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Intervento introduttivo alla presentazione del libro “Disertate” di Franco Berardi “Bifo”, tenutasi il 1° dicembre 2023.

Perché ci sembra importante parlare della diserzione, e come ci interessa farlo?

Da quasi due anni sperimentiamo la nostra impotenza di fronte alla guerra. Prima quella in Ucraina, ora, se possibile con ancora più sofferenza, quella in Palestina. Sentiamo nostra l’impotenza del movimento pacifista, che non riesce a trovare le parole e a suscitare mobilitazioni adeguate a far pesare la propria forza con l’efficacia che pure abbiamo conosciuto in altri momenti della storia politica recente.

Alla consapevolezza di questa impotenza si accompagna il senso di colpa, il non sapere che fare, oltre ad aggiungere il proprio nome a un ennesimo appello per la pace, per il cessate il fuoco, per il rispetto di qualche brandello del diritto internazionale.

E non si tratta solo dell’impotenza rispetto agli orribili accadimenti della guerra, quelli visti quotidianamente sugli schermi o anche quelli solo immaginati.

È anche l’enorme difficoltà a contrastare la postura guerresca della discussione pubblica, che impone di schierarsi in battaglia, pena l’arruolamento forzato. O anche la difficoltà sofferta del confronto con chi pur vicino per cultura politica e stile di vita, ci appare però lontanissimo proprio sulla questione dirimente del ripudio della guerra.

E non è solo impotenza dell’azione. È anche impotenza del pensiero. Della capacità di descrivere e comprendere quello accade per immaginare possibili soluzioni.

È in questo contesto di impotenza, dell’azione e del pensiero, che ci sembra utile ragionare sulla diserzione, sulla sua attualità e sul suo significato, e discuterne con chi ha posto questo tema al centro della sua ricerca.

In un suo scritto Paolo Virno spiega la differenza tra due conosciute forme di protesta contro la guerra: l’obiezione di coscienza e la diserzione. L’obiezione di coscienza non mette in crisi il patto di lealtà verso lo Stato, “si fa valere una riserva privata conficcata nei meandri interiori dell’individuo. Si oppone una irriducibilità personale, di carattere morale o religioso, alla decisione politica statuale”.

La diserzione invece contesta le prerogative dello Stato, in particolare il “monopolio della violenza”, ed è da sempre “un atto pubblico, politico suo malgrado. Un patrimonio a disposizione di moltitudini senza credo religioso e lontane da picchi morali. Un gesto anonimo, alla portata di chiunque. Perciò spaventoso per l‘apparato del potere”. E infatti i disertori in guerra sono giustiziati.

È naturale approvare e sostenere i disertori russi e ucraini. E, se ce ne fossero, israeliani e palestinesi.

Ma non è facile rivendicare la legittimità della diserzione in un contesto, come quello della cultura politica della sinistra, che è intriso del diritto/dovere alla resistenza contro l’oppressore, quale ad esempio è quella dei palestinesi contro lo Stato di Israele. Ma è importante affermare che come esiste il diritto alla resistenza esiste anche il diritto alla diserzione. Che è possibile sottrarsi al dovere della vendetta e all’obbligo del martirio.

Certo le migliaia civili sotto i bombardamenti a Gaza, in Ucraina o in molti altri luoghi del mondo non possono disertare. Possiamo farlo noi per loro.

Ma la scelta della diserzione non riguarda solo la guerra. In ogni contesto di crisi, di conflitto, di sofferenza, è possibile scegliere, lo ha descritto Albert Hirschmann, tra la protesta (voice) e la defezione (exit). E la scelta tra i due comportamenti, la scelta cioè tra investire risorse ed energie nel tentativo di modificare positivamente il contesto e quella di abbandonarlo, di sottrarsi a questo sforzo, dipende dalla forza di quella che Hirschmann chiama “lealtà”, cioè dal livello di adesione convinta alle regole del contesto, alla sua credibilità come ambiente che rende immaginabile non solo la possibilità, ma anche l’utilità della protesta.

Ed è allora evidente che l’attualità della diserzione come comportamento possibile in relazione alla guerra, ma non solo, deriva dalle evidente e clamorosa crisi di credibilità dei tanti contesti in cui si propone la scelta tra voice ed exit.

Ad esempio è diserzione quella dei giovani di “Ultima generazione”, che già nel nome dichiarano l’impossibilità del futuro, e il loro sottrarsi a quello che Alessandro Montebugnoli chiama “l’assillo della crescita”.

È diserzione dal consumo (dalla orribile bruttezza del consumo, scrive Bifo) quella di chi pratica frugalità e autoproduzione comunitaria.

È diserzione dal lavoro quella dei tanti che dopo la pandemia non sono tornati a lavorare nelle aziende e oggi mandano deserti i bandi di reclutamento.

È diserzione dalla dittatura della tecnologia quella di chi si rifiuta di consegnare la propria vita ai dispositivi digitali.

È diserzione dalla rappresentanza politica quella di chi non vota perché non ha senso scegliere gli interpreti politici di un unico copione immodificabile.

È diserzione dal linguaggio della politica quella di chi si rifiuta di usare parole ormai prive di significato.

È diserzione dai confini, da ogni confine, quella di chi li attraversa senza riconoscerne il potere.

È diserzione dalle regole del patriarcato, quella che le donne per prime hanno concepito e praticato a partire dagli anni settanta in poi.

È un inizio di diserzione dagli obblighi imposti dall’essere maschi, come la virilità e l’eroismo, quelle dei tanti giovani uomini scesi in strada il 25 novembre.

Torniamo alla domanda iniziale. Perché allora ci serve ragionare sulla diserzione, farla diventare oggetto di una ricerca politica?

Ci serve, per prima cosa, per avere uno strumento di comprensione, per interpretare politicamente eventi e fenomeni altrimenti difficili da decifrare, o anche solo difficili da conoscere. Come ad esempio la continua e crescente caduta di natalità che sta attraversando quasi tutti i paesi. La great resignation che ha visto milioni di lavoratori abbandonare il proprio lavoro dopo la pandemia. O anche l’epidemia di fentanyl che sta uccidendo tanti giovani negli USA.

Ma ci serve anche per liberare il pensiero. Quella libertà di pensiero che solo porsi fuori da un contesto dato può consentire. Per ribaltare l’impotenza del pensiero. La possibilità di pensare l’impensabile. Fare della diserzione la condizione per immaginare ciò che non si riesce oggi a immaginare. Quella che Bifo nel suo libro, giocando con la parola “resignation” chiama la possibilità una “ri-significazione”, “la ricerca di un nuovo senso dell’esistere”.

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2 commenti a “Perché la diserzione”

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