Interventi

Il Forum Disuguaglianze Diversità ha pubblicato e diffuso un articolato documento di valutazioni e di proposte del Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza.

Nel vostro documento viene posta con forza una questione di metodo, che si riproporrà appena il cantiere del PNRR sarà riaperto dal governo Draghi: il Piano dovrà essere discusso attraverso il “dialogo sociale”.

Puoi indicarci quali sono secondo te i soggetti, le procedure, e i poteri di questo dialogo? Quali le resistenze che potrà trovare la realizzazione di questa vostra richiesta? E quali, invece, le condizioni di successo?

Vale la pena di ricordare che pretendere il “dialogo sociale”, un passaggio ovvio per un paese che sta scrivendo la propria visione a medio e lungo termine, ha due finalità.

La prima, quella più evidente e palese è di incorporare, all’interno del piano, i saperi diffusi che sono molto ricchi in questo paese, nella società, nel mondo dell’impresa e della società civile.

La seconda, è il fine in sé, e cioè l’urgenza di democratizzare processi decisionali che si sono enormemente chiusi.

Le condizioni del dialogo sociale a cui facciamo riferimento, per dirla con Amartya Sen, sono quelle del confronto acceso e informato, aperto e ragionevole. Acceso, che vuol dire anche duro. Aperto, che vuol dire aperto a tutti, non solo i soggetti rappresentativi ma tutti quelli toccati dai provvedimenti;

Ha quindi come soggetti di riferimento, per il lavoro, le grandi organizzazioni sindacali rappresentative. Deve avere anche come riferimento le organizzazioni imprenditoriali, ma le deve avere in modo trasparente, cioè come le altre, nella stessa arena. E devono esserci le organizzazioni di cittadinanza attiva – usiamo questa espressione più felice di altre – che portano i saperi dei cittadini che provano a “essere Repubblica”, per citare l’art.3 della Costituzione.

Chi deve dialogare con loro? Devono dialogare con loro le persone responsabili politicamente e amministrativamente delle proposte. Se io discuto di casa o di asili o di trasferimento tecnologico per le piccole e medio imprese, devo avere di fronte i soggetti che hanno scritto quei documenti e se ne sono assunti la responsabilità politica.

Gli avversari di questo processo sono di due tipi: nella società sono quelli che hanno già dialogato con quelli che scriveranno quei provvedimenti, che ne hanno un ascolto privilegiato, che ne hanno influenzato il disegno e che sono quindi spiazzati da una natura pubblica del confronto. Avversari sono anche i soggetti, purtroppo numerosi, dell’amministrazione e della politica, che hanno maturato il profondo convincimento che tutto questo sia impossibile e dispersivo di tempo. Si sono disabituati al dialogo sociale, hanno perso gli strumenti per dialogare e quindi sono genuinamente convinti che tutto questo sia una gran perdita di tempo. Si immaginano che il dialogo sia un incontro a un tavolo verde in cui si discute dei massimi sistemi.

Per quanto riguarda invece le proposte di merito, quali, se realizzate, avrebbero il pregio di contribuire più radicalmente al miglioramento del Piano?

La più importante è quella in cui la potenzialità è meno sfruttata e quindi quella dove, in breve tempo, si potrebbe fare il salto. Ti parlo ad esempio del ridisegno del sistema integrato dei servizi fondamentali, di cura, di scuola, di mobilità, di salute e quindi del sistema dei servizi territoriali di questo paese, inclusa la casa, cioè la garanzia di una casa di qualità. Nell’ultima versione del PNRR circa il 60 % della spesa è destinata ai territori e ne cambia la configurazione.

È una potenzialità significativa, nelle periferie, nelle campagne deindustrializzate, nel bacino padano, sulle coste, nelle aree interne. Ma è come se gli mancasse l’anima, perché non c’è il punto di vista delle persone.

Perché è così importante? Perché è uno degli ostacoli enormi, alla qualità della vita, al fare impresa, a, nel caso delle donne, prendere decisioni non condizionate, non condizionate cioè dal fatto che gli grava sulla testa una larghissima parte dei doveri di cura. Questa “infrastruttura sociale” è fondamentale per lo sviluppo, per le piccole e medie imprese, per le diseguaglianza sociali, per i giovani, per le donne.

Prendiamo l’esempio della casa sulla quale il ForumDD ha appena pubblicato un dossier di proposte, grazie alla collaborazione con il Politecnico di Milano (Dastu) e altri ricercatori. La casa ha 23,5% miliardi di euro, nel piano attuale, che non è poco. Solo che i diversi pezzi sono pensati singolarmente. Quello energetico è efficientamento energetico delle facciate dei palazzi. Poi c’è un altro pezzo che riguarda le case popolari, poi un altro le aree sismiche, poi un altro il social housing. Ma si vede che non c’è il disegno complessivo.

Perché gli abbienti devono avere il 110% e le persone vulnerabili delle periferie rischiano di non poterlo utilizzare per la complessità di utilizzo dello strumento? Servirebbe invece una concentrazione dell’intervento nelle aree più vulnerabili e, non meno importante, sfruttare le esternalità dell’intervento. Se io cambio le facciate di un numero enorme di palazzi, io sto cambiando il paesaggio urbano. E allora devo farmi carico contemporaneamente di come raccolgo i rifiuti, di come curo la piazza, degli spazi collettivi aperti e chiusi.

Noi chiediamo, nel caso della casa, che torni ad esserci, presso il Ministero del Lavoro, come c’è stato e come doveva esserci nella storia nazionale del paese, un grande dipartimento delle politiche sociali e della casa, che diventi il centro di riferimento nazionale, capace di dare l’impulso politico. Così, senza cambiare moltissimo, il Piano diventa un’altra cosa.

Nel corso dei primi mesi della pandemia il ForumDD ha provato, con grande impegno, a ottenere dal governo misure universali di sostegno al reddito. L’erogazione del reddito di emergenza è stato il risultato molto parziale di questo impegno. Quali sono secondo te le ragioni che impediscono un impegno esplicito a favore di strumenti universali di sostegno al reddito?

Grazie all’alleanza con Asvis (e le alleanze per noi sono importanti) abbiamo ottenuto un provvedimento che è diverso da quello che avevamo proposto. Ma anche la nostra proposta aveva comunque carattere rimediale, perché avveniva a contesto dato. E il contesto non va bene. Il provvedimento perde la sua natura, raggiunge un numero inferiore di persone rispetto a quello che noi volevamo perché viene ostacolato da una serie di intralci. E ci rivela che c’è un mondo enorme di scoperti. Diamo un numero: anche solo nel mondo del lavoro ci sono 6 milioni e mezzo di lavoratori che tendono a essere scoperti, per via della dimensione del precariato e del lavoro irregolare. È evidente che c’è bisogno di una torsione universalistica. Però qui dobbiamo essere chiari. La torsione universalistica serve perché serve a uscire dall’approccio corporativo che domina il nostro sistema di welfare, che è la sovrapposizione di risposte a richieste di singole microcategorie. Consideriamo il provvedimento che è stato preso per il mondo della cultura, che ha riconosciuto un ristoro ai lavoratori del settore culturale che avevano fatto un lavoro di “almeno 7 giorni” nell’anno precedente. Questo dimostra consapevolezza per un settore che è in una situazione drammatica. Ma se riconosci come lavoro continuativo 7 giorni di lavoro, ci sono molte altre categorie di lavoratori che sono nelle stesse condizioni.

Quindi quel provvedimento, che non poteva non essere fatto, segnala che bisogna uscire dal corporativismo, che in questo paese ha una lunga storia.

Abbiamo quindi bisogno di misure comunque universali e, nello stesso tempo, abbiamo anche bisogno di pensare seriamente a un’idea di reddito di base che è una cosa diversa dall’andare nella direzione universale.

Ci tengo che questo sia chiaro nella risposta che ti do. Abbiamo bisogno di rendere universale un sistema che ha perso universalità e dobbiamo domandarci se, all’interno di un sistema universale, in un mondo così suscettibile a crisi, non abbia senso che tutti abbiano uno zoccolo minimo e che non sia necessario, ogni volta che c’è una crisi reinventarsi la luna. Ma dobbiamo anche chiederci perché c’è tanta ostruzione a un ragionamento così semplice. Questa cosa va capita altrimenti non la rimuoviamo.

L’ostruzione è di due tipi. Una, ovviamente, è quella delle corporazioni, quelle che hanno ottenuto qualcosa e sono convinte che se tutti hanno, loro avranno un po’ di meno. E poi c’è, di nuovo, la resistenza degli stessi soggetti politici e amministrativi che resistono a ‘mettere a repentaglio le proprie idee’, per usare un’espressione che il ForumDD usa spesso, che deriva – genuinamente – dalla sensazione che non ce la si possa fare. Che la complessità di ridisegnare il sistema sia tale da non potersi neanche esporre a un obiettivo di questo tipo.

È la stessa opposizione all’intervento per le imprese. Quanti incentivi corporativi a singoli pezzi del sistema produttivo esistono? Perché non riusciamo ad affrontarli da 20, 30 anni?

Perché affrontarli vuol dire districare una matassa molto complessa e l’apparato dello stato è molto fragile. Alcune persone responsabili non aprono neanche la partita perché sono convinte che tecnicamente è troppo complicata, non hanno l’attrezzatura amministrativa per farlo e sanno di non avere la copertura politica. E quindi sono convinti che è meglio non incominciare neanche. I bravi dell’amministrazione dicono: “Non ho i mezzi per farlo perché è complicato e non mi copriranno politicamente. Non è vero che lo vogliono fare, a metà strada molleranno tutto e mi ritroverò con un casino perché ho messo in discussione il sistema esistente e non ho un sistema nuovo.” Una burocrazia difensiva che si chiude. Per questo ci vuole la politica. Non lo può fare l’amministrazione da sola.

Nel corso dell’ultima Assemblea generale del ForumDD vi siete interrogati su “cosa ForumDD possa e debba fare per accrescere l’impatto delle proprie idee, per attuare fino in fondo l’obiettivo politico racchiuso nella propria ragione sociale”, e avete stilato un elenco delle cose che non intendete fare (trasformarvi in un partito, essere consulenti di chi governa, fare richieste che possano essere ignorate, contaminare i partiti esistenti, presentare ‘manifesti’ per chi si candida alle elezioni). Cosa pensate invece di poter fare per valorizzare la dimensione politica della vostra azione? E come si colloca la vostra riflessione nella discussione attuale sulla forma del ‘fare politica’?

Nella parte ‘costruens’, dopo che ci siamo tagliati diverse gambe nell’elenco dei no, individuiamo due livelli: uno, continuare a esercitare una pressione anche rumorosa se necessario. Provare a esercitare una pressione diretta non sui partiti, non ne vale la pena, abbiamo concluso, ma su singole persone che hanno responsabilità di governo. Questo ha senso e si può fare, se è trasparente.

Il secondo livello va nella direzione di favorire un processo di costruzione di un soggetto politico che, come abbiamo anche detto nel libro “Un futuro più giusto”, non sappiamo come emergerà. Per fare questo per noi è importante promuovere anche attivamente a livello territoriale le condizioni per la costruzione di una nuova classe dirigente.

In due modi. Uno, molto operativo, è stato costruire un’alleanza con una piccola associazione che si chiama ‘Ti candido’, che si prefigge l’obiettivo di favorire, promuovere e sostenere candidature nell’elezione dei consigli comunali di grandi comuni o, nel caso di piccoli comuni, nell’elezione dei sindaci.

Favorendo l’entrata in partita e promuovendo la candidatura di figure espressione della società civile, vicine alle proposte, ai principi, agli obiettivi del ForumDD. E per questo trasferire a loro conoscenze.

E, contemporaneamente, cercando di favorire la convergenza su iniziative comuni di forze che tendono in questo momento ad essere separate. Come dice Giovanni Moro la cittadinanza attiva non è soltanto influenzare chi governa ma tentare di governare direttamente.

Un esempio è il progetto “educAzioni”. Favorire la convergenza di nove grandi reti che raggruppano circa 500 reti di associazioni che si occupano della scuola, dal mondo del sindacato al mondo delle organizzazioni degli insegnanti, al mondo delle organizzazioni degli studenti, al mondo delle organizzazioni dell’accademia. “educAzioni” che, tra l’altro, in questi giorni oltre a esprimere delle proposte, si propone la costruzione di una comunità educante, capace di promuovere, in alcuni territori, operazioni pilota sperimentali.

Questi modi di agire servono a favorire l’emersione di gruppi dirigenti, di una potenziale classe dirigente di un soggetto politico, senza avere ancora noi stessi capito le modalità di questo percorso. Però intanto raggrumare persone può cambiare la vita in tanti contesti e mostrare a tanti gruppi di gente giovane che esiste un altro modo di fare politica.

Nei vostri documenti e nella vostra azione, pressoché unici nel panorama delle organizzazioni sociali e politiche del nostro paese, vi siete posti esplicitamente il tema di come la direzione attuale della trasformazione digitale stia contribuendo alla crescita delle disuguaglianze ed alla svalorizzazione delle diversità. E, anche insieme al CRS, vi siete posti l’obiettivo di contribuire a “riorientare la direzione della trasformazione digitale”. Non ti sembra un obiettivo velleitario e sproporzionato alle forze in campo, soprattutto dopo l’enorme diffusione delle modalità digitali di lavoro, studio e relazioni sociali che si è prodotta durante la pandemia?

Continuo a essere convinto che esista un altro scenario possibile.

E il metodo che abbiamo trovato e che speriamo di sviluppare insieme, serve intanto a raccontarlo, non solo a parole, dimensione di vita per dimensione di vita – questo per me è sempre molto importante – parlando alle persone, nel lavoro, nella cura, nel fare politica.

Sono andate le cose troppo avanti, nella direzione della concentrazione delle decisioni, da rendere velleitario il tentativo? È talmente potente lo scenario, talmente forte la concentrazione della conoscenza, come volano della concentrazione della ricchezza, da rendere inutile il nostro tentativo?

Io continuo a pensare che non sia velleitario perché… ci aiuta la storia. Ci sono stati momenti della storia in cui il livello di concentrazione della finanza, dello stesso capitalismo che abbiamo oggi, è stato di una tale rilevanza che si è pensato fosse impossibile rompere il sistema che si era costruito, e che ha condotto a delle inevitabili conseguenze distopiche che si chiamano nazismo, fascismo.

Ma abbiamo anche visto il sovvertimento radicale che è avvenuto negli Stati Uniti d’America. Quando ho dei dubbi, io penso sempre alla audizione di J.P. Morgan davanti alla Commissione Pecora. Quell’uomo era considerato imprendibile, imbattibile, indecostruibile. Io penso che i poteri forti si possono piegare, penso addirittura che la tecnologia offra, più della finanza, degli strumenti alternativi.

Non era chiaro quale fosse l’alternativa a J.P.Morgan, contro cui c’era solo la smobilizzazione dell’impero che aveva costruito. Mentre la tecnologia può essere utilizzata come fattore di rinnovamento, perché c’è un’alternativa. E la vediamo, la possiamo raccontare, migliaia di giovani la immaginano.

Il punto qual’è? È che ci vuole un’ enorme forza politica, che negli USA, in quegli anni ’20, viene dalle manifestazioni dei disoccupati, dalla drammatica situazione di fronte alla quale si scatena il populismo, una parola bellissima nell’etimologia americana. Il populismo americano che sconvolge il partito democratico che poi ha la forza di riuscire a fare sue le istanze che vengono dal populismo di quegli anni.

Io continuo a pensare che quei poteri siano battibili, che si possa incidere con tutti gli strumenti. Non solo con la regolazione, ma anche opponendosi ad essi con la forza di un monopolio pubblico.

Cosa possiamo fare noi? Quello che mi convince di più è la formazione, cioè diventare consapevoli che ce la possiamo fare, che esiste un’alternativa, che dipende da noi, ogni volta che usiamo uno strumento digitale, che ci può essere un altro modo, non solo di usarlo, ma anche di progettarlo.

Questo vale per le singole persone, per i singoli utenti, ma vale a maggior ragione per la classe politica che è la prima a non crederci, a pensare che i grandi monopolisti digitali siano imbattibili, mentre sono loro che non sono più consapevoli dei poteri che hanno.

Che giudizio dai del nuovo contesto determinato dal governo Draghi?

È il contesto creato dallo sfarinamento dei partiti, oltre quanto pensavamo possibile. La loro incapacità di costruire strategie, di proporre alleanze sociali in nome di un nucleo chiaro di priorità, di rappresentare aspirazioni e bisogni, di dialogare – parlo dei partiti che usano per definirsi la parola “sinistra” (anche se mescolata ad altre) – con il mondo del lavoro tradizionale e nuovo, di aprirsi ai migranti, di cogliere i nuovi sommovimenti del mondo femminile, di sentire e proporre la visione di un futuro più giusto. In questo contesto e solo in questo contesto può nascere un governo come quello appena nato. Attenzione, senza precedenti. Perché i governi Dini e Ciampi, due tecnici, erano governi in cui a un tecnico veniva affidata la guida di una strategia costruita dai partiti. E il governo Monti, di cui sono stato Ministro, era un governo di tecnici – nel senso di avere, ovviamente, opinioni politiche (chi non le ha) ma di non essere lì per quelle opinioni né come espressione dei partiti – ma con un chiaro e pubblico programma politico, quello negoziato con l’Europa dal precedente governo per consentire (di fatto) alla BCE di intervenire a difesa della lira e poi condiviso dal centro-sinistra. Oggi no. Oggi nasce un governo che i partiti sostengono senza né avere loro elaborato un programma, né conoscerlo: lo apprenderanno pochi minuti prima del voto. Perché, ovviamente, presidiare la crisi pandemica, i suoi riflessi sulle imprese e il lavoro e chiudere il Piano Ripresa e Resilienza non è un “programma”, il programma sta nel “come” queste cose si fanno. Che non è univoco. Non è questione tecnica. Bensì politica. Che i partiti e i loro rappresentanti nel governo affronteranno dopo, vuoi accettando le decisioni del Presidente del Consiglio – primus inter pares, ma non loro superiore – vuoi scontrandosi in Consiglio dei Ministri. In questo contesto, ci sono spazi per le organizzazioni della società? Certo, se, forti delle loro idee, sapranno alzare la voce.

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Un commento a “Il Piano è un programma politico, non una questione tecnica”

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