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Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali nella dignità e nei diritti”.

“La mia patria è un libro nel quale sta scritto: non uccidere”.
Imre Toth (Emerich Roth)

La luce
e il pensiero

sono
ciò che illuminano.

L’anima – il respiro – dell’Europa è il desiderio degli emigranti che cercano di raggiungerla attraverso il Mediàaneo, affermando così la propria libertà e la propria uguaglianza nella dignità e nei diritti di esseri umani.

Il territorio europeo è occupato e tormentato dalla tirannide della guerra. La libertà politica non è garantita da una forma di governo, ma da un livello di civiltà. Una maggioranza democraticamente eletta può far regredire un popolo fino alla peggiore delle tirannidi e della barbarie: come è accaduto in Germania nel 1933.

La più antica e la peggiore delle tirannidi è la guerra. Ogni forma di tirannide è una forma di guerra.

Le armi possono essere un mezzo di difesa, ma la guerra non è un mezzo per raggiungere la libertà.

La strada per raggiungere la libertà è sempre e soltanto la parola.

Chi è privato della libertà è privato della parola. Ma v’è una differenza tra libertà di parola e libertà di opinione. Una libertà di opinione senza libertà di pensiero è tirannide, perché è violenza

È violenza promuovere e sostenere movimenti di opinione che si oppongono alla libertà e all’uguaglianza nella dignità e nei diritti di tutti gli esseri umani. Vi sono consapevolezze di sé dell’umanità che sono e restano la misura dell’universalità del concetto stesso di uomo, di essere umano, e che non possono essere disattese, contro le quali non si deve operare. Qualunque sia il popolo, la religione, il momento storico, la circostanza nella quale ci si trova. Questo è il senso dell’ONU come organizzazione sovranazionale e della dichiarazione universale dei diritti umani.

La dichiarazione universale dei diritti umani non è il risultato di un movimento di opinione, ma di un livello del pensiero e della civiltà cui è arrivata l’umanità nel suo insieme. Un livello di consapevolezza che costituisce un traguardo per la vita di tutti i popoli. La data dell’approvazione di questa dichiarazione è uno spartiacque, nel tempo, tra storia e preistoria dell’umanità. Una volta approvata questa dichiarazione, l’Umanità si è avviata sulla strada della sua realizzazione.

Nel 1789, dopo la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, apparve chiaro che gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza erano in grado di distruggere per sempre le monarchie in Europa, ma già le guerre napoleoniche dimostrarono che la guerra rende impossibile la realizzazione di quegli ideali, perché ne è la negazione.

La guerra è monarchica, e per ben due volte, in Francia, ha portato al trono, al posto di un re, un imperatore.

Il nodo è logico, non si risolve con l’azione, tagliandolo, come fece Alessandro Magno, con un altro nodo, per avanzare con il suo esercito verso l’India. Si deve sciogliere. Perché gli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza nascono dal procedere del pensiero filosofico umano e devono trovare la loro strada attraverso il pensiero. Il problema, infatti, è che, in questo caso, l’esercito non soltanto non può essere utilizzato, ma è il più grande ostacolo allo scioglimento del nodo.

Per essere realizzati, gli ideali universali di libertà, uguaglianza nella dignità e nei diritti e fratellanza, non soltanto non possono servirsi della guerra, ma richiedono necessariamente la pace.

È la ragione per la quale essi vengono di nuovo proclamati, dopo una orribile guerra mondiale, da una assemblea di popoli che, idealmente, rappresenta tutta l’Umanità.

In questo nuovo inizio della storia umana oriente e occidente, movimento apparente del cielo verso il tramonto, movimento reale di rotazione della terra verso l’alba si incontrano come essere e apparire nella vita di tutti gli enti. È affidata all’Umanità la responsabilità di rendere questo inizio l’origine del suo futuro e non il bagliore di fiamma della sua fine.

II

Guerra e conflitto, come ho già scritto altrove, non sono sinonimi. Certo, la guerra è anche conflitto, ma il conflitto non è necessariamente guerra. Guerra è la degenerazione del conflitto. Non ne è una delle modalità – delle manifestazioni. Vi sono gradi della degenerazione del conflitto in guerra. Gradi che possono servire a riportare la guerra – le guerre – nei limiti del conflitto. Ma che, fin qui, sono serviti a trasformare i conflitti in guerre sempre più distruttive.

Tutta la letteratura filosofica e politica sembra fare perno sul concetto di Stato. Ma lo Stato non è, come cerca di farci credere chi traduce con l’espressione città-stato la parola greca πόλις, un concetto universale, bensì un fenomeno storico legato allo sviluppo e all’espansione della civiltà europea. Πολιτεία non significa necessariamente Stato. Platone, nel secondo libro del suo trattato politico, fa dire esplicitamente a Socrate che la πόλις diviene Stato soltanto quando si manifesta in essa la necessità della guerra. E questo accade, nella πόλις, a causa del suo essere smisurata, mancante di misura e, quindi molle, eccessivamente ricca e corrotta: nel linguaggio platonico τρυφῶσα […] φλεγμαίνουσα πόλις. La Πολιτεία di Platone non è un trattato sullo Stato – e tanto meno sullo Stato ideale – ma una ricerca sulla giustizia – περὶ δικαίου – come spiega il sottotitolo erroneamente attribuito soltanto al primo libro che, nel secondo, si dichiara esplicitamente essere soltanto il proemio dell’intera opera. Il primo tentativo di fondazione della πόλις, nella Πολιτεία, non comporta il problema di una struttura statale. Ma Glaucone si oppone a questo modo del Socrate platonico di concepire la πόλις, e Socrate è costretto a fondare una πόλις eccessivamente ricca, smisurata, che, avendo bisogno di un esercito, richiede anche una organizzazione statale.

Il primo, nella modernità, a rendersi conto del rapporto tra Stato e guerra è stato Immanuel Kant, quando, non a caso dopo il 1789, anno della proclamazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, in Francia, ha scritto il suo saggio Per la Pace eterna (o perpetua, come anche si traduce ewige). Il saggio di Kant viene pubblicato nel 1795. Nel 1796 o 1797, G.W.F. Hegel, nel [Das alteste] Sistemprogramm des deutschen Idealismus, scritto forse insieme ad altri, coglie immediatamente i nessi che ci sono tra pace e libertà e critica severamente lo Stato come macchina – riflesso della necessità – che rende impossibili entrambe.

Dunque, come si può intuire, è bene separare il concetto di popolo da quello di Stato, quando si parla di diritti universali degli esseri umani. L’ONU, concepito fin qui come un insieme di Stati, quando parliamo di approvazione della Dichiarazione universale dei diritti umani deve essere considerato l’insieme dei popoli di tutta la Terra.

Da questo modo di concepire i popoli a prescindere dagli Stati, deriva anche una diversa maniera di concepire i confini delle nazioni. Essi non sono più confini di guerra, ma di pace e dunque si aprono ai movimenti degli individui, all’incontro tra loro delle persone, delle lingue, delle culture.

Questa è la prospettiva umana nella quale devono essere presi in considerazione i problemi dell’emigrazione nel mondo civile e soprattutto in Europa.

III

Mentre scrivevo queste pagine, in Israele si è scatenata una violenta azione di guerra da parte di una organizzazione militare palestinese.

In Israele, in una striscia di territorio molto piccolo, continua a vivere il popolo palestinese. I Palestinesi sono un popolo al quale è stato conservato un piccolo spazio di un territorio che, precedentemente, si chiamava Palestina e ora è il territorio dello Stato di Israele.

Durante il periodo coloniale, prima della Seconda guerra mondiale, la Palestina apparteneva all’Impero coloniale inglese.

Lo sterminio degli ebrei in Europa, da parte della Germania nazista, è stato il motore di un esodo di sopravvissuti ai campi di sterminio che ha posto il problema di ridare al popolo ebraico uno Stato nel territorio che gli era appartenuto in epoca romana. Ma questo ha determinato la perdita del diritto al proprio Stato, da parte dei palestinesi: il popolo che aveva occupato quel territori da secoli.

Cosa significa, per un popolo, nella modernità, occupare un territorio senza avere uno Stato?

Per gli Ebrei, in Europa, aveva significato la persecuzione, i pogrom, la mancanza di diritti, e infine lo sterminio nazista.

Per potersi difendere, per essere riconosciuti come popolo, per usare legittimamente le armi, si deve essere uno Stato.

Dopo la rivoluzione francese, dopo la dichiarazione universale dei diritti umani, Napoleone ha dato agli Ebrei, in Francia, tutti i diritti degli altri cittadini. Ma è in Francia che c’è stato il caso Dreyfus.

Avere uno Stato, per un popolo che abita un territorio, significa poter legittimamente difendere con le armi il proprio territorio e perfino ampliarlo. Non avere uno Stato può significare subire un genocidio, come è avvento in territori coloniali e, esemplarmente, nelle Americhe.

Si pensi ai popoli della foresta amazzonica. O agli indiani del nord e del sud delle Americhe.

Noi non conosciamo ancora quale sarà l’entità della reazione dello Stato di Israele all’attacco subito nel proprio territorio. Sappiamo soltanto che Israele è uno Stato, la Palestina no. Poiché c’è Israele, la Palestina non esiste più e non deve più esistere. Dal punto di vista formale gli Israeliani hanno il diritto di difendersi – ovvero di fare la guerra – i Palestinesi no. Nel loro territorio sono una res nullius.

Dunque gli si può togliere la casa e la terra. Si possono costruire nuovi insediamenti sulla terra che loro rivendicano come propria. Li si può legittimamente vessare in tutti i modi anche perché sono considerati e sono, quando lo possono, terroristi.

Sradicare totalmente il terrorismo palestinese può anche significare annientare migliaia di civili, compiere, legittimamente, un genocidio. Uno Stato ha il diritto di difendersi, un popolo senza Stato, no.

Ma si deve tornare, all’inizio di questa storia, a quando il popolo senza Stato erano gli ebrei. A quando i popoli arabi hanno cercato negli ex nazisti degli alleati per distruggere gli ebrei che avevano ottenuto da poco dall’ONU il loro Stato. Quando venivano messe le bombe negli autobus dei bambini ebrei.

Ma perché fare la storia di questa guerra? Perché fare la storia delle guerre? C’è forse chi ha ragione e chi ha torto, nelle guerre? Vince forse chi ha ragione?

No. Vince il più forte.

Basta dunque con le guerre e con il diritto – la necessità – degli Stati, di tutti gli Stati, di fare la guerra.

Questo sia, questo deve essere, il futuro dell’Umanità.

Salire a Gerusalemme

Non con la guerra
ma con la pace

si deve difendere
Gerusalemme.

Come la vita
la verità e la bellezza,
Gerusalemme
non è una nazione

e non ha confini:

se la legge di Dio
è “non uccidere”,
non puoi uccidere
invocando Dio.

In guerra si scende,
a Gerusalemme si sale.

da EUROPA, Gerusalemme e Atene, Cadmo, Fiesole, 2018.

IV

Palestinese

Siamo un popolo,
anche noi,
alla ricerca di una terra,

discendenti,
anche noi,
di Abramo,

anche noi,
fratello,
siamo Ebrei,

Ebrei di Palestina:
l’identità e la casa,
per l’essere umano,

non sono possesso,
ma ricerca e cammino,
non sono destino di guerra,

ma desiderio
e verità della pace.

da EUROPA, Gerusalemme e Atene, Cadmo, Fiesole, 2018.

La nascita dello Stato di Israele non è, né potrà mai essere, la realizzazione del sogno sionista: è stata invece la conseguenza e la reazione del popolo ebraico alla shoà, allo sterminio degli ebrei perpetrato in Europa dal nazifascismo.

Con la fondazione dello Stato di Israele non è finita la diaspora ebraica, è iniziata la diaspora palestinese.

Sia gli israeliani che i palestinesi devono comprendere questa realtà e trovare tra loro un modo di convivere.

Non è possibile portare tutti gli ebrei del mondo in Israele, e non è possibile riportare tutti i palestinesi usciti dalla loro terra in Palestina. Ebrei e palestinesi devono trovare un modo di convivere nel territorio che occupano: convivere come due popoli liberi e provati da una grande tragedia che, senza loro colpa, li ha travolti entrambi.

Questo significa che non v’è una incompatibilità tra i due Stati, quando saranno due, né una incompatibilità tra i due popoli.

I palestinesi che si trovano fuori dal territorio della Palestina devono essere integrati nei paesi che li hanno accolti: non devono essere considerati, come ho inteso dire da un commentatore radiofonico, carne da cannone di Hamas, esseri umani pronti alla guerra e alla morte.

Né gli israeliani devono sentirsi in dovere o percepire la possibilità di fare la fine di Sansone o di trovare comunque il modo di sterminare i Palestinesi.

Si deve riportare la guerra entro i limiti del conflitto, la morte dentro l’orizzonte della vita.

VI

La luce non muore,
diviene parola.

La parola non muore,
diviene luce.

da Libertà della parola e forza – necessità – del consenso, in corso di pubblicazione in MATERIALI DI ESTETICA.

La guerra non è un diritto.

Nessun popolo ha il diritto di vivere in una terra che ha reso il cimitero del popolo che l’abitava prima.

La guerra elimina i nemici, la giustizia elimina l’inimicizia.

La vera forza non è la violenza, ma la parola del giusto: la giustizia è ricerca e cammino. La giustizia non è violenza.

Non è sufficiente schierarsi, come invece ha scritto Luigi Manconi, dalla parte delle vittime.

Ci si deve schierare dalla parte della pace e non della guerra.

Ogni popolo in guerra fa le sue vittime ed ha le sue vittime. Non è sufficiente stare dalla parte delle vittime per stare nel giusto, si deve stare dalla parte della pace e non dalla parte di chi vince. Vince pressoché sempre chi fa più vittime.

Lo sa bene Netanyahu. Basta vedere il numero dei civili e dei bambini uccisi soltanto con i primi bombardamenti su Gaza.

Ma sia chiaro. Sui crimini di guerra il tribunale che decide non è quello delle Nazioni Unite, ma quello del più forte. In questo caso ci si chiede cosa ne pensano gli Stati Uniti. Questo è l’importante.

Questa è la legge della guerra, questa è la legge degli Stati.

Negli Stati dove è avvenuto lo sterminio degli ebrei ci sono ancora intellettuali che lo negano: non è mai avvenuto.

I popoli senza Stato possono essere sterminati senza che ce ne sia una esatta memoria. Per questo è tanto importante la memoria per il popolo ebraico e per lo Stato ebraico. E lo sarà anche per lo Stato palestinese, quando ci sarà.

Ma la memoria non deve avere come conseguenza il terrore e l’odio. Deve servire a comprendere di cosa siamo capaci noi esseri umani in determinate condizioni.

Anche gli ebrei, che hanno subito una ingiustizia così enorme, possono compiere tanto del male, quando scelgono (o sono costretti a scegliere) la guerra, e si trovano di fronte un popolo senza Stato, come erano loro prima di averne uno.

Le Nazioni Unite devono dare ai palestinesi un territorio loro e uno Stato, prima che Israele compia un genocidio come quello che hanno subito gli ebrei nel secolo scorso.

Gli ebrei della diaspora non sono coinvolti in questa tragedia. E sarebbe davvero orribile se questi eventi portassero ad una ondata di antiebraismo fuori dal Medio Oriente.

Dico antiebraismo, non antisemitismo. Perché sono semiti anche gli arabi, i palestinesi.

Forse fa parte dell’antisemitismo, ne è come una tardiva conseguenza, la freddezza con la quale i paesi occidentali guardano quello che sta accadendo in Medio Oriente.

La destra italiana, ma anche europea, che ha un atteggiamento così indifferente nei confronti degli emigranti morti nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere le coste europee, è coscientemente o incoscientemente la stessa che nega la realtà dell’Olocausto ebraico e guarda con orrore, ma anche con un certo disprezzo nei confronti di entrambi i contendenti, quello che accade sul territorio israeliano.

Quella ebraica è una delle grandi religioni e delle grandi civiltà che appartengono all’Occidente, ma anche la religione e la civiltà araba lo è stata e può ancora esserlo.

Si pensi alla medicina, alla matematica, alla filosofia araba del medioevo.

Il colonialismo europeo ha degradato il mondo che ha conquistato nel diciannovesimo e gran parte del ventesimo secolo con la potenza delle armi.

Non c’è parte del mondo che, direttamente o indirettamente, non abbia subito il colonialismo europeo.

La guerra che da oltre mezzo secolo oppone Israele e il popolo senza Stato dei palestinesi è una guerra coloniale. Gli israeliani che vanno ad abitare gli insediamenti costruiti sulla terra strappata ai palestinesi, vengono chiamati coloni.

Il territorio ancora occupato dai palestinesi è l’ultimo lembo di colonia che gli arabi contendono agli europei che, in questo caso, sono i figli degli ebrei sfuggiti al massacro in Europa.

Ma che cosa è dunque l’Europa, nella quale nasce – è nata – la dichiarazione universale dei diritti umani e si è consumata, si consuma ancora, la più grande tragedia del colonialismo, del razzismo, dell’antisemitismo?

L’Europa è questa luce del tramonto che sembra andare verso un’alba ideale di pace e di fratellanza, del riconoscimento del diritto di ogni essere umano alla libertà e all’uguaglianza nella dignità e nei diritti, ma anche il luogo nel quale continua ad abitare la violenza e la sopraffazione, nel quale la giustizia viene considerata una pretesa dei deboli, nel quale l’ingiustizia viene elevata a diritto, nel quale la guerra viene chiamata giusta, nel quale la pace è considerata uno stato provvisorio e fragilissimo e la legge del più forte viene scritta a caratteri cubitali e approvata da parlamenti eletti dal popolo con maggioranze conquistate con i mezzi di comunicazioni di massa e le tecniche usate per vendere le più diverse merci.

Il mondo intero, infine, sta divenendo questa scena nella quale nel gioco del dare e dell’avere le armi svolgono un ruolo fondamentale, perché rappresentano la legge della forza, non quella del diritto. Il diritto, con le armi, è quello che si riesce a conquistare con la violenza e ogni forma violenta di costrizione e distruzione.

Ma allora perché l’essere umano parla, se la parola non diviene luce?

A questo servono le armi, a questo serve la violenza: a impedire che la parola divenga luce.

La strage compiuta da Hamas il 7 ottobre è stata orribile .

Aveva, in tutta la sua crudeltà, il senso di una rivolta. Ma anche quello di una assoluta impotenza del popolo palestinese nei confronti dello Stato di Israele e delle condizioni nelle quali costringe a vivere quel popolo.

Le reazioni, durante il lunghissimo e sempre più tirannico Governo Netanyahu, agli episodi di terrorismo palestinese, spesso provocato anche da evidenti manifestazioni di non rispetto nei confronti dei luoghi sacri islamici, sono sempre state causa di stragi di numerosi civili. Stragi perpetrate con estrema determinazione e freddezza. Il numero di civili palestinesi uccisi durante i governi Netanyahu è altissimo.

Anche questa volta si evoca il sentimento dell’orrore del terrorismo per suscitare negli israeliani il sentimento della vendetta. Ma il modo in cui avvengono queste incursioni, il numero dei civili uccisi, la assoluta mancanza non soltanto del rispetto per i sentimenti e la religione degli arabi, ma anche della volontà di trattare con loro una pace e una condivisione del territorio che era il loro, non risponde a nessun sentimento, neppure a quello dell’odio. Appare essere, evidentemente, un programma.

Soltanto una minima parte degli israeliani appoggia e ha appoggiato i governi Netanyahu. Il terrorismo di Hamas e la guerra continuano a tenere in piedi questa sciagura per i palestinesi, per gli israeliani, per gli ebrei e per il mondo.

Todi, 28 ottobre 2023

VII

Trascendenza

Guerra è l’ingiustizia
degli uomini

non la giustizia
di Dio.

La giustizia non è violenza.

da ATLANTIDE, Cadmo, Fiesole 2017.

La violenza non educa, perché è ingiusta.

Usare la violenza nei confronti dei bambini per dissuaderli da comportamenti indesiderati significa renderli violenti a loro volta: fare di loro degli adulti violenti.

La violenza produce violenza.

Dunque non è il metodo migliore reagire al terrorismo con la rappresaglia verso un intero popolo, sottoporlo, per rappresaglia o, come anche si dice, per vendetta, all’uccisione di civili innocenti, di donne, di bambini, di vecchi.

In questo modo non soltanto si perpetra un vero e proprio genocidio, ma tra i pochi che resteranno si formerà la convinzione che l’unico modo per avere ciò cui si ha diritto è uccidere, violentare, distruggere.

La violenza chiama violenza, il terrorismo chiama terrorismo in un circolo vizioso e disumano.

Non è questo il modo migliore per fondare uno Stato nuovo. Non è questo il modo per convincere il mondo degli esseri umani che lo Stato che si è fondato durerà a lungo. Perché gli esseri umani fanno la guerra, ma sanno che la cosa migliore, per vivere a lungo, è la pace.

Un piccolo paese, come Israele, è giusto che sia in grado di difendersi in un mondo nel quale, purtroppo, la guerra ancora esiste, ma non può in eterno confidare sulla sua sopravvivenza soltanto perché si ritiene imbattibile. Nessun pugile, nessuno schermitore, nessun lottatore resta sempre imbattibile. Per vivere a lungo si deve essere amati o almeno non odiati dai propri vicini.

Detto questo, tuttavia, deve essere chiaro che lo Stato di Israele rappresenta soltanto i suoi cittadini e non il popolo ebraico. Lo Stato ebraico e il popolo ebraico non saranno mai la stessa cosa.

La diaspora ebraica non è finita e non finirà mai. La coscienza, la spiritualità ebraica è e sarà sempre rappresentata dalla diaspora. Anche gli spiriti più liberi, più critici, tra i cittadini di Israele, appartengono alla diaspora. La diaspora ebraica ha subito la shoà e sta subendo i comportamenti dello Stato di Israele. L’ideologia sionista non ha cancellato e non può cancellare la storia della diaspora ebraica. Una ideologia non può sostituirsi alla Storia. Gli ideali, le creazioni dei grandi personaggi dell’ebraismo appartengono alla storia della diaspora ebraica, come i profeti appartengono alla storia del popolo ebraico narrata nella Bibbia.

Se vuole raggiungere le altezze spirituali della storia del popolo ebraico, lo Stato di Israele deve meritarlo. E non lo meriterà per mezzo delle armi, ma con la ricerca della giustizia.

A conclusione di quanto detto sopra, faccio una proposta per la giurisdizione della città di Gerusalemme, che è luogo considerato santo dalle tre religioni monoteiste cui appartengono ormai miliardi di persone che abitano la nostra Terra.

Gerusalemme sia considerata, dunque, in memoria delle vittime della shoà e di tutte le vittime delle persecuzioni religiose e delle guerre di religione, territorio internazionale affidato alle Nazioni Unite, che la terranno a disposizione dei visitatori e dei pellegrini che vi giungeranno. L’ONU dovrà essere garante del rispetto di tutti i luoghi sacri di Gerusalemme secondo la tradizione di ciascuna delle religioni che vi si riconoscono.

Gerusalemme non appartiene al più forte, ma ai santi di ognuna delle tre religioni monoteiste e all’intera Umanità.

Todi, 14 novembre 2023

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