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Articolo pubblicato su “il manifesto” del 09.03.2025.

Di Pietro Ingrao, a dieci anni dalla scomparsa, Einaudi manda in libreria la ristampa di Volevo la luna il volume autobiografico pubblicato nel 2006. Scriveva l’autore in una breve avvertenza al lettore: «Queste memorie sono in qualche modo la ricostruzione di una vicenda personale e sociale nelle insanguinate vicende del mio tempo (supponendo che ci sia una vicenda che corre il secolo, e il secolo stesso sia leggibile come una vicenda)». Una autobiografia nella quale Ingrao racconta la sua vita dall’infanzia ai suoi sessantatré anni, tanti ne conta nel 1978, allorché, alla data del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro, pone termine al racconto di Volevo la luna.

Alla stesura di pagine autobiografiche ordinatamente disposte Ingrao prende a dedicarsi nel corso degli anni Novanta e, nel 1998, porta a compimento uno scritto che resta inedito e che verrà pubblicato postumo nel 2017, per mia cura, con il titolo Memoria dalla casa editrice Ediesse, quinto volume della collana Carte Pietro Ingrao promossa dal Centro di studi e iniziative per la Riforma dello Stato. Al testo di Memoria attingono molte pagine di Volevo la luna, ma sono diverse la tonalità della scrittura e il ritmo della narrazione. Medesimo è invece l’arco di tempo preso in considerazione. Come Volevo la luna anche Memoria si chiude con il caso Moro e testimonia della condotta da Ingrao allora tenuta nel rivestire il ruolo di presidente della Camera dei deputati. Piuttosto come una appendice si offrono due successivi e conclusivi capitoli. L’uno contiene alcune considerazioni sullo «sgretolamento» dell’Urss, e l’altro una riflessione su, si legge, «il nodo irrisolto, il punto cruciale che ha portato non solo al crollo dell’Urss e del suo impero, ma più largamente a una sconfitta del movimento operaio mondiale nel chiudersi di questo secolo». Tanto che Ingrao giunge, di conseguenza, a formulare nette le seguenti ineludibili domande: «Dove sta l’errore strategico che ha condotto il comunismo allo scacco? Sta nella linea della dittatura militare imboccata subito e fatalmente dai bolscevichi nel 1917? Oppure ha la sua fonte nello stesso marxismo e socialismo europeo, prima ancora di Lenin, facendo salva (ma non proprio tanto) la barba augusta di Karl Marx?».

Domande che Ingrao ha maturato al sommo del suo intenso e continuo impegno politico per il comunismo in una (riprendo le sue parole) «vicenda personale e sociale» lunga più di quarant’anni, dal 1936 al 1980. Sta di fatto che del decennio che dal 1980 giunge al 1990 Ingrao non dà conto né in Volevo la luna né in Memoria. Le sue valutazioni e i suoi giudizi riguardo al decennio che si chiude con lo scioglimento del Partito comunista italiano, Ingrao piuttosto motiva e ragiona ne Le cose impossibili. Un’autobiografia raccontata e discussa con Nicola Tranfaglia, pubblicata dagli Editori Riuniti nel 1990, nel pieno del dibattito che anima i due ultimi congressi del Pci a Bologna e a Rimini. E poi, ancora, cinque anni dopo, in Appuntamenti di fine secolo con una apertura problematica, una capacità di analisi e una ricchezza di sfaccettature, nello scambio di lettere con Rossana Rossanda intercorso tra l’aprile del 1994 e il marzo del 1995 per mettere a punto, si legge, «una ricerca sulla vicenda sociale in cui si sono prodotti Tangentopoli e la svolta a destra».

Perché dunque Ingrao fissa al 1978 il termine delle sue narrazioni autobiografiche alle quali pure, con costanza, attende nel corso dei venticinque anni successivi, fino al 2006, quando affida all’Einaudi la pubblicazione di Volevo la luna? Tento di articolare una risposta dicendo che in Memoria e in Volevo la luna, così come ne Le cose impossibili,Ingrao intende rendere conto della sua biografia politica ovvero, si dica, del suo impegno attivo nei modi di un organismo collettivo, la forma partito come produttrice di prassi intesa al cambiamento della relazione economico-sociale dominante. Narra sé stesso, la sua formazione culturale, le scelte compiute e lo svolgersi dei suoi pensieri a fronte degli accadimenti ‘storici’ restituendoli per come li ha vissuti, con la passione e con il ragionamento, entro i decorsi della vicenda ‘civile’, ‘pubblica’ dell’Italia dopo la stagione fascista e la guerra, a che i presupposti di una prospettiva comunista si affermassero nelle dinamiche e nei modi garantiti dalla Costituzione repubblicana.

A dire di questa dimensione ‘pubblica’ dell’Ingrao autobiografico pare a me valga la risposta che, in termini assai espliciti, egli dà a Tranfaglia quando gli chiede perché nel 1979 rifiuta la proposta del partito a ripresentare la propria candidatura per un secondo mandato alla presidenza della Camera. Ritengo possano facilmente trovarsi qui le motivazioni che mutano allora i modi, le forme, il tenore dell’impegno politico tenuto da Ingrao fino a quel momento: «Io ero molto colpito dai fenomeni di frantumazione e corporativizzazione, che erano seguiti ai grandi momenti di aggregazione collettiva culminati nel ’68-’69. Da che scaturiva questa prima mutazione (altre seguirono dopo) dell’agire collettivo? Vedevo riemergere il tema dell’individuo, e della donna, in un modo che andava oltre la cultura e le esperienze su cui s’era formata la mia vita». E, assai significativamente, precisa: «Io ero stato educato a una forte valutazione dell’azione collettiva. Era stato il punto di svolta che mi aveva gettato nella politica. Adesso volevo capire meglio come poteva vivere, nei fenomeni di disarticolazione che si producevano nella società e di fronte ai grandi processi di mondializzazione, quell’elemento di irripetibilità che reca con sé l’individuo, pure nella sua necessaria, obbligata ‘socialità’; e tutta la questione per me inedita della differenza sessuale». E aggiunge: «Io dovevo rimettermi a tavolino: cambiare i miei libri e – come dire? – ricominciare a studiare».

Dunque è la crisi e, meglio, l’esaurirsi d’una specifica espressione dell’«agire collettivo», d’una determinata forma partito; è l’incaglio patito nei suoi raccordi e nelle sue applicazioni di forza politica risolutrice, che ne rimette in discussione i punti fondamentali. Una inerzia e una opacità lo avvolgono che impediscono di vedere atti, realtà, valori e di cogliere la dimensione polimorfa, non lineare, dei processi collettivi e individuali.

Quando nel 1986 presso Mondadori esce Il dubbio dei vincitori, la prima delle tre raccolte poetiche che Ingrao dà alle stampe (seguiranno, nel 1994, L’alta febbre del fare e, nel 2000, Variazioni serali) risulterà evidente la ricerca e la sperimentazione di un linguaggio nuovo, d’uno strumento conoscitivo capace di intendere la complessità dei soggetti e delle relazioni sociali dell’epoca, percepita nelle sue poderose trasformazioni. Quel libro di poesie suscitò un grande interesse. Ingrao, intervenendo nelle molte discussioni che si moltiplicarono anche tra gli iscritti nelle sezioni del Pci, ebbe modo di dichiarare: «Io ho provato a servirmi del linguaggio poetico per spezzare alcune categorie ossificate e classificazioni che ci pervadono non solo nella loro dimensione, ma nella lettura che ci danno del tempo, degli eventi e dei soggetti ed ora tutto ciò domanda una rivoluzione di vocabolario, di ritmi, di connessioni, contraddizioni: le nuove sillabe».

Ancora dunque un Ingrao ‘pubblico’ pur nelle forme della poesia. Sì, ma volto allo scavo della soggettività in prima persona, intento alle scaturigini della propria interiorità da partecipare in forma di parole. Se così è, Ingrao non ha proseguito allora, è da credere, nella narrazione della sua autobiografia a partire dagli anni Ottanta perché è perfettamente consapevole che la poesia che veniva coltivando rende, nella sua autonomia, compiuto conto della vita dell’autore

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