Mi e ci manca molto Stefano Rodotà e in questi due anni che abbiamo attraversato tanto più.
Ma è alla sua lezione che voglio rifarmi a partire da quanto emerso durante la pandemia. Stefano Rodotà sarebbe stato innanzitutto in prima linea per rilanciare quei principi di uguaglianza e libertà che si sono mostrati inscindibili in questo lungo periodo, per rimettere al centro della politica il benessere delle persone, i loro bisogni concreti, in termini di salute, tutela del reddito, così come di istruzione, assistenza, abitazione. Quelle istanze di uguaglianza “sostanziale” oltre che di libertà, per rimettere in primo piano la centralità della riproduzione sociale e della cura, l’espansione delle istituzioni e dei servizi collettivi di welfare.
Stefano Rodotà si sarebbe, credo, speso per difendere e riqualificare un servizio sanitario pubblico, universale, egualitario senza discriminazioni di accesso e finanziato dalla fiscalità generale e, al fondo, per rilanciare una nuova stagione di diritti sociali, facendone anche l’oggetto di una nuova combinazione di lotte e mobilitazioni.
Egli, credo, si sarebbe richiamato all’articolo 32 della Costituzione, che riconosce il diritto alla salute unico diritto sociale fondamentale, mettendo insieme profilo soggettivo (individuale) e interesse della collettività. Nel suo doppio profilo l’articolo 32 prefigura l’impegno pubblico nella realizzazione di strutture sanitarie a carattere universale e contestualmente profila un altro aspetto essenziale del diritto alla salute, ossia quello della libertà della scelta terapeutica (il medesimo diritto di rifiutare le terapie), nella priorità riservata dalla Costituzione al diritto all’autodeterminazione individuale e al rispetto della persona umana. Esso delinea quanto effettivamente realizzato solo nel 1978 con la tarda istituzione del Servizio sanitario nazionale, attuativo del principio costituzionale in questione. Un ulteriore aspetto qualificante di questo articolo che oggi, più che mai, vale la pena di ricordare è il nesso stabilitosi, in specie a partire dagli anni Sessanta e Settanta, tra la tutela costituzionale della salute e l’ambiente, ossia il diritto a un ambiente salubre, nella accresciuta consapevolezza del legame tra la salute degli individui e le condizioni della sfera ambientale in cui questi vivono, lavorano, con cui interagiscono.
E, soprattutto, il diritto alla salute – sempre nella sua dimensione individuale e relazionale – ha comportato (e comporta) scelte politiche capaci di coinvolgere tutta la popolazione, investendo la natura della democrazia, il complessivo assetto sociale ed economico del paese.
Da Stefano Rodotà, dai suoi scritti, libri, relazioni e discorsi, ma anche dalle sue scelte di vita, abbiamo appreso la centralità di una cultura politica incentrata sulla trasformazione complessiva delle relazioni umane, la visione di una democrazia dinamica e conflittuale, la necessità del riconoscimento e della soddisfazione di antichi e nuovi bisogni, il valore profondo della solidarietà e della dignità sociale, il nesso costitutivo fra libertà ed uguaglianza.
Da Stefano Rodotà abbiamo appreso una nozione processuale di cambiamento reale, che si radica nella immanenza dell’alternativa alle lotte del presente e alle trasformazioni che queste ultime producono nella società e nei suoi attori. Egli aveva quella stessa «vocazione costituente», come scrisse di Lelio Basso, che lo portava a una interpretazione del diritto in grado di adattare la norma giuridica alle esigenze collettive manifestatesi nel contesto sociale. Egli credeva nella possibilità di trasformare questo mondo in cui viviamo, non già a partire da una istanza puramente etico-volontaristica, bensì dalle potenzialità del conflitto, dall’agire stesso dei soggetti immersi nella logica dinamica del cambiamento.
Il diritto e il terreno costituzionale si sono fatti nel suo pensiero e percorso “laboratori” e strumenti irrinunciabili. Un diritto a contatto con la realtà, con il sostrato materiale, con i soggetti in carne e ossa, immerso nella processualità della storia. Un diritto più vicino al lato materiale della vita, alla dimensione del nómos di Antigone. Un diritto letto nei suoi scarti e nelle sue eccedenze, nella sua potenza simbolica e trasformativa; un diritto che vive della prassi, dell’esperienza e dell’interpretazione.
Rodotà aveva da tempo colto i rischi presenti nei processi di deregolamentazione e di privatizzazione della produzione del diritto; e al contempo del diritto coglieva il ruolo fondamentale in relazione a una dimensione di agita conflittualità da parte dei soggetti, in ordine a condizioni e situazioni concrete. Se il diritto non era mai disgiunto, nelle sue parole e nella sua pratica di vita, dalla politica e dalle istanze della società, gli stessi diritti fondamentali nella loro fondazione sociale erano sempre collegati a soggetti plurali e alla materialità delle loro vite, oltre qualsiasi dicotomia del passato (in primis fra sfera pubblica e sfera privata).
Nei suoi inviti continui a una ricostituzionalizzazione dell’Europa, nei suoi appelli alla necessità di una politica costituzionale, volta a rafforzare il sistema delle tutele e delle garanzie, volta a dare attuazione a diritti costituzionalmente garantiti, il protagonismo della politica non è mai venuto meno. La politica intesa in senso arendtiano, come ambito in cui si realizza la natura umana, come attività relazionale dell’agire: vita activa.
La sua è stata una ricerca vastissima che ha dissodato terreni sempre inediti, passando dalla critica della proprietà, della logica dell’appropriazione, alla critica del modello antropologico dell’individualismo proprietario, all’indagine senza sosta sull’umano, spaziando verso nuove frontiere, concentrandosi ogni volta su temi e problematiche assai poco battuti: la rete, la privacy, il bio-diritto e la bioetica, i beni comuni.
Solidarietà, laicità, égaliberté, costituzionalismo democratico, costituzionalismo dei bisogni, costituzionalismo globale, dignità umana e sociale, diritto d’amore sono alcuni dei concetti chiave della vastissima ricerca di Rodotà.
Ogni volta che si pensa a lui, tante immagini si accavallano nella mente, immagini di libri, di parole, di discorsi, di aule, di istituzioni, di piazze. In ciascuna, il timbro di un pensiero critico, di un’originalità, di un coraggio, di una cura, di una curiosità creativa ineguagliabili. Come scrisse Azzariti nel 2017, Stefano Rodotà era un uomo di “confine”1. Al confine tra diritto privato e diritto costituzionale, al confine non solo tra discipline, ma anche tra diritto e politica, tra ricerca intellettuale e impegno altamente democratico, tra Italia ed Europa, tra istituzioni e movimenti. E dal confine, da quanto lì si “muove”, l’osservazione muta prospettiva, si fa più ricca e articolata, capace di comprendere le tensioni della realtà; capace di scorgere i nessi profondi tra diritti e bisogni, tra eguaglianza e libertà, tra res publica e res privata, tra “dentro” e “fuori”, tra ordine materiale e ordine simbolico/formale.
La sua è stata anche una grande lezione per gli storici: si pensi soltanto all’interpretazione della storia d’Italia attraverso il paradigma delle libertà e dei diritti, in grado di cogliere gli aspetti qualificanti delle vicende nazionali dall’Unità sino agli anni Novanta del Novecento. Una lettura imperniata sulle mancanze e il particolarismo dello Stato unitario e della sua classe dirigente, sulla pervasività della logica privatistica e del diritto proprietario; sul carattere totalitario del regime fascista; sull’innovazione costituzionale della Repubblica; sulla grande novità degli anni Settanta, in cui – come scrisse – si diede un «addensamento di atti riformatori» che non ha avuto paragoni precedenti. La sua lettura degli anni Settanta era di una stagione in cui si realizzò il legame tra società e istituzioni, si diede vita a pratiche politiche inedite, a una creativa proliferazione istituzionale, a nuove istituzioni di welfare nate, non a caso, dalle lotte e dalle mobilitazioni radicali di quegli anni, fondate su forme di coproduzione dei servizi, volte a mettere in discussione la distinzione e separazione tra gestori/utenti, erogatori/destinatari. Una stagione in cui non a caso si riaprì il concetto stesso di istituzione, sia riconducendolo a pratiche di autorganizzazione e autonomia volte a far fronte a bisogni e desideri misconosciuti dallo Stato e dalla famiglia (sino a quel momento pilastro fondamentale del welfare), sia riportandolo sul terreno di un ampio conflitto. Un conflitto capace di investire la vita quotidiana e le sue strutture, il sistema di welfare, il territorio e l’ambiente, la condizione delle donne, i nessi tra produzione e riproduzione, le relazioni tra Stato e cittadini, i rapporti tra locale e nazionale, il significato della democrazia medesima.
Una lettura questa che nel suo afflato civile, nel suo rigore intellettuale e nel suo intreccio di saperi resta un prezioso punto di riferimento anche rispetto alle istanze trasformative del presente.
Note
1 G. Azzariti, Per Stefano Rodotà, “Costituzionalismo.it”, 1/ 2017.
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