati attesi sulla terra? Si può applicare questo pensiero folgorante alla relazione di Mario con la sua terra? Alla domanda più ardita affido la conclusione del mio discorso.
Alessandro Portelli ha compiuto una meritoria opera di raccolta dei canti e delle poesie della tradizione orale dei contadini e degli operai. In questo scrigno si trova anche la cantata di un operaio comunista di Ferentillo. E dice così:

Io invece il mondo lo vorrei più bello

A do’ che fino adesso ha governato l’ignoranza
Chi col fucile chi col manganello..
I comunisti coglieranno l’occasione
quando coglieranno in precisione
Tutte le parole di questa canzone operaia risuonano nell’opera trontiana. Anche se non è neppure ipotizzabile una continuità storica. Tronti non è un aedo dei movimenti popolari, ma è un teorico del conflitto. Tra le lotte e le teorie non si instaura una spiegazione progressista, ma una costellazione messianica di passato e presente.
Già quell’invece nell’incipit della cantata allude a un conflitto con le classi dominanti. E il “cogliere l’occasione” è il Kairós, il tempo appropriato della rivoluzione. Ma l’esito dipende dalla “precisione”, cioè dall’acutezza del pensiero che l’intellettuale mette a disposizione della lotta.
Alla fine, dunque, la “cittadinanza onoraria” assume un significato più spirituale, se mi è consentito di usare in una cerimonia civile questo termine controverso che pure in tutto il suo pensiero.
Con le parole di Benjamin possiamo dire che anche Tronti è stato “atteso” dagli operai e dai contadini di Ferentillo.

Opere di Tronti citate nel discorso:
Con le spalle al Futuro, Editori Riuniti, 1992
Cenni di Castella, Cadmo, 2001
Politica e Destino, Luca Sossella editore, 2006
Sono uno sconfitto, non un vinto. Abbiamo perso la guerra del ‘900, intervista ad Antonio Gnoli, “La Repubblica” del 25 settembre 2014.
Dello spirito libero, Il Saggiatore, 2015
Il nano e il manichino. La teologia come lingua della politica, Castelvecchi, 2015
Il demone della politica, Il Mulino, 2017

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