La volontà di stravolgere definitivamente l’asseto costituzionale è stata dichiarata ad alta voce. Lo abbiamo letto nei programmi dei partiti e lo sentiamo ripetere nelle dichiarazioni esplicite dei leader: presidenzialismo e autonomia differenziata delle regioni sono questi i due principali obiettivi di riforma istituzionale che si vogliono raggiungere. Come che la si pensi, l’introduzione della forma di governo presidenziale e il passaggio alle Regioni delle vaste competenze in tema di diritti fondamentali ci consegnerebbe a una nuova Repubblica, abbandonando l’orizzonte dei governi parlamentari e dello Stato delle autonomie improntato a un principio solidaristico, così come disegnato dai padri costituenti.
Almeno una conseguenza dovremmo allora trarla da questa situazione di fatto, dovremmo ammettere che la posta in gioco è il futuro della Costituzione. Chi si riconosce ancora nei valori della Costituzione è avvertito, domani non potremmo dire “non lo sapevo”. In caso, dovremmo ammettere che, pur se eravamo consapevoli di quel che ci aspettava, non siamo stati in grado di impedirlo; sperando di non dover invece confessare che non abbiamo fatto nulla per evitarlo, neppure quel poco che potevamo fare.
Il progetto preannunciato non può che suscitare preoccupazioni. Per poter però esercitare liberamente il diritto di critica è necessario sfuggire ad alcuni pregiudizi che, in questi tempi strani, si sono affermati. Così, se si parla in difesa della Costituzione si rischia di essere considerati “conservatori”; se ci si permette di criticare le riforme costituzionali, che possono essere peggiorative, si viene accusati di avere dei “preconcetti ideologici”. Per sfuggire a tutto ciò proviamo allora a svolgere alcune considerazioni di carattere rigorosamente empirico, dati di fatto difficilmente contestabili.
Per quanto riguarda il presidenzialismo, si dice: non è un male in sé. E in effetti, non si può che constatare che esistono forme di governo democratiche, diverse dalla nostra, che prevedono l’elezione diretta del Capo dello Stato. Gli Stati Uniti o la Francia sono gli esempi solitamente richiamati. Al pari, però, non può negarsi che esistono altri paesi in cui l’elezione popolare del Presidente è all’origine dei tratti autocratici di quei regimi, dall’Ungheria alla Turchia sino ad arrivare in Russia. Dunque, sulla base dei fatti, deve ammettersi che il bene o il male del presidenzialismo dipende dal contesto (in realtà anche dalle diverse idee di democrazia, ma di queste qui non parliamo, volendo rimanere fedeli al nostro impegno di limitarci ad osservazioni empiriche).
Ed è proprio guardando ai diversi contesti che si scorge qual è la condizione necessaria se si vuole evitare la degenerazione del presidenzialismo in autocrazia: l’esistenza di un forte equilibrio tra i diversi poteri, tra Governo e Parlamento in particolare.
In fondo si tratta della traduzione in concreto del sacro principio della divisione dei poteri e dei checks and balances. L’osservazione dei fatti, dunque, dimostra come tutte le forme di governo presidenziali possono degenerare – a volte tragicamente – in mancanza di un tale solido presupposto, si pensi alle diverse situazioni nei paesi dell’America latina o nei paesi dell’est europeo. Ma si rifletta anche sulle difficoltà delle più consolidate forme di governo presidenziale. L’assalto a Capitol Hill ne rappresenta un segnale inquietante.
Allora la domanda che dovrebbero porsi tutti coloro che si vogliono attenere ai fatti è chiara: vogliamo correre il rischio di un presidenzialismo senza contrappesi? Una possibilità di degenerazione che deve essere considerata reale nel nostro Paese a causa dello stato di grave debolezza del Parlamento. Più in generale è la mancanza di forti contropoteri che rende “pericolosa” una scelta presidenzialista in Italia. Questo al di là di ogni ulteriore considerazione di principio o di natura propriamente politica, ma limitandoci a valutare unicamente gli equilibri istituzionali. In questa specifica prospettiva nessuno può seriamente equiparare il nostro organo legislativo al potentissimo Congresso statunitense, che non esita a bocciare tutte le richieste presidenziali non gradite. Nel nostro Paese un Parlamento debole, che già oggi si trova in condizione di minorità rispetto al Governo (vero dominus dei lavori parlamentari), finirebbe per indebolirsi ulteriormente, rischiando così di trovarsi al servizio di un despota democraticamente eletto. In un contesto del genere, prima di ogni altra cosa ci si dovrebbe chiedere se non sia più saggio cercare di far funzionare il Parlamento meglio di quanto non abbia sin qui fatto, razionalizzandone i lavori, i compiti e il ruolo. Perché di questo avremmo certamente un gran bisogno.
A queste considerazioni se ne deve aggiungere una ulteriore, fondamentale nel contesto italiano che assegna alla presidenza della Repubblica il ruolo decisivo di garante politico della Costituzione. Un compito che si è rivelato sempre più spesso risolutivo, soprattutto nelle ricorrenti fasi di lacerante crisi del sistema politico. Ora, è un fatto che, qualunque sia la scelta sul tipo di presidenzialismo e gli effettivi poteri assegnati ai singoli organi costituzionali, un Presiedente eletto verrebbe trasformato nel titolare di poteri di governo, e non sarebbe più un garante. Dovremmo dunque rinunciare all’unico organo realmente autorevole di salvaguardia degli equilibri costituzionali attualmente operante. Non a caso si è fatto presente che subito dopo la riforma Mattarella dovrebbe dimettersi per lasciare il posto a ben altra figura, con poteri di tutt’altra natura. Possiamo permettercelo?
La possibilità di una torsione autocratica, già latente nel sistema, dovrebbe dissuadere chiunque dal provare a giocare con il fuoco. Se non siamo né gli USA né la Francia, dove le forme di governo presidenziali o semipresidenziali sono riequilibrate da solidi contrappesi che noi non abbiamo, il rischio è quello di partire per cercare di raggiungere New York o Parigi, ma di ritrovarsi poi a Budapest, ad Ankara o a Mosca. E questa non è solo una metafora.
Per quanto riguarda l’autonomia differenziata, si scrive che in fondo non si tratterebbe altro che di dare attuazione alla Costituzione (all’articolo 116, comma 3). Dunque, i timori di “stravolgimento” sarebbero infondati. In questo caso non si considera la realtà dei fatti e le intenzioni espresse (anzi gli atti già compiuti). Le richieste delle Regioni operano entro una logica di mera appropriazione delle funzioni da parte dei territori economicamente più forti. Una sostanziale “secessione dei ricchi”. Ne è riprova la richiesta di Veneto e Lombardia di ottenere tutte le possibili materie di devoluzione, nessuna esclusa. Un tentativo di mera appropriazione delle risorse e volontà di gestione diretta dei servizi pubblici essenziali. È in questo contesto che si rende palese il rischio di un’attuazione dell’autonomia differenziata che operi in violazione dei principi supremi della Costituzione. Basta qui ricordare l’articolo 5 della Costituzione (esplicitamente un “principio fondamentale” non derogabile), che riconosce e promuove le autonomie locali, ma a condizione che si preservi l’unità ed indivisibilità della Repubblica. La domanda che dovremmo seriamente porci allora è la seguente: siamo sicuri che attribuire in via esclusiva ad alcune regioni, fatti salvi i livelli essenziali, materie come sanità, scuola, lavoro ci faccia rimanere ancora una nazione, “una e indivisibile”?
La nostra Costituzione, inoltre, garantisce a tutti i diritti inviolabili su tutto il territorio nazionale. Non è solo il più volte richiamato articolo 117 che prevede che sia lo Stato a determinare i livelli essenziali delle prestazioni in materia di diritti civili e sociali, ma è anche l’articolo 2 (altro “principio fondamentale” non derogabile) che impone di riconoscere e garantire i diritti inviolabili e richiede a tal fine l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. In questo caso ci si deve seriamente domandare se si possa attribuire in via esclusiva alle regioni – bene che vada, fatti salvi i lep – i nostri diritti fondamentali, senza per questo incrinarne la tutela e l’effettività.
Al fondo è il disegno complessivo definito in Costituzione che viene stravolto. Si vuole passare da un regionalismo solidale a uno competitivo che l’Italia, con i suoi squilibri economici e territoriali, non potrebbe reggere. La corsa ossessiva all’appropriazione delle funzioni (tutte quelle collegate alle materie indicate nell’articolo 116, comma 3) finisce per offuscare il vero principio che dovrebbe costituire la bussola per legittimare la più ampia autonomia: quello della “differenziazione” che dovrebbe collegare il decentramento ai diversi bisogni delle regioni.
Il rischio è quello di spaccare l’Italia, con l’accentuazione di nuove e gravi sperequazioni tra territori. Tra nord e sud, ma anche tra Regioni a statuto speciale, Regioni a statuto ordinario e Regioni con condizioni particolare di autonomia. Una “Babele” che questa ipotesi di autonomia differenziata porta con sé. Non mi pare la soluzione migliore, meglio fermarsi e tornare a riflettere sullo stato delle autonomie e le ragioni della differenziazione.
Vorrei concludere fornendo l’indicazione di una diversa prospettiva. Se volessimo finalmente dare attuazione al regionalismo in Italia, per come previsto in Costituzione, dovremmo iniziare a costruire dalle fondamenta e non dal tetto. E queste sono iscritte non nell’articolo 116, comma 3, ma nel successivo articolo 119, che prevede di istituire un fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, nonché risorse aggiuntive per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale. Una volta ristabilita l’eguaglianza sostanziale ed avvicinate le condizioni di fatto tra i cittadini (come pretende il “principio fondamentale” e non derogabile di cui all’articolo 3), si potrà allora pensare a come devolvere funzioni al fine di assicurare il rispetto dei principi di decentramento amministrativo e le esigenze dell’autonomia in armonia con i principi fondamentali degli articoli 2, 3 e 5.
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